A Teranum 2018 ho perso di nuovo la testa per etichette zeppe di consonanti

A Teranum 2018 ho perso di nuovo la testa per etichette zeppe di consonanti

di Sara Boriosi

Ho partecipato a Teranum e i vini rossi del Carso 2018 in compagnia di Monica Coluccia ed Emanuele Giannone, con i quali ho condiviso il tavolo di degustazione dal tema “Il vino della lontananza. Storia di affetto e passione”. 

Difficile trovare una collocazione tra Monica ed Emanuele; la prima è dotata di un palato fuori dal comune, capace di scovare profumi archiviati negli anfratti della propria memoria olfattiva; l’altro che sa coniugare la poetica di Srečko Kosovel – l’Usignolo del Carso – con il lavoro in vigna dei produttori che hanno partecipato alla degustazione.

Il tuo compito è entrare nei discorsi a gamba tesa per dire le cose che dici sempre; quello di Giannone è un imperativo che non so ancora interpretare, nonostante siano passati un bel po’ di giorni.

Per me il Carso, più che un luogo fisico, è uno stato d’animo nel quale la luce bianca delle giornate fa da contrappeso alla malinconia del paesaggio scarno, essenziale come i carsolini: donne dall’eleganza stravagante e misurata, uomini fatti della stessa sostanza delle sequoie. Persone di poche parole, che si imbarazzano facilmente se sollecitati da troppe domande, e bisogna fare attenzione a non confondere la timidezza con la chiusura, perché per caratteristiche dovute alla geografia, i carsolini sono abituati ad accogliere. E lo fanno con generosità genuina e mai chiassosa.

Nel Carso ho iniziato a bere con cognizione di causa, perdendo la testa e il cuore per etichette piene zeppe di consonanti: nomi duri, poco evocativi.

Bevendo un Terrano, il mio primo Terrano, ho dovuto abbassare le difese nei confronti di un’ombrina cruda: solo allora ho capito che non era vera la legge che impone la relazione tra pesce e vino bianco. Ma allora ero una giovane di poca esperienza e parecchia curiosità, e ci sono volute molte altre bevute per capire fino in fondo che sono le differenze, gli opposti a rendere sapida la vita.

La stessa sapidità che si ritrova in questo vino strano, dal profumo morbido, pieno di frutta, vinoso e invitante, che si contrappone a sorsi spigolosi, di ferro e pietra, tesissimi e sorprendenti.

Vino della lontananza, dunque. Avrei voluto sedermi tra Monica ed Emanuele e parlare della lontananza cronologica che mi porta a pensare con affetto a ciò che ero e ciò sono diventata, e trovare le parole per spiegare che il terrano è una dolce, terribile madeleine che mi tiene agganciata a un ideale di pienezza di vita che con il tempo si è trasformato in altro.

Ma non c’era spazio per queste considerazioni, per fortuna. Perciò, in compagnia di Monica ed Emanuele, mi sono abbandonata al primo assaggio di Terrano.

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Bajta 2016, vino amichevole dal frutto più ampio che ruba il posto all’acidità, senz’altro più contenuta rispetto agli assaggi che ricordavo. Hanno mandato i grappoli ai bagni dice il produttore, a indicare una piena maturazione dell’uva che regala una bevuta fresca di acidità tesa, tipica del Terrano, e morbidezza di frutta rossa. Vino semplice e immediato.

Milič 2015, Terrano meno condiscendente, cupo e scorbutico. I contrasti sono netti: ferro e velluto, spigoli vivi e polpa di ciliegia. Come certi caratteri incomprensibili e intriganti. A parlarci del Carso, più che del vino, è la giovane figlia del produttore. Noi, il suo pubblico, ascoltiamo trattenendo il fiato per non interrompere l’enfasi di questa ragazza che si presenta in abito tipico, fiera e timida, mentre ci racconta il suo vino senza mai menzionarlo.

Skerk 2015, profondo e coerente, dal colore brillante e vivo. Al naso si aprono profumi forti di erbe officinali, che si ritrovano in bocca accompagnate dalla solita, sorprendente sapidità alla quale non ci si abitua mai. Il terrano è lì, evidente.

Čotar 2011 salino più che mai; l’annata calda ha reso più docile l’acidità e il tempo sottolinea una piacevole speziatura al naso e in bocca. Sì, il Terrano può invecchiare, ne abbiamo una prima conferma che si andrà ad approfondire durante gli assaggi.

Zidarich 2009, ci dice che il tempo può passare mantenendo un’anima da ragazzi. Probabilmente è l’assaggio più elegante e composto, dalla freschezza immutata, frutto ancora croccante e sapidità sotto controllo; una nota affumicata accompagna il sorso, è il Terrano dei miei ricordi. Mi sento quasi felice.

Skerlj 2007, il produttore ci ricorda che in quell’anno lui ne aveva ventisette, e mi ritorna la malinconia. Fortunatamente il vino ha la meglio: non importa quanto tempo sia passato se la freschezza è integra ed energica, quasi sdoma. Al naso e in bocca si percepisce una balsamicità che rende il calice più complesso, fatto di sottobosco e resina. Un contrasto irresistibile, peccato siano rimaste pochissime bottiglie in circolazione.

Renčel 2006, un Terrano che proviene al di là del muro, dice scherzando il produttore  Joško  – un uomo dal viso gioviale – in un italiano stentato. Il suo vino è prodotto da vecchie viti generose. Il vino che annuso è il più cupo tra tutti i Terrano testati. Cupo, profondo e salato; in questo assaggio più che mai mi sfugge l’anima di questo territorio fatto di pietra dura spolverata da manciate di terra rossa, eppure sento che il mistero di un vino fatto di contrasti profondi è tutto lì.

I successivi assaggi sono di tre produttori, Kocjančič, Leonardon e Grgic: quello che nel Carso si chiama terrano qui è refosco, stessa barbatella per terreno diverso, non più pietra e terra rossa ma flysch. Qui i vini sono più gentili, dalla spigolosità controllata; il sale non impera nel bicchiere, i frutti di bosco regalano vini affatto complicati, più espliciti.

Terminati gli assaggi guidati, io e i miei compagni ci siamo persi tra i banchi di degustazione rimanendo sorpresi dalla partecipazione del pubblico, quasi certi che non siano tutti addetti ai lavori; il Terrano è un vino dalla personalità unica, distinguibile: inevitabile che sia celebrato con tanta partecipazione.

Ci organizziamo per passare al meglio le ultime ore prima della partenza, scegliendo un’osmiza per bere un bicchiere vitovska e riequilibrare il palato prima di andare a sfinirci di maialino cotto nella peka. Nei pensieri cerco di allontanare più possibile l’idea del rientro in città. Per me il Carso è casa, anche se non capisco perché: la mia storia di famiglia non arriva a toccare quelle latitudini, eppure mi trovo così bene in mezzo a questa gente così riservata, dalla vita essenziale, dove il ritmo circadiano non è mai forzato da necessità esterne.

Mentre mando giù il boccone di maialino accompagnato da un ultimo sorso di Terrano, mi convinco che non sarò mai capace di descrivere con sufficiente distacco sia il vino che il suo strano territorio, mentre conto quante settimane mancano alle vacanze estive, quando tornerò ancora qui nella speranza di capire perché sono legata a doppio filo al Carso.

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Sara Boriosi

Vivo come un’estranea nella provincia denuclearizzata, precisamente a Perugia. Bevitrice regressiva, il mio cuore appartiene al Carso. Dotata di una vena grottesca con la quale osservo il mondo, più dei vini mi piace scrivere delle persone che ci finiscono dentro; lo faccio nel mio blog Rosso di Sara ma soprattutto per Intravino. Gestisco con godimento la migliore enoteca della città, ma lo faccio piena di sensi di colpa.

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