Romanée-Conti 1935, il lento sbocciare dei fiori di ciliegio e la fatica dell’incontro

di Alice in Wonderland

Questa non vuole essere una recensione nel senso letterale del termine ma solo un’eco, una risonanza, un ricordo ad alta voce, a preservare in modo quasi tattile i moti di rotazione e rivoluzione provocati da una lettura. Un racconto cangiante, proprio come lo è il vino, probabilmente proprio come lo è quel vino che ne è stato ispirazione. Rilettura dopo rilettura, generosamente dona sensazioni nuove e diverse, alla quarta ciò che cede diventa così intimo e profondo da poter essere sostenuto con difficoltà. Così come al quarto sorso, tanti vini hanno narrato molti aspetti della loro vita e scoperto qualche virtù o anche qualche vizio, dopo essersi presentati prima forse muti, poi cominciando a confidarsi, poi cercando confidenze, poi addormentandosi dopo un dialogo che sempre è unico e sempre è irripetibile.

Si parla di Romanée-Conti 1935 in questo racconto dello scrittore giapponese Kaiko Takeshi, classe 1930, che del racconto di viaggio, nelle accezioni più varie del termine, ha fatto il suo mestiere, il suo sfogo, la sua salvezza. La trama è quanto di apparentemente più semplice possa essere. In realtà nasconde tessiture e complicatissimi ricami, richiami all’uso del sentire per conoscere un po’ il mondo: un po’ conoscerlo e riconoscersi. E il vino è il medium che veicola tutto il rincorrersi di sensazioni, ricordi e madeleine. Non medium o veicolo in senso metaforico, realmente il vino stimola nervi creduti al riparo, accarezza, stravolgendola, una certa protetta e conclamata idea del sé, smitizza la lettura del passato donando al passato e al suo lettore nuove lenti per rivedersi da sé, perché non ci sia correzione di errore per mani estranee, ma solo rilettura, ad opera degli stessi occhi. E mai ci si faccia prendere dallo scrupolo o dal senso di colpa: non si sta usando quel vino, lo si sta ascoltando, gli si sta parlando. Da questa comunicazione può nascere qualunque cosa, perché senz’altro quello che poco prima evidentemente non si sapeva, ora si sa.

La delicatezza con cui viene suggerito, più che descritto, questo sbocciare della consapevolezza, ricorda quella con cui spesso si raffigura nella mente il movimento dello sbocciare dei fiori di un ciliegio. Il vino che i due protagonisti sorseggiano lentamente a Tokyo un pomeriggio non è solo medium. Paradossalmente, foriero di tanta vita, quel vino è definito morto. E’ arrivato alla naturale fine della sua vita, portandosi dentro segni profondi della sua grande storia. E’ morto, oppure è sul punto di morire. La delusione è tangibile, quasi dolorosa. Ma il fondo degli occhi dei due commensali assaggiatori non è completamente buio. Come se l’importanza delle dissonanze, ad equilibrare le assonanze, diventi tutto d’un tratto palese. Silenzio come musica e colonna sonora del Ricordo, diverso e personale per i due, eppure unico, che lentamente torna e si anima al crescere dell’intensità del silenzio-musica, si anima e chiede con insistenza, quasi con disperato bisogno, di essere rivissuto.

Così la stanza si riempie del succo di un’arancia spremuta a mani nude, a guardare con attenzione ricompaiono persino le stesse macchie di succo sulle lenzuola, come tanti anni prima. Così Cortazar, in Rayuela: “ … ma che cosa è il ricordo se non la lingua dei sentimenti, un dizionario di facce e giorni e profumi che tornano come i verbi e gli aggettivi nella frase, che mascherati vengono prima della cosa in sé, del puro presente, rattristandoci o addestrandoci vicariamente finché l’essere nostro medesimo diventa vicario, la faccia che guarda ll’indietro apre grandi gli occhi, la vera faccia si cancella a poco a poco come nelle vecchie fotografie e Giano è di colpo chiunque di noi …(…)”.

Come si può considerare morto questo vino? E’ pieno di saggezza, di capacità psicanalitiche, di arti magiche. E’ semplicemente un vecchio saggio che si avvicina al trapasso. Il colpo di fortuna è nell’incontro con il saggio, il segreto di questo incontro è non dar importanza al tempo che passa. Incontrare il saggio, prima o poi. Da giovane, da uomo nel pieno della propria maturità, da anziano o poco prima che chiuda definitivamente gli occhi. E’ più furbo, ed anche poetico, lasciare il “quando” e le misurazioni al Caso, o al Destino, o alla pura capacità di accorgersi che è “questo” l’attimo che va colto. La fortuna è nell’incontro, nell’ascolto e nello scambio. L’incontro diventa la cosa – in – sé. La chiave che apre la porta e permette la discesa dentro se stessi, l’incontro con ciò che in quel momento si è. E quell’incontro, costa fatica, in qualunque momento del proprio cammino. « Ce vin était vivant. Il avait supporté le plus doloreux des apprentissages. (… ) mais il n’avait pas passé ce temps a dormir. Il s’était couvert de sueur, de sang, n’avait cessé de gémir … »

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Alice in Wonderland

Nascere a Jesi è nascere a un bivio: fioretto o verdicchio? Sport è salute, per questo, con sacrifici e fatica, coltiva da anni le discipline dello stappo carpiato e del sollevamento magnum. Indecisa fra Borgogna e Champagne, dovesse portare una sola bottiglia sull’isola deserta azzarderebbe un blend. Nel tempo libero colleziona multe, legge sudamericani e fa volontariato in una comunità di recupero per astemi-vegani. Infrange quotidianamente l’articolo del codice penale sulla modica quantità: di carbonara.

5 Commenti

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francesco vettori

circa 10 anni fa - Link

Gran bel pezzo. Sarà ma questa poetica del ricordo, quando si beve, mi interessa sempre meno. E' ragionevolissima, è fondata anche biologicamente, volendo, dato che riconosciamo le sensazioni, e i cibi e le bevande, di cui abbiamo nel corso del tempo fatto esperieza. Però la vite ha bisogno, oltre tutto, di un periodo di dormienza. Mi ha sempre stupito che non alligna nei paesi perennnemente caldi, tipo all'equatore, perché non concedono alla pianta di morire, cioè di "dimenticare" in un certo senso, e di rinascere in un altro futuro.

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Emanuele

circa 10 anni fa - Link

Ciao Francesco, Gran bel pezzo, concordo. Non così sul tuo parere a proposito di poetica del ricordo. Se ho inteso bene l'osservazione, il ricordo si ridurrebbe alla sollecitazione di tracce mnestiche. Secondo me è molto di più. Ma ne parliamo, se vuoi, tra qualche sera...

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francesco vettori

circa 10 anni fa - Link

Volentieri. Ci si vede presto. Non penso che la memoria si limiti alle tracce mnestiche. Anzi. La memoria implica un atteggiamento rivolto al passato. E volenti o nolenti, data la nostra personale e genetica storia, viviamo perlopiù rivolti al passato. Almeno questo ci dice, anche, la biologia. Ecco io vorrei volgermi al futuro, che per definizione non si ricorda. Anche se dipende, ne son convinto, dalle nostre esperienze passate. Perché quando bevo "devo" ricordare, o meglio, pensare a ciò che è già stato e non invece a quel che sarà? Del resto, l'esperienza dell'ebrezza è molto più vicina al futuro che al passato. "L'ubriaco" rompe le catene del passato, anche illusoriamente, per vivere un presente proiettato nel futuro, certamente non ordinario rispetto a quel che ha vissuto finora. E, di nuovo, emergono alcuni tratti dell'esperienza estetica: il valore dell'hic et nunc e la discontinuità percettiva.

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Liberanosamalo

circa 10 anni fa - Link

Mi limito a dire solo brava Alice......il resto e' noia.....:)

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Gianluca Zucco

circa 10 anni fa - Link

Complimenti.

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