Un impegno preciso: creare nuove viti che resistano alle malattie. Qui si fa la storia del vino

di Alessandro Morichetti

Che sia il tema del giorno, della settimana, del mese, dell’anno o del decennio non è dato sapere. Certo è che il titolo roboante invita a spalancare le orecchie e sintetizzo l’articolo di Luciano Ferraro sul Corriere della Sera: “Expo, la sfida dei Cavalieri delle vigne: le piante che non si ammalano“. Tralasciamo per un attimo che la pagina del quotidiano di via Solferino trasudi Expo in ogni centrimeto cubo.

Scrive Ferraro: “È la prima volta che si ritrovano tutti assieme (Attilio Scienza, Domenico Zonin, Marcello Lunelli e altri, i cosiddetti “Cavalieri delle Nuove Viti”) per definire il fine del loro sodalizio: creare nuove viti che resistano alle malattie. È l’inizio di un nuovo capitolo della storia del vino: i capitani dell’industria dei filari finanziano le università per far crescere piante che inquinano meno e non che producano di più.

Come abbiamo già scritto attenendoci alle parole di Attilio Scienza, biologico e biodinamico non sono una risposta su larga scala alla malattie della vite e, probabilmente, nemmeno un palliativo. Qui siamo oltre e lo scopo “è ottenere piante prive di malattie, in modo che le uve trasformate in vino non contengano tracce dei trattamenti usati per evitare guai a volte mortali per la vite, come la peronospora o l’oidio.”

Dice Scienza: “Qualcuno sostiene che la genetica sia violenza sulla natura, senza pensare che nell’evoluzione genetica c’è la nostra evoluzione. Le viti resistenti sono Il futuro”. Aggiunge Eugenio Sartori, alla guida dei Vivai Cooperativi Rauscedo, numero uno al mondo nella produzione di barbatelle: “Assieme ai lavori di ibridazione anti fillossera, dal 1965 selezionano i cloni di molti vitigni. Ma la forza di questa tecnica si è esaurita, solo per il Sangiovese ci sono già 130 cloni iscritti al registro nazionale. Le viti sono migliorate in questi decenni, però sono rimaste grosso modo le stesse, mentre si sono evoluti i vettori delle malattie, funghi e insetti, costringendo a usare prodotti con nuove molecole, oltre a zolfo e rame” (come nelle cure alle persone, con farmaci nuovi e più potenti contro i virus che evolvono). Fino a far diventare la viticoltura l’attività agricola con il maggiore uso di fitosanitari.”

Una strada già percorsa è quella dei vitigni resistenti a oidio e peronospora (“Fleurtali, Soreli, Julius e alcuni Cabernet, Merlot e Sauvignon”) e i benefici vengono presentati né più né meno come la scoperta della penicillina: “Nelle degustazioni alla cieca non si distinguono il nuovo vitigno da quello d’origine. I viticoltori del Rio Grande, del Prosecco bellunese o del Collio Sloveno, zone con piovosità elevate che favoriscono le malattie delle viti, sono stati i primi a interessarsi a questa scoperta. Come le aziende che puntano sulla sostenibilità e quelle vogliono ridurre i trattamenti con fitosanitari perché si trovano a ridosso delle abitazioni“.

L’altra strada possibile, invece, è quella del genome editing già prefigurata da Scienza. Copincolliamo le parole di Claudio Moser della Fondazione Mach: “Viene modificata la sequenza del genoma della vite. Un intervento di microchirurgia del Dna per disattivare un gene che favorisce lo sviluppo di una malattia o per potenziare un gene che la combatte. Sul grano si è già testata questa tecnica, anche per la vite si sta percorrendo questa via“. E non si starebbe parlando di Ogm: “In questo caso non ci sono inserimenti di geni estranei come per gli Ogm, qui si agisce facendo esprimere geni che esistono. Stati Uniti e Canada hanno autorizzato questa procedura su mais e colza definendola non Ogm. L’Europa invece ritiene che questa mutazione debba essere approvata sottostando alle norme sugli Ogm, anche se non c’è nulla di transgenico“. Il termine nuovo per i non addetti alla ricerca sarebbe la cisgenetica: si attivano e disattivano geni, trasferiscono parti di materiale genetico da pianta a pianta, è tipo un Lego delle piante per avere la costruzione perfetta.

La buona scienza dovrebbe far passare la paura verso la genetica. Questo lascerebbe intendere che ci sia (stata) una cattiva scienza e vi assicuro che non è colpa mia, almeno stavolta.

Lasciamo la chiusura al prof. Scienza: “I vitigni resistenti sono una realtà, è possibile ottenere vini, indicandoli come Igt, Indicazione geografica tipica. In passato abbiamo abusato della cultura positivista, più concimi, più fitofarmaci e le piante si sono indebolite. Vorremmo tornare a uno stato di equilibrio, come dicono anche i cultori della biodinamica, senza rimedi chimici”.

Io mi segno queste parole: in passato abbiamo abusato della cultura positivista.

[Credits: Corriere della Sera

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Alessandro Morichetti

Tra i fondatori di Intravino, enotecario su Doyouwine.com e ghost writer @ Les Caves de Pyrene. Nato sul mare a Civitanova Marche, vive ad Alba nelle Langhe: dai moscioli agli agnolotti, dal Verdicchio al Barbaresco passando per mortadella, Parmigiano e Lambruschi.

23 Commenti

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matteo

circa 9 anni fa - Link

Ma se OGM è l'acronimo di Organismo geneticamente modificato, in che senso la genome editing che va a rimuovere del DNA in modo da far esprimere geni altrimenti inibiti non deve essere considerata tecnica OGM. Al limite non si parla di Transgenico ma sicuramente si tratta di OGM (e non penso ci sia bisogno di scomodare l'Accademia della Crusca per averne conferma) . Sul fatto che poi la chirurgia del genoma sia così precisa da attivare solo e solamente i geni deputati alla difesa dalle malattie senza intervenire su altre espressioni fenotipiche mi lascia davvero perplesso.

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Dario

circa 9 anni fa - Link

perchè l'editing é (o "dovrebbe" perché la UE ancora non ha deciso) equiparato alla mutagenesi, e le mutazioni, in qualsiasi modo siano indotte, non sono legalmente considerate OGM. Che poi il genoma sia modificato è ovvio, ma legalmente non sarebbero ogm, con i problemi di immagine collegati

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Luca Miraglia

circa 9 anni fa - Link

Il tutto mi dà tanto l'idea di un'autostrada aperta verso l'omologazione, l'uniformità, la perdita identitaria del vitigno e del territorio. Mi chiedo cosa ne penserebbero i grandi vecchi del vino italiani, autori di bottiglie uniche ed irripetibili, e penso, limitandomi al solo Piemonte, a Baldo Cappellano ("io evolvo all'indietro"), a Bartolo Mascarello ed infine a Pino Ratto, tutti mai troppo rimpianti.

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vinogodi

circa 9 anni fa - Link

... l'argomento è assai più articolato e complesso rispetto alle semplificazioni , pur necessarie, ad una divulgazione di massa. Innanzitutto non ho certezza di una mappatura genetica così dettagliata , ma mi informerò meglio in relazioni a sviluppi più recenti, penso farò qualche telefonata agli ex colleghi dell'istituto di Genetica o Botanica dell'Università di Parma ; sta di fatto che i tempi per questa sperimentazione e , soprattutto, per i test , non penso producano materiale significativo in tempi estremamente brevi... certo è che il dibattito e le prospettive appaiono intriganti ...

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matteo

circa 9 anni fa - Link

Quello che trovo scorretto non è il voler trovare soluzioni per ridurre l'impatto della viticoltura al di fuori degli ambiti biologico-dinamico ma il fatto di non chiamare le cose con il loro nome. Ben venga la ricerca e ben vengano nuove varietà che magari nell'arco di 50-100 anni troveranno un terroir e microclima perfetto in cui insediarsi e magari daranno vini di territorio di altissima qualità mentre sul breve periodo possono essere buone solo per produzioni di pianura ad altissima resa/ettaro. Quindi miglioramento genetico ok ma tra incrocio e ingegneria genetica c'è una bella differenza ed è importante non essere ambigui sulle tecniche utilizzate.

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Marilena

circa 9 anni fa - Link

Premesso che non sono contraria a priori alla ricerca scientifica, che anzi ce ne vorrebbe sempre di più, e che sono d'accordo con @vinogodi sul fatto che forse noi che ci trastulliamo su Intravino nemmeno le vedremo con i nostri occhi tutte queste meraviglie genomiche (o genetiche o come volete), apro uno scenario fantapolitico, oppure fantaviticolo, oppure tutti e due. Nell'anno domini 2047 le viti resistenti saranno una realtà diffusa e consolidata. Quindi? Quindi, a quello che ci è dato di sapere oggi, magari svilupperanno una sensibilità ad altre malattie che ancora non conosciamo, o magari avranno bisogno di supporti nutrizionali differenti che altereranno il loro metabolismo e il risultato produttivo, come è già successo con molte altre colture. In un primo momento sarà sempre più evidente la differenza fra i vini di mass market e quelli di nicchia, e ci saranno convegni, conferenze, volantini e campagne stampa, e i pochi vignaioli NO-OGM superstiti faranno sit-in ed erigeranno barricate sotto la Tour Eiffel. Poi la Comunità Europea dichiarerà fuorilegge le viti normali e i trattamenti a base di zolfo e rame obbligando tutti a impiantare vigneti GM e chi rimarrà a fare questo mestiere si metterà l'animo in pace. Oppure andrà a piantare il cavolo che vuole a Sonoma o in Central Coast (che non è un'idea malvagia nemmeno oggi)...

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matteo

circa 9 anni fa - Link

Sempre che la tecnologia di desalinizzazione dell'acqua sia abbastanza perfomante per quell'epoca e possa permettere la vita vegetale/animale in California....:)

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Marilena

circa 9 anni fa - Link

Capperi! Nel 2047 cambieremo esattamente il gene che vogliamo, quello accigliato e cattivissimo in fondo a destra e ancora non sapremo come cavare acqua dalle pietre? Nooooo....

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Paolo

circa 9 anni fa - Link

@vinogodi: all'Istituto di Unipr potranno confermarti una certa confusione nelle idee e nelle parole di almeno uno dei protagonisti intervistati. Copioincollo: "sottostando alle norme sugli Ogm, anche se non c’è nulla di transgenico" Ora, OGM e transgenico son due cose diverse, sebbene l'autore della frase identifichi i due aspetti. Vi è da auspicare che le ricerche svolte siano meno confuse, dal punto di vista metodologico.

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vinogodi

circa 9 anni fa - Link

...avendo letto o ascoltato qualche estratto di quel "simposio" , anch'io ho notato qualche semplificazione di troppo sfociante nella banalizzazione oppure imprecisione ( ...contraddizione non mi piace ) , ma l'ho interpretata come sforzo, apprezzabile, di rendere fruibile un tema dove è facile scadere in tecnicismi che portano o disaffezione in chi ascolta ( o legge) o un istinto primordiale all'autodistruzione nel povero fruitore dell'informazione non addentro alle faccende scientifiche ...

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Francesco Garzon

circa 9 anni fa - Link

..in passato abbiamo abusato della cultura positivista. In passato? Io direi tranquillamente anche adesso. Credo nell'utilità del progresso tecnologico, ma questo non va certo di pari passo con il progresso sociale, culturale ( e nemmeno sempre lo aiuta, dalla medicina all'agronomia).

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Quello che vorrei sapere è lo stato dell'arte, e dall'articolo si capisce poco. Al convegno hanno parlato di alcuni vitigni immuni (da capire quanto) ma nuovi per cui da testare sui vari terreni, da evolvere come selezione clonale etc.; per gli impieghi più "raffinati" se ne parla tra un secolo. Poi hanno parlato di alcune varietà di Cabernet con innesti di geni che dovrebbero (quanto?) renderli immuni, ma non hanno detto se questi interventi hanno variato in qualche modo sapori, colori etc. Finché non si sa questo, di che parliamo? E inoltre si cita solo il Cabernet, e glia altri vitigni? Quando? Bah, per ora mi pare che siamo allo stato dei lodevoli whishfull thinkings e poco più. E poi un pensierino irrituale; ma invece di lavorare tanto su costosissimi e futuribili progetti come questi, perché non spendere molte meno risorse in progetti cantierabili domani come i sistemi di allevamento della vite che riducono l'impiego di fitofarmaci? Ne esistono già (vedi cordone libero, che fa risparmiare dal 30% al 70%) e altri si potrebbero sviluppare con pochissimi investimenti, ma parlare di cose così pratiche e a basso costo pare reato.

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Dario

circa 9 anni fa - Link

lo stato dell'arte è che dei geni di resistenza a oidio e peronospora sono stati identificati, e trasferiti con normale miglioramento genetico in nuove varietà, che sono (anche se il ministero recalcitrava) state iscritte al registro. Chi ha assaggiato il vino dice che è buono, ma ovviamente questo non risolve il problema dei vitigni storici. Per quelli l'unica alternativa per renderli resistenti è inserire questi geni dalle altre viti. in questo caso sarebbero cisgenici (e si può fare in pochissimi anni) e, legalmente, sarebbero Ogm. l'articolo fa un po di confusione tra le cose perché invece Scienza parla di Editing, che non sarebbe equiparato a un OGM, però in quel caso i tempi sono tutti da vedere.

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enrico togni viticoltore di montagna

circa 9 anni fa - Link

Di varietà resistenti cominciano ad essercene diverse, qui in valle si cominciano a piantare e in alto adige sono una realtà abbastanza consolidata. Solaris, Cabernet Cortis, Cabernet Carbon, Phoenix, Bronner, Baron, Prior, Jhoanniter, etc. da tutte si produce vino (buono o meno dipende come sempre dalla cantina), su tutte sono necessari e sufficienti due trattamenti rame e zolfo e uno/due zolfi ventilati. Sono tutte varietà ottenute con l'ibridazione, niente ogm, niente genetica, semplicemente si è fatto quello che l'uomo, direttamente o indirettamente, ha sempre fatto e cioè adattare una pianta o un animale ad un clima ed alle sue esigenze. Arrivati dove siamo arrivati credo che tocchi all'uomo cambiare le sue esigenze, tornare sui suoi passi e provare a capire che un vigneto, un campo di mais, un frutteto, la monicoltura insomma, è un concetto sbagliato, teso solo a produrre tanto per poi essere costretti a vendere a poco. Credo sia necessario ripensare il ruolo dell'imprenditore agricolo e il modello delle aziende agricole, per tornare a parlare di contadini e fattorie.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Con il massimo rispetto e senza alcun desiderio di polemica, ma produrre grandi quantità di prodotti a poco prezzo è utile e giusto, e pure molto. Serve a fare si che 6,3 miliardi dei 7 che abitano il mondo abbiano un apporto calorico più che sufficiente a prezzi alla portata delle loro tasche, mentre i restanti 0,7 miliardi non hanno questa fortuna ma solo perché guerre e regimi infausti glielo impediscono. Questo è un risultato ottenibile solo con le monocolture per cui, a meno di voler condannare buona parte di quegli esseri umani (gente tale e quale a noi) alla morte per fame, questo modello non deve essere abbandonato. Tornare a parlare di contadini e fattorie è come rimpiangere il bell'ottocento dimenticando che non c'erano anestesie, antibiotici e igiene moderna; è molto romantico, ma si moriva da giovani e pure malamente.

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Elena Roppa

circa 9 anni fa - Link

Ho partecipato a diversi convegni sul tema delle viti resistenti negli ultimi anni, nel più recente ricercatori italiani e internazionali hanno fatto il punto: pur essendo già diffusa la prima generazione di vitigni resistenti, questi presentano due problematiche, la prima legato al profilo sensoriale dei vini non adeguato alle aspettative di un consumatore evoluto (in questo caso, sono adatte alle produzioni industriali), la seconda il fatto che si confermano resistenze solo ad alcune malattie. Attualmente l'interesse è puntato sulla seconda e la terza generazione di questi vitigni, anche se all'estero si parla soprattutto di interventi di transgenica, non di ibridazione. Un risvolto interessante è che grazie agli ibridi si è aperta la possibilità di fare vino in luoghi come la Svezia, dove non c'era tradizione vitivinicola: ho assaggiato recentemente un Solaris di Villa Mathilda (Svezia) quantomeno piacevole. Queste viti esistono già dagli anni '70, quindi il titolo dell'articolo è leggermente fuorviante. E' chiaro, comunque, che una vite resistente non risolve il problema in toto, perchè avrà sempre (anche in un futuro fantascientifico) dell'intervento dell'uomo e di trattamenti, magari solo quelli preventivi di induzione di difesa.

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enrico togni viticoltore di montagna

circa 9 anni fa - Link

Nn é assolutamente mia intenzione rimpiangere o voler tornare all'ottocento, perfino noi abbiamo smesso di scrivere sulle pietre! Ció che intendo é che oggi, soprattutto in viticoltura, le necessità imposte dalla monocoltura hanno generato viti migliori ma ben piú deboli. Un tempo, e nemmeno cosí troppo lontano, le consociazioni etano all'ordine del giorno e le selezioni massali erano la regola, oggi abbiamo campi coltivati con individui tutti uguali ed appartenenti alla stessa specie, questo vuol dire creare l'ambiente ideale x antagonisti e patogeni. Sorvolo sul discorso dello sfamare il mondo in ragione del semplice fatto che produciamo ben molto di piú di quello che siamo in grado di consumare e la gestione dei rifiuti é l'altra faccia della medaglia monocoltura.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Io vivo un un'azienda dove la mia famiglia fa viticoltura da molti secoli e, avendone passione, ha tramandato dati, analisi e scritti che descrivono come, perché e quanto di ogni vigneto. I primi vigneti con selezioni delle migliori viti di ogni parte dell'azienda di cui abbia dati sono dei primi dell'ottocento, e servivano per fare le selezioni massali da cui nascevano le nuove vigne. Molti miei avi sono stati soci dei Georgofili, e hanno pubblicato relazioni su quelle vigne che ancora abbiamo. Ma quelle vigne non erano né più sane di quelle di ora né poco trattate, se guardo i consumi di poltiglia bordolese di quei tempi mi si rizzano i capelli. Nonostante questo molti raccolti andavano perduti, e le rese per pianta erano stellari; ho trovato più volte citazioni di viti "maritate" a frutti con produzioni record di due, tre ma anche cinque quintali a pianta. All'epoca erano un vanto. Ovviamente i gradi alcolici erano ridicoli, le acidità pazzesche e spesso quei vini non arrivavano ad un anno di vita. La pratica di fare l'acquato aggiungendo acqua alle vinacce era regola generale. Il buon vecchio mondo antico era tutto tranne che un paradiso, solo i vini fatti esplicitamente per casa nostra o per la vendita in bottiglia (che facciamo dall'inizio dell'ottocento) erano assimilabili a quelli attuali. Ma anche quelli temo che, se confrontati con quelli di oggi, non ci piacerebbero. Certo non avevano né gli estratti né i colori attuali, e men che meno i profumi; quelli probabilmente erano quasi assenti, soprattutto nei bianchi. Se vogliamo vini di qualità accettabile per noi e i nostri clienti non possiamo tornare a quella viticoltura. Non possiamo rinunciare ai cloni moderni, che altro non sono che le migliori viti delle nostre vigne. Se vogliamo lavorare seriamente sulla relazione terra/vite non possiamo prescindere da cloni uniformi in tutta la vigna, perché la selezione massale da di certo più biodiversità, ma da anche cento e cento piante diverse che reagiscono in modo diverso al terreno; alcune bene, ma molte altre male. Capisco la poesia, ma la si deve fare tenendo i piedi ben saldi nel mondo attuale.

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enrico togni viticoltore di montagna

circa 9 anni fa - Link

Caro Sig. Cinelli, le rispondo per l'ultima volta nn perché nn voglia confrontarmi, tutt'altro, ma perché siamo entrambi orgogliosamente arroccati sulle nostre posizioni e, benché intellettualmente molto interessante, credo che il nst confronto possa arrivare a tediare gli altri. Dove vivo io, e nn solo sull'arco alpino, la consociazione é una realtà storica che ha permesso e tuttora permette alla gente di sfamarsi. Parlando coi vecchi e vedendo le vecchie vigne, si puó ben capire che i problemi piú grossi si hanno sui nuovi impianti, fitti e con un solo vitigno, con al max due cloni. Ad oggi si parla di 12 interventi in media all'anno contro i 4/5 degli anni '50 '60 con sola poltiglia, x tornare alla stessa cifra oggi é necessario utilizzare molecole di sintesi. Io stesso lavoro con vigne vecchie, le stesse di mio nonno, da cui propaghiamo le eventuali viti nuove. Qui ho trovato un vitigno che mi consente di fare solo 2 trattamenti anno con un utilizzo max di 500gr/ha di rame metallo annuo. Ma il dato che secondo me incide di piú é l'elevata quantità di sostanza organica presente in quasi tutta la valle e su questo molti agronomi sono concordi nel ritenere che sia dovuto alla biodiversità e alla mancanza di monocolture. Piú sostanza organica significa piú vita nel sottosuolo, maggior competizione e meno malattie. Quello di cui parlo nn é poesia, ma sana, rude e feroce concretezza, cosa cui noi gente di montagna si é necessariamente abituati.

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Costanza Fregoni

circa 9 anni fa - Link

Ho letto con molta attenzione l'articolo e tutti i commenti che precedono il mio. E se da agronomo mi sento di sottolineare che neppure io sono contraria alla ricerca perché senza quella non si va da nessuna parte, da giornalista mi sento invece di richiamare la vostra attenzione su un passaggio dell'articolo che trovo raccapricciante. Se distrattamente mi sono persa il fatto che qualcuno qui sopra abbia commentato, chiedo perdono a priori. "Da parte di chi vuole bere il vino senza intossicarsi, è cresciuto l’interesse verso un’agricoltura più sostenibile, più “buona, pulita e giusta”, secondo la definizione di Carlo Petrini di Slow food". Questo sì che, da parte di una testata poco letta come Il Corriere è un gran servigio a un settore che non pesa poco nell'economia nazionale: facciamo credere al lettore che finora bevendo il vino si sia intossicato (o abbia rischiato di farlo) e che quello buono verrà da ora in avanti. Complimenti davvero.

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Armin

circa 9 anni fa - Link

Caro Enrico, premesso che ci conosciamo da tempo e ci rispettiamo nonostante che lavoriamo in modo un po' diverso devo aggiungere la mia opinione che è in parziale dissonanza. Che la biodiversità nei confronti di monocolture aiuti a tenere basso il potenziale infettivo è cosa saputa, però non basta. Infatti dopo l'importazione delle principali malattie funginee ma anche della fillossera i problemi si hanno avuto subito, non soltanto a seguito della crescente specializzazione. E poi questa biodiversità è efficace quando si tratta di specie diverse, non di varietà o cloni. Da sempre e dovunque la quantità per ceppo era il criterio di selezione (anche e soprattutto massale) in quanto non ce n'era mai abbastanza vino. Non credo che il numero di macchie per foglia sia stato un criterio. Circa il numero più elevato di trattamenti eseguiti ti do ragione, anche dalle mie parti se ne facevano di meno, ma tanto tempo fa, quando si lavorava solo con prodotti anorganici e con la pompetta a spalla. Ma non era solo una scelta: a causa della lentezza e del grande impegno lavorativo non riuscivano a farne di più, anche quando serviva. Un mio vicino (che segue la storia contadina e tiene un bellissimo museo privato a proposito) mi ha raccontato che nel loro maso i servi addetti ai trattamenti finito un giro il giorno dopo dovevano di nuovo ricominciare dall'altra parte. Ed infine si dà spesso la colpa alle nuove varietà o ai nuovi cloni. La mia esperienza non lo conferma (non voglio neanche dire che sia vero il contrario), il mio impianto più vecchio (viti di 80 anni) è tendenzialmente più sensibile alla peronospora di quello della stessa varietà ma piantato dieci anni fa. Io penso, e non sono l'unico, che anche, forse soprattutto, la causa è da ricercare nell'evoluzione del fungo che nel corso degli anni è diventato sempre più aggressivo. Non dimentichiamo quante generazioni fa all'anno per cui capiamo che l'evoluzione genetica lì marcia velocissima! Dicono che anche questo può essere la causa per cui certi incroci una volta resistenti completamente a peronospora ed oidio non lo siano più (Regent per esempio), è una vera spada di Damocle questa per il movimento PIWI.

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enrico togni viticoltore di montagna

circa 9 anni fa - Link

ciao Armin, Concordo con te su molte cose. Io nn sostengo e nemmeno credo che lavorare in un determinato modo sia la soluzione di tutti i mali, anzi. Semplicemente sostengo che sia arrivato il momento di fermarsi e riflettere: Nn puoi negare che, sebbene il livello qualitativo si sia alzato, la professionalità e le capaicitá agricole siano nettamente diminuite. Nn intendo generalizzare, ma mi accorgo sempre piú di come il divario tra chi sa fare un mestiere e chi lo fa meccanicamente o per credo religioso stia aumentando a dismisura. É questo che intendo, ben vengano le piwi, le ricerche in campo di portainnesti o di molecole alternative, ma questo nn deve servire a deresponsabilizzare chi in vigna ci lavora. La costante osservazione dei fenomeni e il cercare di capire in fondo il processo causa/effetto, quella per me é la via. Nn scordiamoci che i nst nonni avevano un sapere pratico ma che nn sapevano xé facessero quel che facevano, lo facevano xé cosí gli era stato insegnato. Poi i nst padri hanno cominciato a fare quel che gli veniva detto di fare dai tecnici, senza fare e farsi troppe domande. Noi oggi siamo e dobbiamo essere tecnici e operai, abbiamo la fortuna di sapere cosa stiamo facendo e perché lo facciamo, é nst dovere andare oltre al fine di meglio conservare ció che abbiamo e di nn consumarlo x meri scopi lucrativi. Se questo vuol dire abbandonare modelli, tecniche, vitigni che si sono rivelati i efficienti bene, facciamolo. Gli errori sono parte integrante del processo di crescita di ognuno di noi, negarli sarebbe come involvere.

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Istituto di Genetica Applicata

circa 9 anni fa - Link

L'Istituto di Genetica Applicata ha iniziato lo studio del genoma della vite nel 2006. Nel 2007 abbiamo pubblicato sulla rivista internazionale NATURE l'articolo che riportava il completamento del sequenziamento del genoma (per info:http://appliedgenomics.org/news/pressroom/article/2007/aug/26/major-advance-plant-biology-grapevine-genome-compl/). Un assaggio del nostro lavoro in questo campo è stato fatto nel servizio di SUPERQUARK del 2014 (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9e28766a-46d1-462c-9769-54daf5277835.html#p=). Siamo disponibili per tutte le informazioni in merito.

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