Lisbona. Per quanto mi riguarda

Lisbona. Per quanto mi riguarda

di Pietro Stara

A Genova si dice ‘fare una signorata’. Quando ci si dona qualcosa che non ci si concede mai, quando si propende verso il piacere insolito fuori dalla portata delle abitudini consuetudinarie. “Non farmi il regalo di compleanno.”- mi dice Cristina – “Facciamo un viaggio! (senza figli)”. “A Lisbona!, che non ci sono mai stato” – prima penso e poi rispondo. Così è. Dal 19 al 22 novembre del corrente anno. Prenotazione a metà di settembre. Da Orio al Serio, via Ryanair. Tutto accade appena dopo la strage di Parigi. In quella settimana cerco in ogni modo di evitare la partenza, abbracciando amici portatori di virus influenzali; esponendomi in maniera inusitata a correnti ascensionali e discensionali; invocando afflussi temporanei di cavallette. Ma niente, ‘purtroppo’ sto bene. Si parte.

Giovedì 19 novembre 2015.
Ci accomodiamo in file da tre con un posto vicino al finestrino, proprio dietro l’alettone. I sedili sono talmente compressi che mi sembra di viaggiare negli autobus nani dei trasporti provinciali genovesi, quelli dove ci si ritrova con le ginocchia in bocca, la schiena bloccata e il braccio sopra o sotto al braccio del vicino. Ma il prezzo ha un suo costo. Mi allaccio la cintura e tiro giù lo sportellino ribaltabile. Confina con la mia pancia: a filo direi. “Devi dimagrire” – mi fa. “Lo so”- e cerco di chiuderla lì, come quando rispondevo a mia madre, da adolescente, che le davo sempre ragione. Una ragione a cui raramente si adeguavano i fatti. “Quando ti iscrivi in palestra?”- prosegue. “Appena torniamo”- mentre faccio finta di cercare qualcosa nello zaino. (E’ passato un po’ di tempo da quel viaggio, ma ho già pre-compilato tutto ciò che serve per l’iscrizione).

Per fortuna che le hostess, munite di mascherina, iniziano il loro balletto artistico carico di significati simbolici che devo scoprire ancora oggi. E si decolla, puntualissimi. Sono un sacco di anni che mi manca la terra dall’alto. E il mare; e i fiumi; e le case; e le strade; e le nuvole. Come “aeronautico è il cielo /vuoto abissale sarà/senza orologi quel viaggio tra stelle e cenere andrà…/e l’ultima donna che avremo un giardino ci sembrerà/sì, proprio l’ultimo approdo di terra/l’ultima donna sarà, l’ultima donna sarà”. (Paolo Conte, L’ultima donna)

Il cielo sopra Lisbona è terso, calmo, quasi piatto. Di un caldo novembrino in un autunno che non si è neppure affacciato. Prendiamo il volabus sino alla rotondissima Praça Marquês de Pombal. Il marchese, imperioso e possente, sospeso sopra un trampolo marmoreo di parecchi metri guarda giù alla Baixa, come se presiedesse ancora la sua ricostruzione ortogonale dopo il tremendo terremoto del 1755. Il nostro hotel, Astoria, si trova in Rua Braamcamp 10. L’ho trovato su booking.com facendo una media ponderata tra prezzo, giudizi medi, distanza dalla fermata della metro, vicinanza al centro, foto delle camere. E la facciata. Sì perché poi su tutti gli altri, con lo stesso prezzo, con i medesimi giudizi medi e ponderati, alla stessa distanza da una qualsiasi fermata metro che tanto non conoscevo, vicinanza al centro e foto delle camere, che sembrano sempre di qualche metro più larghe, ha vinto la facciata. E col senno di poi sono contento.

Come di alcuni vini che bevono dalle nostre parti descritti come felice incastro tra modernità e tradizione: di una modernità che si innesta nella tradizione, di tradizione che non tradisce l’evoluzione dei tempi. E via dicendo. Solo che questo è un hotel e non un vino. Tutto con il badge: ascensore, ingresso in camera, luci. Se si scende dalle scale sul retro e si lascia dietro di sé una porta tagliafuoco, poi bisogna risalire in ascensore. Col badge. Che non si deve lasciare in camera, ad esempio, con la moglie dentro che si sta lavando i denti, perché altrimenti bisogna farsi dare un altro badge. Oppure chi rimane in camera si lava i denti al buio. A parte questi dettagli, la camera è davvero accogliente, moquettata e silenziosa.

La cosa più bella è il bagno: è più o meno spazioso come la stanza e ha una doccia molto, ma molto grande. Formato famiglia, con i nonni al seguito. Viene voglia di lavarsi anche se di voglia se ne ha poca: ad esempio quando, dopo un tour di 15 ore consecutive, ci si sdraia dieci minuti prima di andare a cena per poi accorgersi che sono le nove del mattino seguente. Sono le sedici e trenta ora locale. Lasciamo i bagagli e ci lanciamo lungo Avenida da Liberdade in preda ad un furore mistico e turistico. Larga come un campo da calcio ci induce ad attraversarla più volte. File di alberi, chioschi, vialone e controviali, palazzi in stile arte nova, quando la Belle époque architettonica portoghese, frutto di sincretismo europeo, ruggiva di decorazioni, ferro, vetri decorati, ampie finestre e romantici abbaini: si alternano edifici di stampo razionalista e qualcuno ornato di azulejos.

Molti palazzi ospitano, ai loro piedi, un negozio internazionale che vende prodotti, appunto, internazionali. Come a dire che si è in una capitale, che questa capitale si trova in Europa, per cui non possono mancare negozi che in una qualsiasi capitale europea ci sarebbero comunque. Bisogna sollevare leggermente lo sguardo sopra le vetrine luccicanti per non pensare di essere dovunque. Attraversiamo praça dos Restauradores, quando i portoghesi si disfano degli spagnoli e ci buttiamo giù dritti per raggiungere la praça do Comércio, la grandissima piazza accarezzata dal fiume Tago, quando i portoghesi si liberano della monarchia. Ci volle qualche tempo in più per farla finita con la dittatura. Ci affacciamo al fiume, sopra una balaustra di pietra. Sotto di noi una spiaggia minuscola attende di essere divorata dalla marea. Il tempo è fermo come l’acqua, appena smossa da un luce crepuscolare: “Macaia, scimmia di luce e di follia/Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia…/E intanto, nell’ombra dei loro armadi/Tengono lini e vecchie lavande…” (Paolo Conte, Genova per noi)

Guardiamo Lisbona dal basso e dal largo.
Qualcuno dice lentamente:
‘La conosci, Lisbona …’
La conosco. E’ una giovane
scalza e leggera,
una vento improvviso e chiaro
nei capelli,
una piccola ruga
intorno ai suoi occhi,
la solitudine si apre
nelle sue dita e sulle sue labbra,
scende le scale
tante scale
tante scale fino al fiume.
Io la conosco. E tu, la conosci?
(Eugenio de Andrade, Lisboa 1958)

Telefoniamo a casa per sapere se tutto va bene, perché tutto, da lontano, deve andare bene. Poi lasciamo la piazza alle nostre spalle a caso. I segni sulla cartina sono quelli di un amico che c’era stato un po’ di tempo fa. Occorre una verifica della corrispondenze. E noi abbiamo già in mente la cena.
Non prima di esserci bevuti un bicchiere in un locale per allodole. Un bicchierone di vino nero grassottello e ruffianello, ‘Quinta de Fafide Riserva’, con qualche striminzita fettina di prosciutto lusitano che nemmeno a Genova: il tutto per un prezzo tremendamente europeo. Sono invaso da un primo tocco di saudade turistico – alberghiera, che mi passa subito. Ho la percezione, che poi mi verrà confermata i giorni successivi, di una città divisa: nelle trincee del lavoro gli abitanti di Lisbona. Fuori, a solcare strade, negozi, bar, ristoranti, ascensori, musei…, quelli da fuori. Più che in altre città, più che in altre capitali.

Day-In Day-Out/Stay-In Fade-Out/Day-In Oo Oo/Day-Out Oo Oo Oo/She was born in a handbag/Love left/On a doorstep/What she lacks is a backup/Nothing seems to make a dent/Gonna find her some money honey/Try to pay her rent/That’s the kind of protection that everyone is shouting about. (David Bowie, Day In Day Out 1987)

Passiamo di fronte al ristorante UMA, dove sappiamo che cucinano un super-premiato da chiunque arroz de marisco (riso ai frutti di mare): prezzi popolari, locale molto piccolo. Stupidamente non prenoto e dico a Cristina che ci saremmo passati dopo un altro giretto che tanto è presto. Prediamo così felici e compiaciuti l’elevador de Santa Justa, un ascensore in ferro costruito attraverso un cavalcavia metallico di 25 metri e sostenuto nel mezzo da un pilastro di cemento armato: decorato con quadrifore, costruito tra fine Ottocento e gli inizi del Novecento dall’ingegnere Raoul Mesnier du Ponsard, ci porta fino a 45 metri di altezza. Finita la corsa, si raggiunge la cima più alta dopo una stretta scala a chiocciola. Dentro l’ascensore c’è un bigliettaio. Ma lui, l’ascensore, non va più a vapore.

Lisbona si apre ai nostri occhi: dietro di noi il Largo do Carmo, il Convento, che per la precisione si chiama Convento de Nossa Senhora do Vencimento do Monte do Carmo lungo come il cognome di un qualsiasi giocatore di football che si rispetti, che apre al quartiere Chiado e poi al bairro Alto. In quel largo, il Carmo, la caserma dove capitola definitivamente la dittatura portoghese, nel tardo aprile del 1974. E l’aria si riempie di garofani.

“Dalle ore 08.45 operazioni militari, trattative e scaramucce fra le parti si protraggono per tutta la giornata, durante la quale si assiste alla fuga di alcuni ministri ed all’assedio, nel Largo do Carmo, della caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), nella quale si era asserragliato il Capo del Governo Marcelo Caetano con alcuni membri del suo gabinetto e i militari a lui fedeli. Un ultimatum di resa agli assediati, con scadenza alle ore 17.00, è sostenuto da gran concorso di folla noncurante del pericolo, che manifesta la sua impazienza per il ritardo della resa di Caetano, mentre gran confusione regna nelle file dei fedeli al regime. Alle 18.00 il capitano Maia comunica alla popolazione, che presidiava il Largo do Carmo, la resa del Governo, ricevendo una grande ovazione di felicità. Il capitano ribadisce l’operato del Movimento in nome della libertà e della giustizia, col rigetto del ricorso a qualsiasi forma di giustizia sommaria.

Alle 19.30, al grido di ‘assassini’, Marcelo Caetano ed altre individualità governative lasciano la caserma del Carmo in un’ auto blindata. Manifestazioni d’appoggio alle Forze Armate e d’euforia generale si rinnovano all’annuncio, attraverso un nuovo comunicato, della costituzione di una Giunta de Salvaçao Nacional. Nella Rua Antonio Maria Cardoso, intanto, si svolge l’ultimo atto della famigerata PIDE/DGS, l’odiata polizia segreta del regime, che si accanisce, ancora una volta criminosamente, contro la popolazione civile provocando un inutile spargimento di sangue. Intorno alle 20.00 colpi di mitragliatrice sono esplosi da una finestra del palazzo: in terra quattro corpi, le ultime vittime della repressione mentre quasi 200 persone sono trasportate all’ospedale essendo state anch’esse colpite dagli agenti asserragliati. Poco dopo le 21.00, la Radio Clube Portugues, informa il Paese di quello che sta succedendo nella Rua A.M.Cardoso e allo stesso tempo annuncia che le forze militari sono in cammino per risolvere la situazione.

Alle 22.00 un agente esce dal palazzo con le mani alzate, è disarmato dai soldati, ma, spaventato dalla folla che lo circonda, tenta la fuga; viene abbattuto da un colpo sparato da un militare della colonna ivi presente. Altri tre agenti usciti con le mani alzate sono subito presi e protetti dalla furia della moltitudine che desidera farsi giustizia dei “pides” con le proprie mani. L’assedio dura tutta la notte, ma la mattina successiva alle 08.30 iniziano le trattative di resa che si concludono nell’ora seguente. Alle 09.30 il Maggiore Campos Andrade del M. F. A. (Movimento das Forças Armadas) con i suoi uomini entra nella caserma ed arresta i ‘pides’. Alle 01.26 del 26 Aprile il Gen. Spinola presidente della Junta de Salvaçao Nacional, legge davanti alle telecamere della TV la proclamazione del MFA.”

Davanti a noi la città bassa, le luci che si perdono, il castello che domina l’Alfama. Una signora mi chiede se posso farle una fotografia. E’ una turista solitaria. La inquadro e pigio il pulsante. Per ben due volte. La macchina si inceppa. Gliela restituisco cercando di scusarmi a proposito del mio tocco da mastro ferraio. Lei sorride ancora, leggermente meno di prima. La fame fa capolino e ci scapicolliamo verso UMA interamente invasa da un gruppo asiatico. Sarà per domani. E così è stato. La guida è vecchia di otto anni, i cellulari non intercettano alcun segnale wi-fi pubblico. Siamo seduti in piazza del Rossio e decidiamo di scarpinare verso il quartiere Alto e cercarci un posto privo di indicazioni turistiche validate dal giudizio equilibrato di un consumatore medio.

Evitiamo accuratamente i locali con i butta-dentro non perché non siano necessariamente buoni, ma in quanto generatori automatici di ansia decisoria. Guardiamo i menù fuori, cercando tipicità (almeno 75 modi di cucinare il baccalà) e prezzo abbinato. Guardiamo dentro per vedere se ci sono clienti. Guardiamo fuori dalla porta per vedere quanti premi ha ricevuto, da chi e in che anno. Poi, siccome sono tutti piazzati bene, questo dato si è rilevato poco utilizzabile come criterio di valutazione pre-giudiziale. “Tutti rubano e quindi nessuno ruba”- afferma una certa politica dalle nostre parti. Quando sentiamo parlare portoghese, non dai camerieri, ma da potenziali avventori, allora il dado è tratto e il brodo è servito: Restaurante Alfaia in Travessa da Queimada 22. Ci affidiamo ad un bravo e giovanissimo cameriere, che ci confiderà la sua prossima partenza per Padova a trovar l’amore lontano estudante. Baccalà per baccalà, gli diciamo di provare quello alla Vicentina. Ci porta delle sarde atlantiche alla griglia grandi come branzini del Mediterraneo e patate all’aglio per me e filetes de peixe Galo com açorda de coentros per Cristina. Sulla fiducia. Piatti abbondanti.

Quindi la carta dei vini: di meglio non potevamo trovare. Tutto il Portogallo, zona per zona. Un piccolo neo: non ne sappiamo quasi nulla, per cui ci affidiamo nuovamente alla sua benevolenza. Catarina Branco 2014, Península de Setúbal. Uve Fernão Pires e Arinto che fermentano in acciaio separatamente dallo Chardonnay, che sobbolle nientedimeno che in em barricas de madeira nova de carvalho francês per poi sostarvi per altri quattro mesi con frequenti bâtonnage. Lo Chardonnay evolve ulteriori quattro mesi e mezzo mesi in barrique nuove. Un vino molto fresco, di eccellente sapidità, non complesso, che vira verso frutta esotica e indigena (pesche) a pasta gialla. Mare che richiama mare. Alla fine della carta sbucano i Porto e ne scorgo uno, del 1963, dal prezzo rassicurante: 7600 euro. Rido e chiedo al giovane cameriere se ne è mai stato venduto uno. “Tre la scorsa settimana”- serio. Mi ritorna, per qualche minuto, la saudade turistico – ristorativa. Usciamo belli e brilli come si conviene ad una coppia di sposini che non fanno un viaggio dall’oligocene inferiore. Ci dirigiamo, svicolando, verso l’albergo, perché il giorno dopo ci attende l’eletrico 28 e sulle guide c’è scritto di andarci presto.

Venerdì 20 novembre 2015.
Ci alziamo di buon mattino e di ottima lena: la sveglia bergsoniana incorporata e regolata sul tempo lavorativo funziona perfettamente come dispositivo interiore. Facciamo il giornaliero alla fermata della metro di piazza de Pombal che copre bus, tranvie, autobus e ascensori al costo di sei euro cadauno. Scendiamo a Praça de D. Pedro IV, per gli amici Piazza del Rossio, che con Praça da Figueira chiude la scacchiera della Baixa. La sera precedente ci avevano viste un po’ stanchi. Ammiro e rimiro l’ingresso della stazione ferroviaria: due grandi portali a ferro di cavallo in stile cinquecentesco, neo manuelino, sovrapposizione ardita di motivi gotici, influenze italiane e ispaniche, progettata da José Luís Monteiro e inaugurata nel 1890. Nell’intersezione dei due ferri da cavallo la statua di re Sebastiano I, morto nella battaglia di Alcazar-Quibrir del 1578 dopo aver condotto a fine certa 800 navi e 16.000 uomini.

Salgono a bordo a Belém per poi sbarcare in Marocco in piena estate, con un caldo bestiale e senza uno straccio di piano di battaglia. Abū Marwān ‘Abd al-Malik I al-Sa‘dī, sultano del Marocco, schiera il doppio di soldati, cavalieri arabi e berberi, per vincere facile in meno di un’ora (altre fonti parlano di cinque ore). Sebastiano non fa ritorno e il suo corpo non viene mai rinvenuto. Nessuno comunque crede alla morte del re, perché nessuno lo ha visto morire: “La morte del re e del suo popolo ad Alcacer Quibir e la sua epifania in una data incerta, tra sogno, mito e storia, si costituiscono in messianesimo. Tra soteriologia, escatologia e angelologia, affiorerà e crescerà nell’animo portoghese la figura del suo re sacralizzato. Tra tempo ed eternità, egli fisserà il momento del suo ritorno dalla morte che coinciderà con la salvazione del suo popolo”. (Giulia Lanciani, II sebastianismo: un sogno che nasce come logos)

I Simboli
Primo
Don Sebastiano

Sperate! Caddi là, sull’arenile
nell’ora avversa che Dio ai suoi concede
Lungo il tempo sospeso in cui è immersa
In sogni che son Dio l’anima nostra.
Contan la morte, la sventura o il luogo
Dove caddi se Dio mi fu difesa?
E’ quello che sognai che eterno dura,
E’ il Sogno in cui, un dì, farò ritorno.
Ferdinando Pessoa, Mensagem, O Encoberto (Colui che è nascosto), Parte Terza

Passiamo a fianco del teatro Nacional D. Maria II e ci avviamo a far colazione nel bar che guarda sia il Rossio che Praça da Figueira. Cappuccini del tipo italico prodotti da macchinario automatico a cui aggiungono una spruzzata di zenzero e pastel de nata, una piccola bomba calorica alla crema e con tante altre cose in grado di portare ad assuefazione pressoché immediata. Panna fresca 500/600 ml, dai 5 ai 9 tuorli d’uova, zucchero 160 g, burro per la pasta sfoglia…. a seconda delle ricette e per soli 12 pastel.

Usciamo sulle ginocchia e ci muoviamo verso Praça Martim Moniz, dove il 28 giallo fa capolinea. Poca gente alla fermata; prendiamo posto comodamente e iniziamo il viaggio. “Ho le vertigini. I sedili del tram fatti di robusta e fina paglia intrecciata, mi trasportano verso regioni distanti, mi si moltiplicano in industrie, operai, case di operai, vite, realtà, tutto. Scendo dal tram esausto e come sonnambulo. Ho vissuto la vita intera.” (Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares)

Come un eteronimo di me stesso mi stupisco della precisione millimetrica delle auto parcheggiate lungo la tratta della tranvia. Peli e contropeli di viaggio come nei migliori negozi di barberia. Lo sanno i conducenti e lo sanno gli abitanti dell’Alfama. Ci fermiamo in alto, dopo un brevissimo giro perché Cristina mi dice che c’è un bel miradouro, quello di Nossa Senhora do Monte. Le case sono popolari come gli azulejos che le adornano. Sono pervaso da una saudade mistico-decadente debitrice del Novecento. Anche la sede del partito comunista portoghese sembra l’avamposto popolare di un tempo fermo. Dal miradouro si dovrebbero vedere, con complice nitidezza, il Castello, la Mouraria, il centro fino al Tago e oltre il fiume. Ma “all’improvviso la brezza atlantica cessò, dall’Oceano arrivò una spessa cortina di nebbia e la città si trovò avvolta in un sudario di calura.” (Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira)

Niente da fare, la nebbia avvolge i colli, la città, ovatta la vista e le nostre anime. I raggi del sole faticheranno per tutta la giornata a trovare un varco di presenza. Soltanto a sera inoltrata, verso le 18, quando torniamo per vedere la seconda volta ciò che alla prima veniva solo intuito, i colori prendono il sopravvento. Così dal miradouro da Graça, dal Largo das portas do sol e dal miradouro de Santa Luzia. Prima di salire al Castelo de São Jorge, solchiamo una strada in discesa, attenti a non ruzzolare dopo impensabili scivoloni sulla calçada bianca che riveste i marciapiedi, per poi svoltare alla nostra sinistra verso quello che il giorno dopo sarà Feira da Ladra, il mercato delle pulci che si tiene ogni sabato al Campo de Santa Clara. Poco prima c’è l’imponente Monastero de São Vicente de Fora, che racconta di favole e di riconquista. ‘De fora’ ad intendere che San Vincenzo non veniva da chissà dove, ma che è proprio quel monastero ad essere costruito tra il 1582 e il 1627 fuori le mura e salvato, direi miracolosamente, dal terremoto del 1755. Anche tripadvisor se ne è accorto, tant’è che nella bacheca, tra santi, madonne e gite a Lourdes compare il certificato di eccellenza dei consulenti di viaggio, grazie ad una strepitosa vittoria nel 2015. Chissà se un giorno, sulla porta del paradiso, e perché no su quella dell’inferno, troveremo la medesima attestazione.

Il castelo de São Jorge ne vede di cotte e di crude: abbarbicato dove un tempo scorrazzano celti, romani e iberici, diviene ultimo baluardo di difesa cittadina contro fedeli e infedeli di varia natura. La natura varia a seconda del tipo di fedeltà prescelta. Crociati e anticrociati, mori e cristiani, re e regine se le danno di santa ragione. Poi cristiani di costa (portoghesi) contro cristiani dell’interno (iberici). Quindi portoghesi che si sposano con gli inglesi e dedicano il castello a san Giorgio, di cui sono fan entrambi. Residenza reale, archivio, casa pia per fanciulli poveri e, infine, osservatorio geodetico (Torre do Observatório 1788). Ma c’è la nebbia. Ora le uniche disfide ancora ravvisabili dentro il castello avvengono tra pavoni e gatti. E i primi solitamente hanno la meglio: attaccano in gruppo i felini che si trovano spaparanzati a sonnecchiare in luoghi non di loro pertinenza. Usciamo giusto in tempo proprio nel momento in cui un nugolo di lanzichenecchi tenta l’ultimo assalto dopo aver scrupolosamente pagato il biglietto.

L’Alfama è una sorta di dilatazione psichica e fisica, di grado e di degrado, di sottigliezze e di sotterfugi dell’abitare sud-europeo e nord-africano del mare. Come da noi che viviamo nei caruggi di Genova e siamo abituati a districarci tra sguardi, urla di vicinato, case che si appoggiano l’un l’altra, locali dei locali e locali à la page, botteghe, vicoli stretti e vicoli corti, muri scrostati e rumente accatastate, pisciate sui muri, palazzi decaduti e palazzi trattenuti. Antichi fasti abbracciano asimmetrie e discordanze di povertà passate e recenti. Ma l’Alfama è bianca e rossa e quando tocca il mare diventa blu.
Saltelliamo in giù sino al museu do Fado: dobbiamo farci un salto perché Rocco, supervisore ottantenne di Cristina, le ha chiesto di prendere informazioni su quel quadro in cui c’è una donna trasognante, leggermente flessa all’indietro sulla sedia, che ammira compiaciuta il suo amore dedito al canto e alla chitarra. ‘O Fado’ è titolo dell’opera risalente al 1910 e il suo autore José Malhoa. Sono qui ritratti Amâncio, ‘afamado marginal’ o ‘fadista’ e una donna, Adelaide da Facada. Adesso lo sa.

Fiancheggiamo il lungomare da cui spunta, lungo una lamiera che impedisce la visuale, una nave da crociera. A destra la Fundação José Saramago nella Casa dos Bicos. Camminiamo sino al Sé de Lisboa o Igreja de Santa Maria Maior, la cattedrale di Lisbona costruita sul terreno di una preesistente moschea nel 1150 e dedicata al nuovo vescovo di Lisbona, il crociato inglese Gilbert di Hastings. Un po’ chiesa, un po’ castello, è dotata di due torri campanarie gemelle la cui cima è adornata da un coronamento merlato. Stile romanico in fronte e croce latina dentro. Non uno bensì due organi a canne: il primo del costruito nel 1788 dall’organaro Joaquim António Fontanes Peres e il secondo, quello che si usa, costruito dalla ditta organaria dei Paesi Bassi Flentrop Orgelbouw nel 1964.

Siamo affamati e la guida cerchiata sapientemente dal nostro amico ben otto anni addietro segnala un posto proprio attaccato alla cattedrale: ‘A Tasca da Sé’. Siccome siamo a pranzo, decidiamo accuratamente di non utilizzare alcun criterio di valutazione pre-giudiziale e di entrarci dentro come dei vecchi habitué della zona. Siamo gli unici avventori e ci godiamo il fatto che tutti siano per noi: “tanto è presto” – ci diciamo come per rassicurarci. Questa volta baccalà fritto! O la va o la spacca. Patate di contorno e cipolle marinate in cima. Deliziosamente unto e verace. La cerveja Sagres, birra nazional-popolare portoghese che si divide il 90% del mercato nazionale con i concorrenti della Super Bock, accompagna il tutto. Usciamo dal locale rintronati come dei campanari del Sé, ma pavidi e indomiti come degli stevedores proseguiamo il nostro giro.

Attraversiamo la Baixa e prenotiamo all’UMA, il ristorante. Quello piccolo e col riso superpremiato. Per le 19 e 30, ora nordica. Saliamo nuovamente con l’elevador de Santa Justa, un salto al convento gotico e sventrato del Carmo, che ospita un piccolo e interessante museo archeologico, e quindi per le strade del Chiado e del bairro Alto.

“Dalla terrazza di questo caffè osservo trepidamente la vita. Riesco a vederla poco – c’è confusione – nel suo concentrarsi in questa piazza luminosa e mia. Un marasma, come un principio di sbornia, mi rivela l’essenza delle cose. Fuori da me, nei passi di coloro che transitano e nell’impeto regolato dei movimenti, la vita trascorre visibile e unanime. In questa ora di sensi ristagnanti, in cui tutto mi sembra qualcos’altro – le mie sensazioni sono un lucido e confuso abbaglio – dischiudo le ali ma non mi muovo, come un ipotetico condor. Uomo di ideali quale sono, chi può dire che la mia più alta aspirazione non sia in realtà quella di non cessare di occupare questo posto a questo tavolo di questo caffè? Tutto è vano, come rimestare nella cenere, vago come l’istante in cui ancora non è l’alba. Tuttavia la luce batte così serena e perfetta sulle cose, indorandole di una realtà ridente e triste! Tutto il mistero del mondo precipita fino a scolpirsi davanti ai miei occhi nella banalità di questa strada.

Ah, quanti misteri sfiorano la nostra quotidianità! Come sulla superficie di questa vita complessa di umani, toccata dalla luce, l’Ora, sorriso incerto, si affaccia sulle labbra del Mistero! E come sa di moderno tutto questo! E in fondo così antico, così occulto, con un significato così diverso da quello che risplende in tutto questo!” (Fernando Pessoa, Il libro dell’ inquietudine di Bernardo Soares)

Giriamo a zonzo e in tondo sino a scendere per Rua de São Pedro de Alcântara e a sostare nel suo Jardim. Un po’ di fiato per gli occhi e di pace per le gambe. Dietro di noi, proprio di fronte ad un chiosco, si alzano note di musica capoverdiana dei ‘Guents dy rincon’: violão, mãozada suonano sodade e morna d’amore, di mare, di nostalgia e di terra perduta.

Sodade.
Chi ti ha indicato
questo lungo cammino?
Chi ti ha indicato
questo lungo cammino?
Questo cammino
per São Tomé?
Saudade saudade saudade
della mia terra di São Nicolau.
Se tu mi scrivi
io ti scriverò
se tu mi dimentichi
io ti dimenticherò.
Fino al giorno
del tuo ritorno
Saudade saudade saudade
della mia terra di São Nicolau.
Césaria Évora, Sodade (Miss Perfumado 1992)

Cristina mi prende mano e dice che mi porta in un posto lì vicino. Attraversiamo la strada. Un targa: ‘Instituto dos Vinhos do Douro e Porto‘, sede di Lisbona. “Che bello! ‘Entriamo?” “Dai sono solo le 15 e 30”… mica vorrai bere un Porto a quest’ora?” “Perché, c’è un’ora in cui si può bere un Porto?” Sembra un dialogo a cavallo tra un pubblicità televisiva mal riuscita e una telenovela anni Ottanta, anch’essa di scarso pathos e di impatto incerto. Vinco io anche se nelle sue intenzioni c’è soltanto l’idea di farmi vedere un posto dove si può tornare magari più tardi. Ma so bene che quando si gira per una città non è detto che si torni proprio in quel posto, all’ora giusta, per fare quello che ci si era promesso di fare. Tanto vale astrarsi in un tempo mitico, favorevole, verticale e sospeso. Ed entrare.

Moquette verde per terra, sbiadita, e sul soffitto più scura, intervallata da travi in legno, infondono un calore cercato, avvolgente e vissuto. Dei faretti sbucano timidi per illuminare quanto basta. Lampade a stelo rischiarano quanto serve. Macchie di vini rovesciati per terra e faticosamente asciugate, ma non cancellate da zelanti camerieri, raccontano di passaggi, di momenti andati, a volte molto, di risate, di scivolamenti, di sguardi sbadati, di sorrisi ammiccanti, di ubriachezze moleste e parole al vento. Al lato un lungo bancone per il servizio. Una piccola scala separa gli ingressi di rappresentanza con le volte a botte dai luoghi dell’assopimento squisito. Scaffali verdi espongono bottiglie di Porto severi, austeri e diritti come a continuare la sussiegosa e formale ambasceria.
Poltrone in pelle bianca, stropicciate e spellate, circondano tavolini tondi a specchio che reggeranno piccoli bicchieri ed inchini profondi. Ci accomodiamo dietro l’angolo, a sinistra e in fondo. Due Porto Tawny di 30 anni. Quinta de Santa Eufemia.

Dalla sponda dei sogni illuminata dalla luna
tendo le mani vinte verso te,
oh, declinanti altri fiumi
che gli occhi possano pensare di vedere!
Oh, incoronati con la luce dello spirito!
Oh, velati di spiritualità!

I miei sogni e i miei pensieri piegano
i loro stendardi ai tuoi piedi.
Oh, angelo nato troppo tardi
perché ti incontri un uomo affranto!
In quale nuova condizione dei sensi
potrebbero le nostre vite unite sentire tenerezza?

Quale nuova emozione devo
sognare per pensare che mi appartieni?
Quale purezza della lussuria?
Oh, cirri della vite
attorno alla mia vagheggiata speranza!
Oh, sogno-pigiato vino-anima! (Fedinando Pessoa, Incantesimo)

Usciamo che la luce rischiara ancora la città. Saliamo a bordo della Gloria Funicolar mentre turisti assiepati si auto-scattano foto appagate e sorridenti da mostrare, un giorno non lontano, a parenti, amici e conoscenti invidiosi e penitenti.
Torniamo là dove le nebbie ci hanno impedito lo sguardo lungo, lasciandoci intatto quello dell’illusione.

Scendiamo allegri in direzione del ristorante in Rua dos Sapateiros 177 ed entriamo. Ci accoglie un ragazzo che guarda oltre il banco per dare conferma della prenotazione ad una signora anziana, penso alla nonna, o alla zia da parte del padre, oppure alla moglie del prozio da parte materna. Lo sguardo severo di un signore pettinato all’indietro, leggermente ricurvo in avanti, baffi che non sorridono se non quando è necessario, occhi leggermente strizzati ed attenti, con le mani giunte dietro la schiena, ci indica il tavolo nel quale accomodarci; il nonno, o lo zio da parte del padre, oppure il marito della prozia da parte materna. Proprio davanti alla cucina dalla cui fessura il cuoco impartisce ordini, riceve comande, consegna e ritira piatti, esegue movimenti e gesti atti alla preparazione del cibo.

Ci viene consegnata la carta delle vivande. Cristina non ha dubbio alcuno: il piatto del giorno e di sempre, ovvero il riso con i frutti di mare. Io chiedo ragguagli su altri piatti. Il signore mi fa capire che sono tutti buoni, anche i gamberi, ma che devo mangiare il riso. Gli dico di sì. Ho cambiato idea anche se di idea non ne ho alcuna. Mi faccio consigliare anche il vino e non porgo alcuna obiezione di sorta. ‘Seco’- mi dice. ‘Secco’ – mi va proprio benone. 2014 Casa Ferreirinha Douro Reserva Planalto. Viosinho, Malvasia Fina, Gouveio, Códega, Arinto: tutte uve in amicizia. Mele verdi, limone, sapido e fresco. Disimpegna senza svincolare.

A metà bottiglia arrivano due pignatte con riso rosso, quasi liquido, con i frutti di mare che sembra che sguazzino ancora, anche se un po’ compromessi nelle loro capacità natatorie. I nostri vicini di tavola, due romani, ci rammentano che bisogna mangiarle, come si dice da loro, “co’ e mano”. In Italia sarebbe arrivato quarto, oppure quinto, di un purchessia premio non si sa quale e tantomeno dove. Lo divoriamo sotto l’occhio vigile del signore con i baffi fino a quando il riso si attacca al fondo della pentola e il cucchiaio viene respinto da una forza eguale e contraria. Nel ristorante mangiamo tutti la stessa cosa e questo rievoca in me una vivida sensazione di refettorio scolastico o di mensa lavorativa. Se me ne avessero portata un’altra casseruola non ne avrei lasciato neppure un chicco.

Ripercorriamo in salita l’Avenida da Liberdade e ci fermiamo in un chiosco dove suona una giovane e ballabile band locale. Prendiamo due bicchieri di Ginjinha, infuso in alcol di amarene, zucchero, acqua e cannella, come la vuole un monaco galiziano, Francisco Espinheira, nel 1840. Ma con intenti più probi.

Sabato 21 novembre 2015.
Abbiamo un’idea quadrangolare per questa giornata: allungarci ai confini di Lisbona, a Belém; scrutare l’Oceano da Cascais; inerpicarci nel castello di Sintra; tornare a Lisbona per cena. C’è un elétrico, il 15E, che parte da Pç. Figueira e arriva ad Algés. Prima una fugace colazione in un bar della Baixa: i soliti cappuccini con i soliti pastel de nata, in attesa di quelli di Belém. Saliamo sul 15E e ci sediamo comodamente uno fianco all’altra. Davanti a noi una signora che ci guarda con curiosità dai suoi occhiali spessi: “Siete spagnoli?” “No, italiani” – parliamo sottovoce, come si conviene sopra un tram di sabato mattina. “Ah, la più bella lingua del mondo!” “Io sono un’insegnante di francese. Ma il francese non interessa più a nessuno”. “Sogno pure in francese”- ha quasi le lacrime agli occhi sotto quegli occhiali spessi. Ci sorridiamo. Passiamo sotto al Ponte del 25 Aprile, che collega Lisbona ad Almada. Lei scende poco prima di noi assieme alla figlia e al marito. Così ci sembrano le relazioni famigliari. Fuori una leggera pioggia bagna i vetri di aghi luccicanti.

Arriviamo al Mosteiro dos Jerónimos presto; ricordo di aver detto un meno venti. Proseguiamo a piedi per la torre Belém, o ‘torre di San Vincenzo’, patrono di Lisbona, dopo aver traversato un cavalcavia pedonale ricurvo sulle mie vertigini. Il bastione militare di trenta metri e quattro torri, costruito agli inizi del 1500, bagna i suoi piedi nel Tago, a cui servì da difesa, oppure “disse un poeta, in un momento di rima facile e patriottico disincanto, che solo questo facciamo bene noi portoghesi, le torri di Belem. Il viaggiatore non è della stessa opinione. Ha viaggiato un bel po’ per sapere che tante altre cose abbiamo fatto bene e giusto appunto ha appena visto le volte del Monastero dos Jerónimos. Carlos Queirós fece finta di non averle viste, o sulla torre si vendicò della difficoltà di trovare una rima coerente per il monastero. In ogni caso, il viaggiatore non vede quale utilità militare avrebbe potuto avere quest’opera di gioielleria, con quel meraviglioso terrazzo sul Tago, luogo di massima eccellenza per assistere a sfilate di navi piuttosto che per orientare l’alzo dei cannoni. Che risulti, la torre non è mai entrata in formale battaglia. Meno male.” (José Saramago, Viaggio in Portogallo).
C’è chi dice che li bagnò nel profondo del fiume; c’è chi afferma, al contrario, che un tempo li posava all’asciutto.

Torniamo lentamente dai Geronimiti, al loro monastero, che accoglie un pregevole museo archeologico, a cui dedichiamo il tempo intimo che merita, tra ori di grandissima fattura, steli funerarie, sarcofagi, pietre e mosaici che parlano di tutto e di Dioniso. Dal museo si passa direttamente alla cappella maggiore, al chiostro e al refettorio. Una foto in bianco e nero, degli inizi del Novecento, ritrae bambini orfani, con le mani giunte, che pregano prima di mangiare. O pregano soltanto. O che giungono le mani perché così gli è stato imposto, altrimenti non mangiano. Molti di loro rimarranno poveri; alcuni prenderanno i voti; altri entreranno nelle fila della sovversione; soltanto uno diventerà banchiere e anarchico. Più banchiere che anarchico.

Usciamo per dirigerci al Pastéis de Belém, blu e azzurro. La rivoluzione liberale dell’Ottocento, con la chiusura dei monasteri, obbliga i frati ad ingegnarsi per sopravvivere. Da qui l’antica ricetta delle paste alla crema pasticcera, che attraggono milioni di visitatori, noi compresi. Ci assestiamo in una sala sul retro: due caffè e due paste. Con quelle del mattino abbiamo superato i livelli glicemici consentiti per legge. Ci bevessimo sopra, fermenteremmo con le nostre vestigia ontogenetiche. Ripercorriamo un secondo cavalcavia in direzione della stazione ferroviaria. Faccio due biglietti alle macchinette con il sole che timidamente gli rimbalza sopra, per poi accorgermi di averne fatto solo uno di andata e di ritorno. Così mi redarguisce lo scrupoloso controllore, senza accanimento. Sente che parliamo in italiano. Appunto italiani, dei ‘portoghesi’ sulle ferro-tranvie. Sulle banchine il manifesto del gruppo statunitense Tremonti, di Mark Tremonti: concerto il 25 di novembre. In Italia si sarebbe dovuto ingegnare per un nome artistico un po’ meno finanziario.

Attraversiamo borghi e periferie marine, “mai capito del tutto/se è stato andate via, o tornare./Nemmeno se i segni/erano quelli visti all’entrare o all’uscire/di città: le spianate,/discariche,/i controviali, i fossi lerci/d’acque coloratissime,/teli di plastica…” (Mario Santagostini, Versi del malanimo)

Cascais, tiepida e sonnolenta, accoglie noi ‘cordiglieri’ della grande Lisbona. Siamo affamati di sale e spezie dopo l’orgia pasticcera di qualche ora innanzi. Jardim dos Frangos fa al caso nostro: pollo (frango) no churrasco à portuguesa, conosciuto come ‘frango piri-piri’. Piri-piri è il nome comune di cosa che viene attribuito ad una varietà di peperoncini, menzionati benevolmente come ‘diavoli africani’ e, dagli inglesi, ‘occhi d’uccelli’. La salsa con peperoncino viene integrata da altri ingredienti, tra cui aglio, aceto di mele, olio di oliva, paprika dolce, limoni e dai segreti intimi di cuochi d’antan che diventano spesso pubbliche virtù. Birra a gettare fuoco sul fuoco. L’intensità gustativa dei pastel di Belém si è definitivamente dileguata.

Ci allunghiamo verso il molo a scrutare l’Oceano, che da questa parti lambisce il mondo conosciuto.
“E se Achab è la mappa, lo spirito dell’Occidente, Moby Dick è il mondo come globo, mobile, onnipotente, irriducibile, imprendibile, cui non si può letteralmente tenere testa, fare fronte, perché la sua testa è così vasta e curva che gli occhi sono distanziati al punto che se ne possono vedere soltanto uno per volta, spostandosi da un lato all’altro: esattamente come, nell’indicare la scomodità del globo, Tolomeo faceva a suo tempo rimarcare.” (Franco Farinelli, L’invenzione della terra).

Dietro di noi una ruota panoramica canticchia alla brezza marina. In lontananza delle piccole barche con le vele spiegate al vento giocano al girotondo. Percorriamo un breve attraversamento dietro a bassi villini, che sembra vogliano rispettare un paesaggio in altri luoghi deturpato, per poi scendere alla praia da Rainha, sporcarci i piedi e risalire. Ci sediamo coi piedi allungati al mare, per bercene un altro po’.
L’autobus 417 parte da Cascais in direzione Sintra proprio dietro la stazione ferroviaria, vicino al centro commerciale: quarantacinque minuti di corsa pazza in sobborghi malamente accatastati che rifuggono le lusinghe della balneazione aristocratica.

“….Per la strada di Sintra al chiaro di luna, tristemente, di fronte ai
[campi e alla notte,
guidando sconsolatamente una Chevrolet imprestata,
mi perdo per la strada futura, mi dileguo nella distanza che
[raggiungo,
e in una smania irresistibile, repentina, violenta, inconcepibile,
[accelero…
Ma il mio cuore è rimasto sul mucchio di pietre che ho evitato
[vedendolo senza vederlo
alla porta del casolare,
il mio cuore vuoto,
il mio cuore insoddisfatto,
il mio cuore più umano di me, più esatto della vita.
Sulla strada per Sintra, verso mezzanotte, al chiaro di luna, al
[volante,
sulla strada per Sintra, che stanchezza della propria
[immaginazione,
sulla strada per Sintra, sempre più vicino a Sintra,
sulla strada per Sintra, sempre meno vicino a me stesso…” (Álvaro de Campos, Al volante di una Chevrolet sulla strada per Sintra, 1928; trad. it Massimo Rizzante)

Arriviamo appena in tempo per goderci il Palacio Nacional de Sintra: uno splendore architettonico, di bianco vestito, che tiene dentro di sé narrazioni, stili, impronte e generi di epoche e varietà umane differenti. E tutte si tengono insieme, si sovrappongono, si guardano, si legano e si collegano. Due enormi camini conici sbuffano dalle cucine del palazzo. L’aria gelida ci sferza la faccia come la stanchezza le gambe. Prendiamo il treno per Lisbona, quello che arriva alle 18 e qualcosa. Attraversiamo quartieri cubici e incassati della periferia capitale sonnecchiando sguardi assenti. Ancora un passo alla libreria Beltrand nel Chiado prima di girovagare a cercare un ristorante non taggato dai nostri impercettibili mezzi. I vicoli si preparano allo scontro epocale cittadino: Sporting Lisbona contro Benfica. Ci fermiamo a guardare: nessuno fuori che chiama.

Occhio veloce al menù; premi di rango stampigliati sula porta. E’ nostro, pure per stanchezza: Restaurante ‘Bota Alta’ in Travessa da Queimada 35 – 37 Bairro Alto. Tovaglie a quadri grandi per un tavolo vicino alla porta: è tutto pieno e molti parlano la lingua del posto. Il cameriere che ci serve, la nostra. Io prendo un ottimo maiale con le vongole, carne de porco à alentejana, mentre Cristina calamari alla piastra con riso. Vino ‘BSE Branco Seco Especial 2014’: melone, kiwi e frutta tropicale sgrassano piacevolmente le rotondità animali. Un dolce al cioccolato per concludere. La partita è appena cominciata quando usciamo dalla cena: gli schermi lampeggiano a volti all’insù che ci danno la schiena. Cerchiamo di svicolare dai fasti urbani e calcistici. Un Porto ci starebbe bene. “Che ne dici?” Ci ovattiamo nuovamente. Anche lì la partita segue il suo corso un po’ in disparte, nelle retrovie del bancone di servizio. Due coccole con un Bulas 30 anni Tawny. Frutta candita, fichi, uva passa sciolgono le ultime spossatezze. “Com’è finita?”- chiedo al cameriere mentre mi accingo a pagare. “1 a 1”. “E lei per chi tifa?” “Per me potrebbero perdere entrambe: sono del Porto!” All’Instituto dos Vinhos do Douro e Porto. Porto, appunto.

Domenica 22 novembre.
“Il viaggiatore sta per concludere questo suo giro per Lisbona. Ha visto molto, ha visto quasi niente. Voleva vedere bene, forse ha visto male: è il rischio costante di qualunque viaggio. Risale l’Avenida da Libertade, che porta un bel nome, Viale della Libertà, da conservare e difendere, fa un giro intorno al gigantesco piedistallo che sostiene il marchese di Pombal e il leone che simboleggia il potere e la forza, benché non manchino quegli spiriti maliziosi i quali insinuano che si sia messo in mostra un bel numero di addomesticamento della belva popolare, soggiogata ai piedi dell’uomo forte e che ruggisce a comando….” (José Saramago, Viaggio in Portogallo)

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

14 Commenti

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MG

circa 8 anni fa - Link

Lisbona bellissima e raggiungibilissima, tutta da scoprire ma c'e' da stare attenti a non farsi fregare nei ristoranti e locali, alcuni molto ben forniti di bocce anche interessanti. Da ritornarci senza troppi scrupoli!

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Nelle Nuvole

circa 8 anni fa - Link

Epistola lusitana meravigliosamente orchestrata.

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G.S.

circa 8 anni fa - Link

la piacevolezza di questo racconto colto invoglia a conoscere o riscoprire il Portogallo e mette, giustamente, in secondo piano le note intravinose. Complimenti!

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Gianluca Zucco

circa 8 anni fa - Link

“Sostiene Pereira” giaceva da troppo tempo in attesa di una scusa per essere ritirato dalla mia pila di libri eternamente candidati alla prossima lettura. E la scusa nel frattempo si è trasformata in un languido stimolo. Complimenti.

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sergio

circa 8 anni fa - Link

Non è il solito articoletto che si legge sui blog turistici. Non è il solito articoletto impregnato di gastrofighettismo che si legge nei food blog. Non è il solito articoletto leggero...ma così leggero...perché vuoto. E' di una leggerezza pesante. E il vino c'è ma non è invadente. . Spero che Intravino non si omologhi, mai. Che non perda la sua specificità.

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Emanuele

circa 8 anni fa - Link

Che bello...

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Alessandro

circa 8 anni fa - Link

Bellissimo post su una città che amo. Unico dubbio: perché lungomare se in verità è il fiume Tejo?

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Pietro Stara

circa 8 anni fa - Link

Grazie. Lungofiume: hai ragione. Sguardi erronei figli di genovesismi d'abitudine

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Paolo

circa 8 anni fa - Link

Post autocompiacente, falso modesto, prolisso e pieno di citazioni, radical chic. Bocciato.

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il farmacista goloso

circa 8 anni fa - Link

Cattiveria gratuita, Paolo. Bocciato lei. Rimedio: non rileggerlo. Rimedio bis: rileggerlo tra le righe, la poesia si annida proprio lì. Rimedio ter: impararlo a memoria, per odiare ancora un po' di più gli intellettuali.

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Baser

circa 8 anni fa - Link

Oh, a me Pietro Stara mi piace. A me mi.

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G.S.

circa 8 anni fa - Link

Caro Baser, bisogna sempre completare le frasi o….. i concetti!!

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claudio

circa 8 anni fa - Link

http://englishlive.ef.com/it-it/blog/frasi-tronche/ FRASI TRONCHE – COSA SONO, COME SI USANO E PERCHÉ Rinforza quello che si dice: una frase tronca può dare enfasi a un’affermazione o a una frase precedente.

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Denis

circa 8 anni fa - Link

Che bella Lisbona! La prossima volta i gamberi all'aglio della Cervejaria Ruca!

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