Quel santo Graal ritrovato tra i boschi della Liguria

Quel santo Graal ritrovato tra i boschi della Liguria

di Pietro Stara

«Lo sai che da queste parti tutti si facevano il vino?»- me la butta lì Enrico mentre sorseggiamo una bianchetta al bar Biasotti di Rovegno. “Dai! non dire cazzate” – gliela rimando secca. “E poi è tutto bosco, siamo a settecento metri, mica in Valle d’Aosta, bah…” A volte le storie iniziano con un “bah” a denti stretti, mentre lo sguardo volge agli alberi fitti e insondabili del monte Cavallo: a quei boschi di faggi, di castagni, di aceri, di querce, di cerri, di sorbi degli uccellatori e sorbi montani, che sei abituato a passarci dentro per cercare i funghi o a raccogliere castagne e frutti di bosco quando è tempo. Oppure a tirare calci alle foglie e a farle scrocchiare sotto i piedi che già è molto, se non tutto. E poi giù fino al Trebbia che nella bella stagione, prima di accogliere i bagnanti accalorati dalla città, si tinge di smeraldo. Ma di vino e d’uva non ne avevo mai sentito parlare, almeno fino a quel momento: la memoria del bosco si è divorata quella degli uomini.

Quando non è il bosco è l’erba alta che si prende tutto e, quando non è l’erba alta, il silenzio. In alcune frazioni, quelle su per le cime, anche il vento e la neve. Ma d’uomini e di donne più nulla. O quasi. «Una domenica facciamo un giro. E magari ti faccio parlare con Roberto Casazza di Ottone. Ha novant’anni  e si ricorda tutto.» Arriva quella domenica di un anno fa. Prima di raggiungere il nostro appiglio per una breve resoconto del passato, voltiamo per la strada che porta a Gramizzola, quando la Liguria diventa Emilia senza accorgersene.

Di qua gli alberi del bosco che sale, a destra il fiume. Ora niente più alberi sulla strada: prima una chiesetta votiva e dunque uno slargo che si arrampica sopra un pianoro da cui si intravvedono le prime case del borgo. In quella lieve collina ancora qualche tralcio di vite stupidamente si abbarbica a fili malconci e arrugginiti. Di là dalla strada una casetta di pietra dove si faceva il vino, si depositavano gli attrezzi da lavoro e, in un tempo lontano, si passavano le sere tra amici rischiarati soltanto dal volto benevolo della luna.

Torniamo indietro e ci dirigiamo verso il capoluogo, Ottone, dove incontriamo Roberto. Il paese è alle spalle e Roberto mi mostra la facciata della montagna che si butta sul Trebbia, esposta a sud: «Vedi lì sopra quelle case, beh più a sinistra, adesso c’è tutto bosco. Bene, lì c’erano le mie vigne.  Ma tutto qua davanti erano vigne: servivano per il paese” – sai – “e per le osterie”. “Ognuno se lo produceva per la famiglia e qualcuno lo vendeva giù a Torriglia, persino a Bargagli. Anche nelle frazioni più alte. Lo portavamo coi carri e spesso lo scambiavamo con altra merce.” Non riesco neppure ad immaginarmela quella parete di montagna piena di viti. Mentre risaliamo su per la strada vecchia che porta ad Ottone ne approfitto per chiedergli che uve si piantavano da quelle parti. Non mi risponde. Glielo urlo un po’ più forte, che sta camminando come un giovincello che deve averne fatte parecchie di quelle salite e discese nella vita. “Dolcetto e moscatello. Non moscato. Moscatello.” “Veniva un vino buonissimo” – sentenzia. “Non tutti” sai –“lo sapevano fare bene, ma nella mia famiglia sì.”

Ci congediamo con quelle promesse di rivederci che ad un vecchio di novant’anni faranno l’effetto di un voto alla Madonna. Enrico mi aspetta un po’ più sotto a chiacchierare e mi propone di andare più in là, dopo Ottone, a Losso, una minuta frazione dove c’era l’osteria. Ora è una casa. Entriamo e salutiamo Rita. Enrico le parla di faccende del posto, di persone che non conosco, di persone che se ne sono andate. Le chiedo se ha qualche carta, qualche documento sulle attività dell’osteria, che ne so, un menu, un conto, qualche foglietto dove si appuntavano le merci. Foto. Macché le foto si facevano solo nelle grandi occasioni, lascia perdere. “Perché non andate da Gigino, qua dietro. Lui del vino lo produce ancora.” E allora andiamo da Gigino, nella sua cantina sotto casa. Tutti in verde, lui e i suoi amici. Fucili appoggiati fuori: sono appena tornati da una battuta di caccia.

Sono seduti lì dentro e parlano quel dialetto genovese che quando passa al di là del confine si sporca di cadenze piacentine. Ma pure di qua da Gorreto a Rovegno il dialetto è sporco di montagna e patate. Loro sono liguri: hanno ancora la repubblica di Genova ben piantata nella testa e tifano per le genovesi. Simpatie per Milano, ma le liguri sono quelle che contano. Piacenza è troppo lontana anche se fa provincia. Però l’Emilia gli ha lasciato la geografia della convivenza: i paesi hanno le piazze tonde, perché è lì che la gente s’incontra. Non come di qua che le strade tagliano diritte i borghi  come a dire che se ci s’incontra è tutto per caso e non può durare nemmeno troppo a lungo. Maniman.

Stanno tutti bevendo vino da una scodella bianca, che si fanno passare da una mano all’altra. Penso nuovamente alla valle d’Aosta e alla grolla dell’amicizia. Ma non gli chiedo niente. Penso pure alla mancanza di bicchieri. Ma non gli dico niente.

Un vino ramato carico, buonissimo. “Tre varietà di pinot”- mi dice Gigino. Non abbiamo molto tempo per parlare, il giro è stato lungo: “torno in autunno, con calma.” Nessuna calma, a Genova  viene l’alluvione e io a Rovegno non ci vado fino alla primavera successiva. Voglio però tornare a Losso da Gigino, ma non  da solo. Il suo pinot fa luce nella boscaglia e io ho bisogno di complici, sodali e bevitori di rango. Così lo dico a Fiorenzo e ad Enrico, che di rango ne indossano in abbondanza . “Vi raggiungo da Piacenza quando ho finito di lavorare” mi conferma Enrico.”Finisco e salgo su”. Di lunedì 12 ottobre dell’anno corrente.

Fiorenzo, dopo avermi raccattato ai piedi del Porto Antico, si infila nella Serravalle e si butta verso Piacenza: al mattino, prima di raggiungere Losso inerpicandoci per la Val Trebbia, facciamo un passo da Molinelli, produttore a Ziano Piacentino che fuma come un paio di ciminiere a pieno ritmo e divagando di qua e di là ci fa assaporare alcune cose pregevoli, dal prezzo pregevole. Un Riesling renano in terra piacentina, che guarda oltre l’Alpe, parla tedesco correntemente e fa 9.9 gradi senza fare una piega. Poi il Gutturnio che occhieggia favorevolmente e fruttuosamente ai neppur lontani lambrusco. Il fantastico Molinelli passito si sovrappone, infine, a dei barbera a dir poco corpulenti. Acquistiamo e partiamo alla volta della Val Trebbia, cercando un posto dove sgranocchiare qualche fungo fritto e coppe piacentine che da quelle parti vengono assai buone.

E’ tutto chiuso di lunedì a pranzo, manco a dirlo, se non la trattoria “I cacciatori” di Bobbio. Che poi va benone così. Arriviamo a Losso intorno alle quindici dove ci aspetta Enrico. Ci addentriamo nel borgo e, superato l’oratorio di S.Nicola da Tolentino del XVIII secolo, giungiamo alla casa di Gigino che subito ci dice che si era quasi dimenticato dell’appuntamento. E’ di nuovo in verde, ma stavolta con una tuta da ginnastica e sandali blu tipo crocs. Ora fuori dalla cantina sono sdraiati, sopra un’assicella reticolata, alcuni porcini affettati a seccarsi negli ultimi raggi.

Gigino ci scruta e poi inizia a parlare come un vecchio diesel che quando ingrana non lo fermi più: alcuni dei suoi vitigni si perdono nella notte dei tempi. C’erano già quando è nato suo padre, che è del 1909, e probabilmente datano sì e no 150 anni. Producono, quando va bene, tre o quattro grappoli per pianta. A volte nessuno, ma a Gigino va bene in qualsiasi caso: se danno fa il vino, se non danno no. Altre piante variano dagli ottanta ai trenta anni e sono le più. Le ultime, le pronipoti, hanno soltanto 5 anni. Ma saranno anche le ultime.

Gli chiedo subito il vino fatto con i tre pinot, di cui avevo memoria l’anno precedente. Quello del 2013. Pinot grigio, pinot bianco, pinot chardonnay. Le coglie intorno al 10 di settembre, un po’ prima o un po’ dopo a seconda annata, molto mature. Pigiatrice manuale che non  diraspa, quindi la fermentazione parte da sola, magari il giorno dopo e varia interamente dalla temperatura della cantina. Prima la fermentazione in piccole botti per 24 – 48 ore. Anche lì dipende. Svina, toglie i raspi e travasa tutto in damigiane di vetro da 28 litri, perché le botti di legno sarebbero troppo scolme. La fermentazione riprende lentamente nei recipienti di vetro per una settimana, poi travasa di nuovo. Il nuovo travaso dopo quindici giorni, a seguito un mese, un travaso per Natale e l’ultimo a febbraio se lo si vuole mosso.  Abbastanza fermo ad aprile. Fermissimo a maggio e giugno. A scelta, come gira. Un bel colore ramato intenso, laminato di intensità bruno-rosse. Saporoso di citiso dai fiori gialli simili al loto, fiori di acacia, di ginestra, di miele e di cera. Pere mature e lievito. Profondo, ancestrale, tannico. Ah! I Tropici. E poi fresco e sapido, si libra in volo spigolando per poi acquietarsi nuovamente, allargarsi, pungere lievemente e lasciare il tempo in bocca.

L’altro bianco è presto fatto: pinot bianco, pinot chardonnay, trebbiano, riesling, friulano, moscatello di due secoli fa, moscato, lisciöera, pignëu, uve dialettali, vermentino, malvasia di Candia e trebbiano toscano, a chiudere il muller-thurgau. Stesso procedimento dei tre pinot. Con una sola, piccola differenza: le uve già mature raccolte in precedenza vengono messe in cassette di legno in attesa, che dura solitamente una settimana, delle cugine tardive. Qui dovete far conto di assaporare, all’incirca, quasi tutta la flora appenninica tra Liguria ed Emilia, che parte dal giallo che volge verso il bianco: no sto ad elencarla. Tagliente e sferzante quanto mai.

Infine sua maestà il dolcetto. Che strano si dirà, le uve di dolcetto. Si tenga in debito conto che siamo al confine tra quattro province: Genova, Alessandria, Pavia e Piacenza. Forse sono quelle che nel tempo si sono adattate meglio al posto, quando il freddo si faceva largo nelle stagioni e occorreva un’uva che maturasse presto. O forse di scambi e di barbatelle. O di entrambe le cose. Ma l’alto piacentino un tempo fu dolcetto.

Sette giorni di fermentazioni nella botte di castagno da cinquecento litri. Quella ultracentenaria del nonno. Conservata con affetto e premura perché il bottaio della Val Boreca che la costruì, nacque e morì negli stessi giorni e negli stessi anni del nonno . Nel 1864 in un giorno che manco la lapide ricorda e nel 1925. Lavata con acqua e basta. Quest’anno il dolcetto, carico di zuccheri, ne fa 14 di giorni. Durante la fermentazione la botte si scalda, il raspo spinge formando un cappello sottostante alla bocchetta di apertura che non è completamente sigillata. Il mosto bolle sovrabbondante e spinge. Talvolta esce. Si svina e si travasa in botti più piccole dopo quindici giorni. E sempre meno via andando fino alla stagione successiva. Frutti rossi maturi, more e prugne. Bosco di cerri e selvaggina che scorrazza. La cupeta bianca gira di mano in mano: “E’ un modo per accogliere” racconta Ginetto. “E’ come dire che mi fido, sia che ti conosca che non ti abbia mai visto”. “Quando si entra in cantina si beve dalla stessa scodella e si condividono le stesse cose. Semmai sarai tu a dirmi che non puoi perché hai qualche problema. Io non te lo chiedo.” E’ sempre stato così. In cantina si beve con la tazza. “L’asciughi tu?” – e mi guarda dritto negli occhi.

Fiorenzo è Fiorenzo. Enrico insegna e dipinge.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

10 Commenti

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Paolo R

circa 8 anni fa - Link

ecco perché mi piace il vino. Perché al di là di tutti gli sciambrottìi e giramenti di bicchieri, poi ogni tanto si aprono spazi di pura commozione. Grazie Pietro.

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sergio

circa 8 anni fa - Link

E' un articolo pieno di significati espliciti ed impliciti. Che stimola la riflessione fino alle problematiche contemporanee del vino. Ma mi piace usare una sola parola. E' poesia.

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nicola barbato

circa 8 anni fa - Link

che bravo.

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Lorenzo

circa 8 anni fa - Link

Amarcord,mi fa pensare per un verso a Soldati,per un'altro a Bonilli.

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Viviana

circa 8 anni fa - Link

Grazie Pietro! Il tuo test, bello ed emozionante, restituisce i miei paesaggi e le visioni dell'infanzia...ma soprattutto risponde a tante domande che mi faccio da quando sono nel mondo del vino...la cui essenza é perché lassù no? E invece semplicemente si...ma dimenticato o quasi....Ora però una nuova domanda mi stuzzica...ma che ci faceva Rovegno? (Con Enrico del Maestro magari?)...il famoso piccolo mondo!!!

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orazio

circa 8 anni fa - Link

Mi rallegro che ogni tanto Pietro Stara si concede di scrivere su intravino, e buon per noi si discosti dalle frequenti boiate pubblicate sul sito.

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Armando Castagno

circa 8 anni fa - Link

Veramente un gran pezzo, complimenti.

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Josè Pellegrini

circa 8 anni fa - Link

Pietro Stara non finisce mai di stupirmi...Grazie a Intravino d'avermelo fatto scoprire ...tra una "boiata" e l'altra per dirla con Orazio!

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Enrico

circa 8 anni fa - Link

Trovo che sia un bel racconto, tanto fedele alla realtà quanto pervaso da un attenzione alla forma letteraria.

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Maurizio Muzio

circa 8 anni fa - Link

Molto bello. Io il vino fatto a Losso l'ho bevuto un bel pò di anni fa, lo faceva la famiglia di mio padre che era di Frassi, una frazione di Ottone, ma avevano una vigna a Losso ed era quella che faceva il vino buono, mentre su a Frassi avevano dei filari e facevano un vino assolutamente imbevibile. Era un'economia veramente povera e dopo il vino facevano la "vinetta" che non ricordo bene cosa fosse, ma sfruttavano i raspi, i fondi delle botti e poi probabilmente aggiungevano zucchero: Si beveva d'estate, nei campi o, meglio, nelle "prose" che erano o sono i terrazzamenti, le "fasce". Ma il vino di Losso era buono e veniva custodito gelosamente e bevuto alle feste. Parlo di 40/50 anni fa.

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