Capovilla revisited | Cento frutti ed una botte di rum (per tacer della birra)

Capovilla revisited | Cento frutti ed una botte di rum (per tacer della birra)

di Thomas Pennazzi

La visita alla distilleria Capovilla di Rosà riserva inesauribili attrattive, anche una seconda volta: l’occasione mi è stata fornita da Marco Cremonesi, giornalista del Corriere della Sera e scrittore di mixology, che non vi era mai stato; ottima scusa per accompagnarlo.

L’attività del’opificio ruota attorno a due numi tutelari, il maestro creatore degli spiriti e l’albero totemico di casa Capovilla, il sacro gelso che accoglie il visitatore sotto le sue fronde ombrose, amorevolmente curate dalla mano di un altro valente artefice, Joško Gravner.

I distillati di frutti, colpevolmente così poco conosciuti ed amati dall’italico bevitore, sono quanto di più delizioso ad alta gradazione ci si possa concedere in estate: freddi o ancor meglio versati nel bicchiere ghiacciato, mai però diluiti dal ghiaccio. Sono creature sbarazzine, sensibili quando non esili, il cui canto consiste di uma nota só, come la celebre bossanova di Jobim; non vi impegneranno il palato se non deliziandolo col ricordo di un frutto, o con la sua trasfigurazione. Raramente lo spirito vi soverchierà il palato, ma quando capita ne sarete irretiti a vita: è la magia di pochi frutti però, quasi tutti a nocciolo, oltre alle pere ed al lampone.

Tuttavia le sorprese sono innumerevoli: Vittorio «Gianni» Capovilla ed il suo team sono instancabili ricercatori, e dove c’è un frutto selvatico od insolito, se lo vanno a raccogliere o se lo fanno inviare, e lo sottopongono alle loro alchimie. Più volte mi sono chiesto se l’uomo avesse mai distillato il tale o il talaltro frutto: la risposta era invariabilmente positiva.

Arrivando abbiamo trovato il magazzino ribaltato dall’occhiuto artiglio degli agenti doganali: bidoni piccoli, grandi, grandissimi, botti, tutto passato al setaccio perché non sfugga alla tassa nemmeno l’ultima goccia di spirito. È stato subito chiaro che il catalogo di ciò che viene imbottigliato per la vendita rappresenta una piccola parte del lavoro di questo artista, perché chiamarlo artigiano sarebbe riduttivo. Molte sono le acquaviti che riposano nei fusti, qualcuna dorme da anni il sonno del giusto, aspettando il travaso e la futura celebrità, altre sono strade che non hanno condotto alla perfezione sperata. Ma dovevano essere battute, ed i frutti sottoposti alla prova del fuoco, perché Capovilla è uno sperimentatore nato, e l’arte si affina con l’esperienza e con l’errore.

La giornata è stata allietata da una gioiosa ricorrenza, l’importante compleanno di Gianpaolo Giacobbo, ben conosciuto nell’enomondo e sulle nostre pagine: è venuto a trovarci in distilleria, e siamo stati felici di onorarlo con un paio di ombre e qualcosa di più. Erano appena arrivate in azienda due botti di rum, e abbiamo quindi assistito alla loro apertura ed ai saggi preliminari all’imbottigliamento. Spiriti pieni, orgogliosi, a gradazione piena, nulla a che vedere con le schifezze affatturate che abitualmente troviamo nei bar e nelle enoteche in bottiglie dalle capricciose confezioni: è bastato far saltare il tappo di una di queste botti per riempire l’aria di densi aromi di melassa, esattamente ciò che ci si aspetta da un rum vigoroso delle Antille. Ingolositi, non potevamo esimerci dall’assaggio en primeur di un ditale di questi nettari tropicali: che incanto!

Ma perché Capovilla è così interessante rispetto ad altri produttori di acquaviti di frutta? È presto detto: l’azienda cerca di distillare frutti di qualità superiore, quando non spontanei; anche le fermentazioni sono spontanee, con i soli zuccheri della frutta. Niente lieviti selezionati, niente zuccheri aggiunti, niente macerazioni dei frutti in alcool, niente aromi: tutto il profumo ed il sapore delle acquaviti sono il risultato della concentrazione del frutto fermentato, e dei suoi buoni caratteri originari.

Va da sé che quando la materia prima è scarsa in zuccheri fermentabili servono quantità imponenti di frutti per ottenere un litro di distillato; ed ecco spiegata la ragione del prezzo elevato di molti dei suoi prodotti. Ma basteranno poche gocce per convincervi della bontà della spesa: i rivali di Capovilla sono pochi, non sempre così bravi, e spesso più costosi. Ve ne potrei fare i nomi, tutti d’Oltralpe, ma non è gentile.

Le bottiglie della ditta sono volutamente di un’eleganza minimale: non servono a sviare l’attenzione dal contenuto, un vecchio trucco del marketing, ma a farvi pensare a quello che troverete una volta aperto il tappo, attraverso l’evocativo colore delle ceralacche.

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Gli assaggi che ci sono stati offerti, innumerevoli, hanno confermato la costante ricerca della qualità in ogni acquavite: ognuno può trovare il suo distillato tra questi perché il catalogo è più ampio di quanto si può immaginare. Ma stavolta mi sono soffermato incuriosito sui distillati di birra.

La tipologia è poco frequente anche nelle contrade germaniche, e di uso recente nelle agguerritissime microdistillerie USA, grandi sperimentatrici non soggette ad alcuna regola, a differenza dell’Europa. Voi ingenuamente penserete: «Ma quante storie ci racconta. Allora è whisky!». E invece no, signori miei: si tratta proprio di birra da bere, con tutti i suoi luppoli, cosa che differenzia i due distillati fratelli. Una volta passata per l’alambicco, la birra rende uno spirito bianco, che offre al naso un fruttato indefinibile. A non saperlo, lo credereste un frutto insolito, segnato da una sottile vena erbacea; non arrivereste mai a capire qual è la materia prima, e nemmeno io, lo confesso.

Tre sono i Bierbrand di casa Capovilla: la base è la birra triestina Theresianer per il distillato bianco e l’invecchiato, e, in collaborazione con il birrificio belga Caulier, c’è anche un distillato di una loro birra chiamato «Spirit 28 – Eau de vie de Bière». Il primo è piacevolissimo, immagino ancora di più freddo, ideale intermezzo tra un birra e l’altra, per pulirvi la bocca dai luppoli all’uso teutonico (caveat: fatelo solo se avete chi vi riporta a casa, dopo. Nelle grandi birrerie di Monaco un tempo si provvedeva alla bisogna con un inserviente munito di un apposito carretto, ed il prezzo del trasporto era offerto al cliente beone). Il secondo, a gradazione maggiore, e invecchiato qualche anno, deposita sulla base bianca del Bierbrand (tale è il suo nome legale in Italia) una pennellata di rovere dolce, che non dispiace, e arricchisce la materia di colore e toni rotondi ed armonici. Lo Spirit 28 infine è una quintessenza di piacere: il malto della ricca birra base belga si spiritualizza e si concentra, regalando uno squisito senso di appagamento, tutto in finezza.

La domanda che mi ponevo bevendo questi distillati, e che ho dimenticato di rivolgere al Maestro, è cosa potrebbe risultare distillando un lambic. Queste birre acide così genuinamente belghe hanno in comune con i frutti la fermentazione spontanea, e incontrano a puntino la filosofia di Capovilla. Devo parlargliene una volta, sai mai che gli si accenda una nuova lampadina.

Abbiamo concluso la visita con un sorso di uno splendido lampone, il distillato che forse è il più sontuoso della famiglia dei frutti. Se alcune acquaviti non mi avevano convinto appieno, questa mette a tacere ogni dubbio: è un Capo-lavoro.

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

1 Commento

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Denis Mazzucato

circa 7 anni fa - Link

Arriva un nuovo Liberation?

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