Messaggio nella bottiglia per chi non ha ancora mangiato al ristorante di Carlo Cracco

di Leonardo Romanelli

Non è più nel gotha della ristorazione mondiale, d’accordo: per la Michelin non sale oltre le due stelle, la 50 World’s Best Restaurants non lo prevede tra i primi cento, anche se in Italia sta avendo successo come non mai. Nella valutazione del ristorante di Carlo Cracco c’è sempre da considerare un prima e un dopo.

Prima con Peck, ovvero con i fratelli Stoppani all’epoca dell’apertura proprietari del marchio, e poi senza Peck. Prima della televisione, intesa come Master Chef e recentemente Hell’s Kitchen, poi dopo la televisione. Prima con Matteo Baronetto, il suo storico secondo oggi responsabile delle cucine Al Cambio di Torino, e poi senza Baronetto. In barba ai suoi detrattori, che lo giudicano poco presente, distratto dagli altri impegni, Cracco con la testa è sempre lì, al ristorante, dove propone una cucina che non rimane uguale a se stessa, ma si rinnova gradualmente: dopo aver già creato dei piatti che lo faranno ricordare nel tempo, ovvero i nuovi classici, a partire dall’uovo marinato, continua alla ricerca di nuovi ingredienti e nuove combinazioni, solo all’apparenza algide.

Si potrebbe dire che esiste anche un prima e un dopo riguardante il servizio, per come viene concepito il ruolo di maître e sommelier nella sua sala: nel corso degli anni, dopo figure di peso, importanti (basti pensare a Luca Gardini) e dotate di personalità vivace, quasi prorompente, la scelta è stata quella di avere personale di sala sempre meno appariscente, poco in evidenza: l’idea fondamentale è quella di servizio elegante e, come tale, che non deve soverchiare ma solo guidare con delicatezza il pasto di un cliente.

Al nome del Cracco nazionale si accompagnano le polemiche: i clienti che contestano il conto elevato causa tartufo, la copertina del settimanale con le due modelle desnude accanto, la scelta di prestare il suo nome alla pubblicità della patata, la nuova trasmissione, Hell’s Kitchen, dove fa il duro che più duro non si può, e poi il nuovo locale dove si inventa una compagna immaginaria, Camilla, per aprire Carlo e Camilla in Segheria.

Insomma, la cosa risulta quasi elementare da spiegare: il successo genera invidia, quindi sono in tanti ad aspettarlo al varco per poterlo crocifiggere. In realtà, tutti questi cambiamenti in cucina non si avvertono, o meglio, le vibrazioni sono solo positive, segno tangibile che la testa è sempre ben inserita nel lavoro.

I menù degustazione proposti sono due, uno a 140 euro con le novità e uno a 160 euro, con i piatti che hanno contrassegnato gli ultimi dieci anni di attività. Nello stuzzichino iniziale compaiono tartine che sembrano vecchio stile, e sono in realtà composizioni eteree, leggere, di consistenze diverse. Poi arrivano le verdure disidratate, da mangiare come chips, che in pochi anni sono diventate di uso comune, quasi abusate nell’impiego ma che qui rivestono un ruolo di testimonianza, un po’ come il risotto all’Harry’s Bar.

L’assaggio a seguire è quello dell’insalata russa nello zucchero solidificato croccante, un godimento “proibito” del gourmet, che in pubblico deve ripudiare uno dei piatti forti degli anni Sessanta, ma in realtà ama nel privato, e che qui può tornare a gustare senza nascondersi grazie alla sua nuova forma e consistenza.

La polenta di amaranto, capperi e nocciole fa parte delle nuove creazioni, sapida e gustosa, lascia un buon ricordo al palato senza sovrastare nel gusto. I filetti di triglia croccanti con purea di lenticchie, castagne e frutto della passione appartengono di diritto ai piatti “difficili” non immediati, anche alla vista ravvivata dal rosso del pesce, ma dove i toni dei colori tendono all’appiattimento: non deludono in bocca, dove invece il gioco avviene fra le consistenze, quella croccante e l’altra pastosa, con il frutto a dare equilibrio.

Un crostaceo, il gambero rosso, per proseguire: qui l’abbinamento è con radicchio e fico d’India, di nuovo alla ricerca di un equilibrio complicato, con la frutta che deve andare a ricoprire il ruolo apportato da elementi acidi, con in più profumi e spessori diversi.

Densi, avvolgenti, potenti: sono i ravioli al latte di capra con funghi alle erbe, aromatici, delicati, anche intriganti nel sapore.

Il rognone di vitello al forno con i ricci di mare è un classico che non delude: sapido, violento, dalla consistenza dubbia ma affascinante, si posa, appare quasi sfacciato nella sua salinità, con il palato rinfrancato da tanta esperienza.

Si termina con un dolce atipico come il dessert al cioccolato, caramello e pere al ginepro, da forme sgraziate quasi provocatorio ma intrigante all’assaggio. Sui vini: la carta è costruita con attenzione, spazio alle realtà più disparate, non manca la “nouvelle vague” enologica: è un tesoro che potrebbe essere messo in maggiore evidenza. Il servizio è discreto, attento, poco appariscente ma sostanziale.

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Leonardo Romanelli

“Una vita con le gambe sotto al tavolo”: critico gastronomico in pianta stabile, lascia una promettente carriera di marciatore per darsi all’enogastronomia in tutte le sfaccettature. Insegnante alla scuola alberghiera e all’università, sommelier, scrittore, commediografo, attore, si diletta nell’organizzazione di eventi gastronomici. Mescolare i generi fino a confonderli è lo sport che preferisce.

2 Commenti

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Eugenio Amato

circa 10 anni fa - Link

Si, ma cosa avete bevuto?

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Emanuela Quarenghi

circa 8 anni fa - Link

E'sempre facile criticare chi è arrivato in alto credo fortemente che chi ha lavorato duro come Cracco può oggi permettersi di fare pubblicità alle patatine. E poi perché no? Non c'è una regola x essere felici di quello che si realizza. Permettetemi di dire che c'è tanta invidia in giro e poca gente che ha ancora voglia di ricercare e stupire.

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