Anche il Moscato d’Asti invecchia bene, ciao Emilio Vada

Anche il Moscato d’Asti invecchia bene, ciao Emilio Vada

di Jacopo Cossater

Di Moscato d’Asti con qualche anno sulle spalle non avevo alcuna esperienza. Zero totale. In merito l’unica cosa che ricordavo con una certa chiarezza era tra l’altro non una particolare bottiglia ma un articolo letto qualche anno fa su Vitae, la rivista dell’AIS, a firma di Armando Castagno (link, apre PDF): una splendida retrospettiva dedicata a uno dei Moscato d’Asti più noti, il Vigna Vecchia di Ca’D’Gal. Che io sappia, ma correggetemi se sbaglio, l’unico a uscire sul mercato a distanza di un certo numero di anni dalla vendemmia, ben 5, e a permettersi un prezzo sullo scaffale più da grande rosso delle vicine Langhe che, appunto, da Moscato d’Asti.

Il problema – mi racconta Emilio Vada – è che già adesso a metà novembre i clienti cominciano a chiedere quello che abbiamo vendemmiato quest’anno. Non se ne esce, non c’è cultura in questo senso, il mercato si aspetta sempre il prodotto più fresco possibile“. Un peccato, penso mentre sorseggio il suo 2018, vino che tra l’altro mi sembra particolarmente integro, didascalico nell’esprimere tutto quello che ci si dovrebbe aspettare da un buon Moscato d’Asti d’annata. “Non è un caso, l’imbottigliamento di marzo/aprile sarà sempre, sempre più buono di quello di novembre; è una questione di fisica: il vino ha avuto più tempo per maturare in vasca prima della filtrazione che precede l’imbottigliamento“.

Emilio Vada, Moscato d’Asti 2018
Paglierino chiaro, dal perlage tanto fine quanto rarefatto. Pesca bianca, scorza di limone, sentori di fiori bianchi non senza una folata di menta e di salvia a impreziosirne il quadro aromatico. È vino soffice in un modo che colpisce, la cui spuma non incide in termini di freschezza ma soprattutto di morbidezza. Non pesa, nel senso che è vino che fa della leggerezza il suo timbro più riconoscibile, e non mi riferisco tanto al basso grado alcolico, sempre al 5,5%, quanto allo scarso peso specifico. Traduzione: si beve con una facilità disarmante.

Quando Emilio Vada mi ha proposto una piccola verticale di sue bottiglie per capire un po’ meglio il mondo del Moscato d’Asti non ho potuto che accettare con grande entusiasmo: quando ricapita, mi sono detto. Anche perché è vino che frequento pochissimo, che bevo una manciata di volte l’anno (sono tra quelli che ne stappa sempre più di una durante le feste con il classicissimo panettone) e su cui per primo non ho mai fatto particolare ricerca. Per dire, tengo sempre in cantina un paio di bottiglie di quello di Bruna Ferro, di Carussin. Ho un legame particolare con quello che produce la famiglia Vaira, a Barolo. Dagli amici ogni tanto spunta fuori una bottiglia di Anarchia Costituzionale di Walter Massa, che però è un generico vino frizzante. Poi Bera, La Morandina, Saracco, Vietti e pochi altri quelli che ho assaggiato negli ultimi 2/3 anni, oltre al già citato Ca’D’Gal.

Emilio Vada, Moscato d’Asti 2016
Il colore è appena più carico, sfumatura che si nota solo con i bicchieri affiancati, sempre dal perlage molto fine. Basta però infilare il naso nel bicchiere per accorgersi di quanto le cose siano diverse rispetto al 2018: la frutta è decisamente più matura su note di pesca gialla, di melone, in generale di agrumi pronti per essere mangiati, quando sono ricchi di succhi. Si beve che è un piacere grazie a una freschezza che è ancora il tratto distintivo dell’assaggio e che ammicca a una certa idea di mineralità gessosa. Sensazione, questa, che si amplifica dopo il sorso grazie a una scia aromatica che richiama alcuni idrocarburi. Da bere (nel senso che oggi appare assaggio particolarmente compiuto, che dopo 3 anni di bottiglia ha raggiunto un bell’equilibrio tra immediatezza e maturità).

Emilio Vada

L’azienda Agricola di Emilio Vada si trova a Coazzolo, piccolo comune a ridosso di quella linea che divide il Monferrato dalle Langhe, la zona di produzione del moscato da quella del nebbiolo. A partire da qui e andando verso sud-est, verso Mango e verso Cossano Belbo, e poi verso nord-est, verso Santo Stefano Belbo e Canelli, si trova una buona parte della zona considerata come classica per la produzione del Moscato. “Come tutti abbiamo sempre venduto l’uva, e tutt’ora la stragrande maggioranza del nostro lavoro va in quella direzione. La mia prima annata? La 2012, avevo finito la scuola enologica e volevo provare a vinificare le uve di casa, volevo cimentarmi con la produzione. Non solo moscato ma anche un po’ di Barbera, di Dolcetto e di Nebbiolo“.

Emilio Vada, Moscato d’Asti 2015
Il colore è carico, con evidenti riflessi dorati. È Moscato ricco, colorato, denso di un’energia che si esprime anche in termini olfattivi: confettura di pesca e di albicocca, agrumi canditi, orzata, soprattutto menta. Muscoloso, pur essendo il Moscato d’Asti vino che fa della leggerezza il suo tratto distintivo colpisce per una certa goffaggine, specie se paragonato all’agilità con cui si muovevano i 2 precedenti assaggi. Anche sul finale appare più stanco, e infatti è quello su cui sono tornato il minor numero di volte.

La verità è che nonostante sia vicinissimo alla zona di produzione del Barbaresco, appena un paio di chilometri in linea d’aria, figurati che a Neive vado sempre a fare aperitivo, i nostri sono mondi lontanissimi. Pensa – continua Emilio al telefono – che fino a una decina di anni fa, l’Asti Spumante contava 85 milioni di bottiglie e il Moscato d’Asti circa 5. Oggi questo rapporto è cambiato profondamente, l’Asti Spumante è entrato in crisi e produce due terzi di quella cifra. Il resto è tutto Moscato d’Asti, oggi se ne fanno 30 milioni di bottiglie, è evidente che non ci possa essere qualità su questi numeri e con questi prezzi così bassi. Tutte bottiglie della cosiddetta industria, quella che in modo indiretto attraverso l’imposizione delle rese per ettaro fissa il prezzo delle uve, anche perché il numero delle bottiglie dei più piccoli negli anni è rimasto stabile. Su 3.700 contadini saremo in 50 a fare vino, qui da sempre si coltiva e si vende“.

Emilio Vada, Moscato d’Asti 2014
Dal colore ancora più carico, dorato e luminoso, colpisce per uno spettro olfattivo che così, alla cieca e su due piedi, potrebbe far pensare ad altre varietà e ad altre latitudini tanto sono netti i sentori di idrocarburi che lo caratterizzano. Solo dopo qualche istante, facendo più attenzione, emerge inconfondibile quella nota aromatica che delinea il Moscato. È però assaggio il cui filo conduttore rimane fino alla fine quello della mineralità, gasolio e canfora, una timbrica di particolare fascino che avvolge e che scalda nonostante sia vino che rimane ancora piuttosto fresco nella sua sussurrata vena di acidità fruttata. Io l’ho trovato strepitoso, affascinante, delizioso anche perché ogni volta diverso nel suo continuo mutare nel bicchiere, a differenti temperature.

Emilio Vada

I terreni qui non sono così diversi da quelli classici di langa, sono di medio impasto, argilla e calcare. Il moscato è pianta che arriva abbastanza facilmente a maturazione ma questo non vuol dire sia facile da lavorare. Le nostre vigne sono di 40/50 anni e il periodo di vendemmia come puoi immaginare varia da annata ad annata. Nel 2017, annata molto calda, abbiamo iniziato a raccogliere il 2 agosto. Quest’anno, annata più regolare, intorno all’8/9 settembre. La vendemmia è forse il momento migliore per capire il Moscato: è uno dei pochi  vini che ha lo stesso gusto dell’uva matura, assaggiare un grappolo maturo è come bere un bicchiere di vino“.

Emilio Vada, Moscato d’Asti 2012
Ambrato e sorprendentemente caratterizzato da un perlage di grande finezza, vivo e vivace. Più crostata di agrumi che piccola pasticceria anche se il richiamo ai dolci rimane nettissimo. Sorprendentemente agile, da tale e tanta importanza aromatica ci si aspetterebbe un maggior peso. E invece no, lui prende e va nella sua direzione, funziona proprio perché ancora leggiadro ancor prima che leggero, nonostante un incedere che si fa inesorabilmente più lento. È assaggio che sembra vivere in dimensioni opposte che riescono a incontrarsi: da una parte lo sfarzo barocco derivante dalla terziarizzazione di molti dei suoi elementi, dall’altra quella levità che fa parte del suo dna. Tra i 5 non quello più immediato per beva ma certamente quello che dimostra quante diverse direzioni può prendere il Moscato d’Asti con il passare del tempo.

A distanza di qualche ora la conversazione telefonica si è spostata su WhatsApp per un paio di chiarimenti e si è conclusa così: “Non invecchia come un Barolo, ci mancherebbe, ma sarebbe comunque bello far capire che un Moscato si può – e si dovrebbe, aggiungo io – bere dopo anche 1/2 anni“. Tutti i migliori Moscato d’Asti, non solo quello di Emilio.

[Immagini: Emilio Vada]

Jacopo Cossater

Docente di marketing del vino e di giornalismo enogastronomico, è specializzato nel racconto del vino e appassionato delle sue ripercussioni sociali. Tra gli altri, ha realizzato i podcast Vino sul Divano e La Retroetichetta, collabora con l'inserto Cibo del quotidiano Domani e ha cofondato il magazine cartaceo Verticale. Qui su Intravino dal 2009.

1 Commento

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Nic Marsél

circa 4 anni fa - Link

Grazie della dritta. Assaggerò a Piacenza la prossima settimana ;-) Spesso il problema del Moscato d'Asti è l'elevata presenza di solfiti. Mi piacerebbe capire quanto la solforosa influenzi il potenziale evolutivo.

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