L’Islanda è un posto magnifico nonostante l’assenza del vino

di Alice in Wonderland

La media è di 300 km al giorno in auto (lava, muschio, pecore, cavalli, acqua, cavalli, pecore, muschio, lava a destra e a sinistra), e di qualche altro km arrancato scarpinando (lava, muschio, pecore, cavalli, acqua lungo il tragitto e alla meta) e discese ardite (lava, muschio, eccetera guardando in giù). Dopo tale ipnotica fatica, cosa può esserci di più bello e gratificante che lo scambio di impressioni davanti ad un bicchiere pieno di liquido buono con discreta presenza di alcool? Questo liquido buono con discreta presenza di alcool solitamente per me si chiama vino, ma pretendere vino in Islanda sarebbe ugualmente irrispettoso come l’andare in cerca nello stesso posto di una carbonara.

Poiché la realtà supera (quasi sempre, in fondo) l’immaginazione, a Holvsvollur, il paese fantasma sotto il vulcano dove dormiamo la prima notte, c’è un posto dove si può mangiare, bere e comprare tazze di ceramica e in questo posto c’è un menu che, tra agnelli e zuppe, suggerisce proprio la carbonara. Il vino, però, no. E quindi cominciamo con la birra GULL, 5 gradi di amarezza, una lager snella tutta di luppolo e frutta secca.

A Holvsvollur, in realtà, di posti per cenare ce ne sono due, oltre all’ELDSTO ART CAFE’, c’è un posto che si chiama PIZZA e che, come specialità della casa, offre hamburger. E birra, ancora la GULL, stavolta grande, servita in bicchiere ghiacciato e a sole 100 corone islandesi in più rispetto alla piccola. La seconda birra autoctona la assaggiamo al Café Paris a Rejkiavik, al tramonto e sotto un plaid. La birra BRIO mi piace decisamente di più, gialla dorata, dalla bollicina allegra ma non invadente, sa di orzo e noci, fresca e limonosa, un sorso invita al successivo. Assomiglia a una Pilsner bavarese. E’ sui tavoli di tutti i locali, che ormai dello Jolabland dei tempi del Proibizionismo sorridono con affetto. (Lo Jolabland era un sostituto – psicologico – della birra, nel concreto un Xmas drink con orange soda).

Le successive tre birre locali le assaggiamo dall’equivalente islandese della “SORA MARIA”, trattoria intima e molto frequentata, con menu scritto con gessetto bianco sulla lavagna di scuola e proprietaria/cuoca espansiva e mediterranea. Qui giochiamo anche al piccolo abbinatore, con trote affumicate, zuppe di pesce, zuppe di agnello e … dolce di avena ordinato per un imperdonabile errore di traduzione. EINSTOCK PALE ALE Fresca, sa di malto e luppolo e di fiori e coriandolo, è leggera ma con carattere, discretamente amara e con finale di frutta secca. In etichetta un vichingo barbuto e cornuto, perché “There is a Viking in everyone”.

Il lato bad girls è incuriosito dalla BLACK DEATH BEER – sottotitolo “Drink in Peace” – sulla cui etichetta campeggia uno scheletro con cilindro e due chitarre elettriche. (Slash è un grande estimatore di questo marchio). L’abito, è risaputo, non fa il monaco. E infatti la minacciosa BDB si presenta morbida, spumosa, di caffè, cioccolato, caramello e spezie, tutte dolci e gentili; è proprio buona buona, anzi, proprio bonacciona. E mansueta. No no, proprio non c’è corrispondenza fra dentro e fuori. Un po’ come immaginare Massimo Ranieri sul palco con i Rammstein.

E’ più bad la EINSTOCK TOASTED PORTER, senza dubbio. Sei gradi di struttura e tensione, note tostate (embè) di cioccolato e malto, spina dorsale e un filo di amarezza che sostiene il corpo. Piacevole e non impegnativa, finale lungo. Ma la birra regina di questo giretto islandese resterà senza dubbio la VIKING, scoperta in un delizioso caffè di Rejkiavik, il KAFFIBARINN, dove si sono trascorse piacevoli ore, obbligate dall’happy hour. La Viking è una chiara fatta con l’acqua dei ghiacciai (e già questo, ai miei occhi, è sufficiente a darle fascino e mistero). E’ un blend di orzo, malto e luppolo ed è una classica pilsner beneducata ma non ordinaria. Ed è la preferita degli islandesi.

Non ho assaggiato, e mai avrei potuto, la HVALUR, birra fatta con aggiunta di farina di balena, messa in commercio per un tempo limitato all’inizio di quest’anno, precisamente durante il mese di Thor, perché l’intento della birra era quello di trasformare in veri vikinghi. Gli ambientalisti hanno fortemente contestato l’operazione, ma le vendite sono state un successo. Gli islandesi, statisticamente, non consumano molta carne di balena (il mercato a cui è diretta è principalmente quello giapponese), ma non sono neppure contrari alla caccia al cetaceo e ritengono economicamente utile impiegarne le carni in maniera alternativa all’uso in cucina.

Chiudendo la parentesi corrucciata e tornando alle birre senza balena, resterà vivo nel cuore il ricordo dell’ultima, l’ultima sera, in una freddissima, ventosa e piovosa Keflavik. Tavolino appartato con due metri di felce di plastica e lucine di Natale, nel ristorante Thai più figo di Keflavik. (L’unico). – Una birra, grazie. (Ci vuole una birretta!) – Ehm … (Glielo dico?) – Uh? (E che, non c’hai birre?) – Ha solo 2,2° … (Chettelabeviaffà, c’è l’acqua che è bona). – Ah. Va bene lo stesso … (L’acqua a cena te la bevi tu). – … (Fa’ come te pare). Ma sì, perché quel qualcosa di liquido con un po’ di alcol a fine serata è sempre un piacere! (Ma se sa di Gatorade, che piacere è?)

avatar

Alice in Wonderland

Nascere a Jesi è nascere a un bivio: fioretto o verdicchio? Sport è salute, per questo, con sacrifici e fatica, coltiva da anni le discipline dello stappo carpiato e del sollevamento magnum. Indecisa fra Borgogna e Champagne, dovesse portare una sola bottiglia sull’isola deserta azzarderebbe un blend. Nel tempo libero colleziona multe, legge sudamericani e fa volontariato in una comunità di recupero per astemi-vegani. Infrange quotidianamente l’articolo del codice penale sulla modica quantità: di carbonara.

Nessun Commento

Commenta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.