Questo non è il solito pippone per ragionare di Unione Europea e agricoltura

di Gianpaolo Paglia

Lo spettro del dirigismo si aggira per l’Europa. Sopratutto quando si tratta di agricoltura, la ricetta da decenni sembra essere una sola: il controllo dell’offerta per poter sostenere i prezzi all’origine. L’idea nasce da un ragionamento per cui sarebbe meglio sostenere i prezzi dei prodotti alimentari, lasciare gli agricoltori a presidiare le campagne e il paesaggio, piuttosto che doverli sostenere con gli aiuti diretti, mantenendo la produzione agricola e il territorio con altri mezzi.

L’idea, nata intorno agli anni ’70 a Bruxelles, ha sicuramente un suo fondamento ed un suo fascino, ed il fatto che ad averla finanziata sia stata una bella fetta (storicamente oltre metà) del budget UE ha prodotto un esperimento di dirigismo mercantile su larghissima scala. In un modo sempre più globale, le merci diventano sempre più disponibili da altre fonti e quelle care diventano sostituibili con altre meno care. Gli ultimi venti anni ci hanno mostrato la parabola finale di una serie di attività produttive che semplicemente non hanno più nessuna ragione economica, perché i prodotti che generano non possono competere con quelli provenienti da altre aree del pianeta.

Per la verità, anche l’Europa dell’agricoltura se n’è accorta, ed infatti le misure dirette a controllare l’offerta sono ormai in via di sparizione, a favore del disaccoppiamento, sostanzialmente un aiuto al reddito degli agricoltori che non è più “accoppiato” o legato alla loro produzione attuale (erogato però sulla base delle produzioni passate); praticamente, tu agricoltore prendi un salario solo per il fatto di essere lì a presidiare il tuo fazzoletto di terra (o anche il tuo latifondo), non per quello che produci. In parole molto povere, la comunità riconosce il tuo valore sociale e ti aiuta a mantenerti a galla, affinché tu non abbandoni la campagna per andare in città.

Per quanto riguarda il vino, gli aiuti erano nel passato di diverso tipo, con fasi alterne e schizofreniche di aiuti per l’impianto vigneti, seguiti dagli aiuti all’estirpazione degli stessi, adesso più dedicati a ristrutturazione e riammodernamento dei vigneti, conditi con “divieto di libero accrescimento” e aiuti alla distillazione.
Proprio quest’ultimo tipo di aiuti fu riconosciuto responsabile degli eccessi produttivi da uno studio indipendente commissionato dalla UE. Effetto esattamente contrario a quello che doveva sortire e la ragione è semplice: se tu produci in eccesso e poi c’è qualcuno (il contribuente, tramite la UE) che ti paga quello che hai prodotto, anche se non tantissimo ma comunque sempre cifre rispettabili, non hai nessun incentivo a smettere di produrre vini che non troveranno mercato, perché il tuo mercato infatti esiste ed è la UE. Che metteva sul piatto 400 milioni di euro di nostri soldi all’anno. Questo stato di cose, per fortuna, è alle spalle.

Quello che invece continua ad esistere, richiesto a gran voce da (quasi) tutti i produttori, è il mantenimento del divieto al “libero accrescimento”, ovvero il divieto di aumentare il potenziale produttivo, rappresentato da nuove superfici vitate. Se vuoi piantare un vigneto bisogna che compri il “diritto di reimpianto” da un’altra persona che ha espiantato (o comperato da un altro). La linea del Piave è questa: controllare la produzione, controllare l’offerta ed, infine, quello che davvero conta, i prezzi.
Non entro nella querelle sui diritti di reimpianto, che la UE ha deciso di abolire per gli IGT e i Vini da Tavola a partire dal 2015 e che tutte le lobbies dei paesi produttori stanno cercando di impedire, perché ci vorrebbe un articolo a parte. Quello che mi interessa è capire il perché, in un mondo dove tutto diventa più libero e globale – persino tutti gli altri prodotti agricoli – il vino creda di poter rappresentare un eccezione.

Ma è davvero una eccezione? Se diminuisce l’offerta, aumentano i prezzi perché la domanda rimane invariata? Oppure è vero che, di fronte alla scelta immensa di vini da tutto il mondo, il consumatore globale finisce per scegliere un altro prodotto che costa meno e che tutto sommato ne soddisfa gli stessi bisogni?
E soprattutto, domanda cruciale: chi decide quando e come bloccare, ridurre, aumentare l’offerta produttiva? In un mondo “normale” chi decide questo è il produttore stesso, che riceve gli imput dal consumatore e aggiusta la sua produzione di conseguenza. In un mondo di consorzi, comitati interprofessionali, assessorati ed ispettorati provinciali, regioni, stati, commissioni europee invece è qualcun altro. Mi sembra di sentirli già, i difensori dello status quo: “sono i produttori che collettivamente decidono”, perché ognuno di questi organi è in qualche modo delegato a rappresentarli. Già, ma se andiamo a guardare come la rappresentanza si forma, alcune certezze vacillano. Se, ad esempio, prendiamo i consorzi di tutela che oggi rivestono per legge il ruolo di istituzioni, si scopre che il più grosso ha più voti e comanda.

In conclusione, perché deve esserci qualcuno che decide per me, quando posso decidere io cosa, quando e quanto produrre, visto che alla fine se va male sono io che ne pago le conseguenze? E mi spiegate perché il vino deve giocare di rimessa — il controllo dell’offerta — e non all’attacco con la promozione?

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Gianpaolo Paglia

Sono stato ricercatore, produttore di vino e ora di nuovo studente (Master of Wine), WSET Level 3 Certified Educator oltre che fare un po' di consulenza qua e là. Seguo Intravino da prima che nascesse - letteralmente - e ogni tanto mi capita di fare qualche assaggio interessante che mi piace condividere.

18 Commenti

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Sir Panzy

circa 11 anni fa - Link

Bravo GP, ottima riflessione. Poni delle belle domande alla quale non è semplice dare risposte. Probabilmente si lasciano troppi poteri ai consorzi, oppure troppo pochi...? Sarei pero' curioso di conoscere le tue di risposte. Ancora complimenti!

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Luca Ferraro

circa 11 anni fa - Link

Non sono ancora riuscito a farmi una mia idea a riguardo. Vedo però quello che sta succedendo nell'area Prosecco dove, se non ci fossero i diritti di reimpianto, sarebbe una tagedia. Col senno di poi potrei dire che se a suo tempo si fosse racchiusa l'area all'interno della provincia di Treviso (dove si produceva il 95% del prosecco mondiale) tutti i problemi di sovraprduzioni sarebbero svaniti nel nulla e i diritti non servirebbero più. Attendo pareri altrui per cercare di capire. Luca

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Lido

circa 11 anni fa - Link

Complimenti Gianpaolo, visione lucida e fredda su una situazione spesso dimenticata, bravo.

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Rolando

circa 11 anni fa - Link

Ottimo post su un argomento, l'agricoltura, che è troppo spesso demandato a legislazioni protezionistiche.

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andrea

circa 11 anni fa - Link

La sovrapproduzione sarebbe un problema? E perché mai? Se hai troppe vigne e produci troppo vino rispetto a quello che ti comprano smetti di farlo. E basta. Questo, naturalmente all'interno del contesto UE che definisce Gianpaolo, di un reddito agricolo, un aiuto diretto e non di un mercato forzoso come nella PAC fino a pochi anni or sono. Se pianti senza avere un mercato butti i tuoi soldi, come qualsiasi altro imprenditore.

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jovica todorovic (teo)

circa 11 anni fa - Link

Gianpaolo l'argomento è interessantissimo - visto che è il giorno dei quesiti me ne pongo uno anch'io. Si può essere contemporaneamnte in contrasto e daccordo con la normativa europea. A parte Schillaci che aveva brillantemente risolto il porblema con il mister direi di no. Mi spiego pur non essendo liberale nel senso Regan/Tatcher e poi Blair/Clinton passando per Bush/Berlusconi il fatto che in un luogo dove la competizioni e la libera circolazione sono il sale della vita ci debbano essere questo genere di paloni mi sembra contradittorio - sono dunque contro. Amettiamo allora che l'Europa annunciasse che sia possibile impiantare in libertà senza più paletti parlo del vino ma questa ipotesi eliminerebbe qualsiasi blocco. Non ci sarebbe forse il rischio di un eccesso di specializzazione offrendo il fianco a manovre monopolistico/speculative che sarebbero rischiose e destabilizzanti piuttosto che virtuose e incentivanti. Non si aprirebbe la finestra a giochi di potere e forza che stiamo cecando di combattere e che sono ancora gli elementi di discontinuità di questa meravigliosa utopica cuccagna. L'unione fa la forza ma l'unione indipendente e pluralista la rafforza.

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DVA45

circa 11 anni fa - Link

Cito: “In conclusione, perché deve esserci qualcuno che decide per me, quando posso decidere io cosa, quando e quanto produrre, visto che alla fine se va male, sono io che ne pago le conseguenze?” La domanda successiva (o meglio, precedente): Come è possibile che il 2.5% della popolazione europea, che produce il 1.5% del PIL europeo, riceva quasi il 50% del bilancio comunitario… Well, io direi che ci sono almeno due spiegazioni: 1. Quella che nella tradizione americana, visto che loro per primi hanno istituzionalizzato le lobbies, si chiama “teoria dei gruppi d’Interesse”. Gruppi organizzati, ben identificati e con forti interessi in comune sono più efficaci nel portare avanti le loro richieste di quanto non lo siano quelli che li oppongono a proporre politiche alternative, che nonostante siano largamente più numerosi, non sono organizzati. A ciò si aggiunge la difficoltà politica di eliminare / ridurre dei benefici già erogati in passato. 2. L’articolo giustamente rileva l’incongruenza economica di continuare a produrre certe culture in Europa quando ci sono al mondo molti paesi in cui si potrebbero produrre molto più efficientemente e con qualità superiore e prezzi al consumatore inferiori. Chiamatelo retaggio del passato o mentalità da guerra fredda, ma l’agricoltura resta un settore strategico anche per le relazioni internazionali, e in caso di conflitto… questo pesa ancora su certe scelte. In Europa siamo completamente dipendenti nel settore energia – e le alternative che abbiamo trovato saranno percorribili solo tra qualche anno, il che ci mette già in situazione di debolezza. Non credo che i nostri vertici politici e militari vogliano trovarsi nella stessa situazione riguardo agli alimenti e la PAC, mantenendo gli agricoltori nelle zone rurali, oltre ad assicurare il presidio del territorio e evitare ulteriore concentrazione urbana, ha anche la funzione di un “esercito di produzione agricola di riserva”. Non attivo, visto che la PAC non e’ più, nella stragrane maggioranza dei casi, legata alla produzione, ma facilmente attivabile. Quello degli incentivi perversi è un problema e una triste verità e ci sarebbe molto da parlarne. Bravo l’autore che lo solleva. Tutto cio’ per dire che quello che succede nel mondo del vino è solo un dettaglio e, in effetti, non rappresenta l’eccezione… Una piccola nota stonata: “Che metteva sul piatto 400 milioni di euro di nostri soldi l’anno.” Quei 400 milioni di euro non sono soldi nostri. I meccanismi del finanziamento del bilancio comunitario è tale che se quei fondi non andassero all’UE, non sono assolutamente sicuro che finirebbero nelle tasche dei cittadini o sarebbero spesi dallo stato per fornir loro sevizi…

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gianpaolo

circa 11 anni fa - Link

reazioni inaspettatamente positive tutto sommato, io che mi credevo di venire assalito con l'accusa di "liberismo selvaggio". Il fatto e' che a me la parola liberta' piace, mi piace quando e' individuale e mi piace quando e' nell'impresa, perche' e' solo nella liberta' di scelta che si realizza il pensiero umano, controbilanciata dall'essere esposti alle conseguenze delle scelte, e dalle norme di civilta'. Ci sono poche giustificazioni, checche' ne dicano i contrari che riescono genericamente ad evocare disastri e fine della civilta' come la conosciamo, per cui una persona sia impedita di coltivare cio' che vuole sul suo terreno. Il che' ovviamente non vuol dire fare carta straccia delle regole (fare brunello a reggio calabria, e via dicendo), ma piuttosto il contrario. L'agricoltura e' malata, sopratutto di dirigismo, di sovvenzioni-metadone, di incapacita' di rinnovarsi ed uscire allo scoperto e confrontarsi con il mondo reale. L'agricoltura e' importante, perche' e' il contesto dove noi viviamo, dove il nostro paesaggio si trova, e spesso e' quello che noi mangiamo. Nessuno qui, certamente non io, vuole condannarla, ma vorrei che ci fosse un movimento che la mettesse in discussione, che riuscisse a liberare le energie che sono sopite ma copiose. E se permettete che la liberasse da tutti i parassiti che vivono intorno ad essa, il cui compito e' quello di insegnare agli agricoltori come si riempie il modulo per ritirare l'elemosina da Bruxellese: sono tanti, e di questo hanno fatto un mestiere spesso piu' remunerativo dell'oggetto delle loro attenzioni.

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wildambree

circa 11 anni fa - Link

Non per essere qualunquistico, ma è tutto controllato. Bruxelles ogni tanto non tenta di mettere fuorilegge pericolosi prodotti DOP italiani? (p.e. il lardo di Colonnata) Gli "inventori" del libero mercato (USA) sono i primi ad essere protezionisti nei settori in cui soccomberebbero (acciaio etc). Quanto alle vigne e le regole per il reimpianto... non seguono/equivalgono ai disciplinari DOC/DOCG? Il resto si arrangiano. Chi è libero fa il Sassicaia o il Tavernello. No? saluti

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 anni fa - Link

Caro Gianpaolo, mi ricordo il racconto che mi ha fatto un amico dell'associazione allevatori canadese sulle mucche da latte. In Canada e USA c'erano accordi collettivi vincolanti sul prezzo del latte (come in Italia), poi negli anni 80 in nome del libero commercio in USA li proibirono in quanto era un cartello. In Canada restarono. Risultato? Oggi gli USA il prezzo del latte alla produzione è crollato, ma quello al consumo è nettamente più alto di quello del Canada. Il numero degli allevamenti e dei capi in USA è crollato del 60%, importano latte a cisterne. In Canada il prezzo al consumo è più basso, e gli allevatori sono vivi e benestanti. Questi sono dati reali, io ho controllato e lo puoi fare anche tu. Morale? Non sempre una deregulation totale porta vantaggi ai consumatori e/o ai produttori, a volte avvantaggia solo enormi soggetti intermedi tra i due. Sono d'accordo che di burocrazia si muore, ma quando si ha a che fare con soggetti che hanno i capitali per comprarsi tutta la Toscana credo che sia legittima anche una certa cautela. Es modus in rebus; sono d'accordo che non possiamo delegare così tanti poteri ad una burocrazia che non risponde a nessuno, e che non ha senso tenere vivi cadaveri che ormai hanno perso ogni ragion d'essere, ma una qualche forma di regolamentazione se ben gestita è una tutela più che un ostacolo.

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Gianpaolo

circa 11 anni fa - Link

Io e te ragioniamo sempre al margine di una conversazione nella quale probabilmente le nostre posizioni sono in realta' piu' vicine di quelle che potrebbero apparire a prima vista. Richiamare il principio della liberta' di impresa tuttavia non e' contrario all'esistenza delle regole, le quali sono indispensabili per qualunque attivita' umana. Diversamente si parla di anarchia, ma quella puo' divenire interessante in casi diversi, e sopratutto coltivazione di vegetali diversi. Tu riporti un caso che sara' senza dubbio vero, ma e' indubbio che tutte le classifiche mettono il nostro paese ai livelli piu' bassi per quanto riguarda la liberta' economica (Wall Street J., al 92 posto, tra gli ultimi in Europa, dopo la Croazia e prima della Grecia) e i paesi dove conviene fare impresa (Forbes: 32 posto, dopo la Lituania). Cosi' come e' inconfutabile l'impoverimento progressivo, la disoccupazione giovanile, i cervelli in fuga, il declino industriale, ecc. ecc. Come si dice, tre indizi fanno una prova, e qui di indizi ce ne sono migliaia.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 anni fa - Link

Tutto vero, il nostro paese è una fogna di scartoffie e l'unico esempio di burocrazia ancora più kafkiana è l'Europa. Scolpito tutto questo nel marmo, vale la pena dire che poche, precise e chiare norme sulle etichette ci devono essere. Magari diverse da quelle attuali, con l'obbligo di indicare l'SO2 libera e totale. Anche sui vigneti qualche norma la lascerei, magari fatta dai viticoltori stessi di ogni zona vinicola in base al concetto che un IGT/DOC/DOCG è loro proprietà collettiva, sono SpA con le vigne al posto delle azioni. Per cui darei un voto a ettaro e al suo equivalente in uva, vino e bottiglie. Roba semplice così la terrei, mandando ai cani distillazione, carte e cavolate simili.

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Gianpaolo

circa 11 anni fa - Link

Io contesterei il fatto che una denominazione e' proprieta' collettiva dei produttori, ma e' semmai e' proprieta' collettiva della zona dove essa insiste. Se fosse come dici tu si solleverebbe il problema non da poco che si usa il nome di una zona di origine da parte di un gruppo di persone che ne rivendica l'esclusivo utilizzo riservandosi di decidere chi e come puo' farlo.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 anni fa - Link

Pensaci un po', un'opera di ingegno di chi è? Se scrivo un libro, é mio o di chi abita vicino a casa mia? O dei tipografi che lo stampano? Un vino é totalmente frutto dell'ingegno, se appassisci quelle uve ci fai vinsanto, se le vinifichi senza bucce viene un bianco. Il territorio è importante, ma in ogni posto del mondo si possono fare tanti vini diversi. Per cui un vino é proprietà di chi lo ha creato e evoluto. É poi anche legato al luogo in cui lo si produce e questo comporta degli obblighi, ma ha poco senso ritenere che il ciabattino di Scansano o il fornaio di Pomonte hanno diritti sul Morellino. Casomai si può dire che certi vini più antichi, come il Barolo o il Brunello, nascono da un humus culturale di un territorio e a questo sono legati; questo é vero, ma è un fatto che richiede secoli e non tutti i vini ce l'hanno.

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Gianpaolo

circa 11 anni fa - Link

E' un discorso che si dipana su un filo sottile, ma la differenza e' importante, e a mio modo di vedere evidente. Le denominazioni non sono li' a determinare un opera dell'ingegno tout court, anzi in realta' la loro principale ragion d'essere sta nel determinare la zona di origine, come il nome suggerisce. Quello che noi diciamo e ripetiamo e' che non e' il come, ma il dove che conta. Se neghiamo questo, neghiamo le fondamenta sulle quali si poggiano i nostri vini piu' importanti, con la conseguenza che a parita' di processo si puo' dire che un vino valga uguale, dovunque viene fatto. E' il luogo quindi che prevale sul tutto, e il luogo non e' patrimonio dei produttori, ma della collettivita'. Ora, quindi, come giustificare che un gruppo di persone che vivono ed operano in una comunita' che risiede in un certo luogo si approprino del diritto di decidere chi puo' e chi non puo' produrre un certo prodotto, da parte di altre persone che come loro vivono e operano nello stesso luogo e nella stessa comunita' e che rivendicano il diritto di fare un vino rispettoso delle stesse regole, negli stessi terreni, con le stesse cure? Per me non c'e' fondamenta, altrimenti quel prodotto deve smettere di identicarsi con il luogo. Lo si chiami "pippo" o "giovanni", e allora si' che si tratterebbe di un prodotto dell'ingegno, tutelato privatamente.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 anni fa - Link

E no, vedi Gianpaolo, i conti non ti tornano perché tu concepisci i VQPRD in un modo diverso da come li intendono le leggi. Almeno qui in Europa. Data una specifica zona, per te il VQPRD uno lo fa (più o meno) come gli detta la creatività personale. Per cui il risultato è solo suo e del terreno, non di una specifica "formula". Invece la legge dice che, ad esempio, il Brunello si fa solo con quell'uva, solo con quel tempo di affinamento totale di cui esattamente un determinato periodo il legno, con una determinata chiusura e una specifica bottiglia. Più varie altre peculiarità ben determinate. Il risultato sarà un vino che si vende a tanti prezzi diversi e con tanti livelli di qualità, ma ben riconoscibile. Non tutte funzionano, ma molte di loro si. Ci sono anche VQPRD che lasciano ogni libertà al produttore, ma guarda caso non vendono. Per cui l'esperienza empirica (a cui credo molto) dice che non funzionano. Non é che la creatività personale é castrata da regole strette, anche la poesia in metrica ha regole strette ma non è certo meno creativa della rima libera; è solo un modo diverso di esprimersi.

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Gianpaolo

circa 11 anni fa - Link

Non ho mai detto questo. Quello che ho detto invece e' che qualunque sia il processo, dal piu' restrittivo al piu' lasso, quello che prima di ogni cosa rende un vino unico e irripetibile e' il territorio. Francamente non capisco quale sia il processo particolare del Brunello, del Barolo o di ogni altro vino, che lo renda speciale e irripetibile, se non il territorio. Vini a Sangiovese puro, invecchiati per anni in botti di legno si possono fare da qualunque parte al mondo, ma quello che rende unico il Brunello e' Montalcino, che, ammetterai, non e' proprieta' dei produttori, se non la quota parte per la terra che possiedono.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 anni fa - Link

Sono perfettamente d'accordo con te, quello che rende unico il Brunello è Montalcino. Ma dalle stesse uve di sangiovese in purezza di Montalcino si fa il Brunello, il Rosso di Montalcino, degli ottimi vini da tavola giovani, io ci faccio il vinsanto e Cosimi ci fa uno spumante. Una volta ci ho fatto anche il vino bianco. Tutti vini completamente diversi, a dalla stessa uva e dallo stesso territorio unico e irripetibile. Per cui non c'é dubbio che il territorio dia il potenziale, a poi chi da quel marmo fa quella statua e non un'altra é l'ingegno dell'uomo. Forse il potenziale dell'alta qualità esiste in molti più luoghi rispetto ai pochi che sono già noti, ma occorre che qualcuno trovi vitigno, portainnesto, tecnica colturale e di vinificazione ideale per quel particolare fazzoletto di terra; secondo la mia opinione chi riesce a mettere insieme la "ricetta perfetta" ha la maggior parte, anche se non tutti, dei diritti sul bene.

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