La cucina bella e possibile di Davide Oldani
di Leonardo RomanelliDifficile rimanere tiepidi di fronte ad un cuoco come Davide Oldani: riesce a scatenare reazioni diverse e contrarie, c’è chi lo ama e chi non lo sopporta (odiare no, è indubbiamente eccessivo). Sarà perché è bello e ha il physique du rôle che manca a molti? Non basta l’invidia a giustificare un atteggiamento negativo verso chi è riuscito a creare un modello economico di alta ristorazione unico, sostenibile da un punto di vista economico, ad oggi non copiato, il che pare quasi assurdo.
Ecco, forse è quello: essere unici provoca quasi fastidio in chi ama solo l’ordine costituito secondo uno schema preciso e non apprezza chi decide di intraprendere nuove strade. Nella frase “Cucina pop”, titolo di uno dei suoi libri più famosi, si racchiude l’essenza del suo credo: una cucina non popolare, intesa come semplice e tradizionale, ma accessibile a tutti, in forme, sapori e soprattutto digeribilità. Insomma, quante volte si è sentita ripetere la frase che in certi ristoranti ci si può andare solo ogni tanto e, malgrado l’esperienza “bellissima, incantevole, eccezionale”, i ricordi notturni non sono stati esattamente positivi?
L’idea di mangiare tutti i giorni da Oldani è gradevole, un pensiero che non disturba. Sarà il luogo, ora che nella nuova sede la sala è una propagazione della piazza, con i vetri che permettono di vedere cosa succede all’interno del ristorante: l’arredamento è funzionale, non ingombrante, comodo, i colori rilassano. Altro aspetto che può dar noia a molti: lo chef vuole essere anche ristoratore nel senso ampio del termine: è la sua casa e quindi non solo sceglie ma diventa lui stesso creatore di posate, interior design e tutto quello che sta attorno al cibo.
In sala ci si muove insieme alla cucina, personale giovane e sorridente, elemento non trascurabile. E poi i vini: trovare un posto “stellato, cappellato e forchettato”, dove c’è la possibilità di scegliere vini a 20 euro, frutto sempre di ricerca, passione e interesse, spiega come nessun elemento venga messo in sottordine, quindi la fruibilità è la prima regola, inutile avere vini interessanti a prezzi proibitivi.
E il cibo? Potremmo parlare della cipolla caramellata, ma è già diventata un classico, forse è quasi inutile. Potremmo partire allora dai menu a disposizione, 4 tipologie, nati dalle “Lezioni americane” di Italo Calvino. Perché? Beh chiedetelo a lui, e questo a me, insegnante, serve a far capire ai miei alunni come ci sia bisogno di leggere, studiare e conoscere per fare bene il cuoco.
Rapidità
Non fretta ma valorizzazione del tempo, anche se ne ho poco, lo utilizzo bene: 3 portate 32 euro
Armonia
Il concetto di equilibrio che prende forma, leggerezza che non significa mancanza di gusto, 6 portate 75 euro
Esattezza
Proposta di piatti della tradizione fatti con cura e amore, 3 portate a 49,50 ma i piatti sono ordinabili singolarmente
Molteplicità
La carta vera e propria, si può scegliere a piacimento, tenendo conto che 4 portate arrivano ad un massimo di 56 euro. Il tutto con servizio e coperto compreso: questi sono i fatti, non chiacchiere in libertà.
Dove eravamo rimasti? Alla cipolla che è un classico ma, a seconda della stagione e a quando ci capiterete, potrete intanto leccare il piatto. Sì, letteralmente leccarlo: la forma l’ha scelta Davide per non imbarazzare nessuno, ogni volta cambia quello che ci si trova sopra. Da provare il crumble di cavolfiore cotto, crudo, morbido croccante acido basico, tutti i contrasti insieme per un risultato appagante e goloso. Il carciofo alla “Giudìa” si nasconde, in verità, sotto una cialda croccante con scorza di limone rinfrescante.
Si gioca in cucina per giocare a tavola, ecco perché la triglia di scoglio servita con verdure al cartoccio viene mangiata completamente… no, non le lische o la testa, ma proprio il cartoccio. E gli spaghetti cacio, pepe e rafano? Anch’essi si scoprono all’ultimo con un gesto rapido e piacevole del cameriere, che li rivela sotto una coperta argentata.
I sapori? Precisi, netti, di bella durata. Momento di rilassamento con topinambour, polvere di pancetta, taleggio ghiacciato e riso, e poi la proposta di una revisione doverosa e azzeccata di un grande classico internazionale: il filetto alla Wellington. Uno dei piatti che ha popolato la mia esperienza di studente di scuola alberghiera, il moloch con cui confrontarsi: grasso, ricco, pesante, solo bello da vedere ché del gusto ce ne importava nulla dopo aver passato il tempo a prepararlo.
Qui da Oldani è a porzione singola, con brodo di funghi e cera d’api e mangiarlo ad occhi chiusi fa ripartire la memoria senza che lo stomaco ceda.
I dolci: il soufflè gianduja, sorbetto di salvia e menta è il giusto mix tra quelli moderni senza zuccheri, e l’eccesso del passato, quando erano troppo dolci. Chiusura con sorriso, per come arriva quasi a sorpresa.
E alla fine è bello alzarsi e fermarsi in piazza, fare due passi e scoprire che le cattedrali del gusto sorgono anche in periferia.
(photo credits: Brambilla-Serrani, Beppe Raso)
1 Commento
Elisabetta
circa 7 anni fa - LinkMitico Davide Oldani!
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