L’immaginazione al podere #3. La veridica historia di Pinotu, Giuseppe e Belzebù

di Emanuele Giannone

Questo è il resoconto asincrono e sghembo di una giornata di assaggi e personaggi nel Roero: toponimo al quale ricollego la suggestione ingenua della sua scoperta nei favolosi anni ’80, quando infilavo contento il naso nelle guide prima ancora che nei calici e l’Arneis era una delle trovate tra ultimo grido e next-big-thing, liquidi e parole per riempirsi la bocca. Fu presto derubricato a delusione, insieme ai vini rossi della stessa denominazione: nella mia rassegnata ignoranza ero comunque saturo di caramelle e marshmallow, marmellate e matite, pini silvestri e tabacco da masticare. Un’avversione motivata anche da una partigianeria storicista: i signori di zona – i Rotarii, o Roero – furono una potente famiglia mercatale accasata ad Asti e colà, come in mezza Europa, tenutaria di casane; famiglia, quindi, assurta al patriziato praticando l’attività feneratizia, cioè quella che il pluto-estetismo linguistico della tecnica bancaria e creditizia ha edulcorato con gli appellativi di cambio valute, prestito su pegno e simili. I casanieri applicavano un tasso da usura ma evitavano l’accusa e la condanna prestando a condizioni di favore a nobili, governanti, alto clero. Bella gente. Ce n’era abbastanza per mettere una croce pregiudiziale sopra la sponda sinistra del Tanaro albese. Negli anni a seguire, per fortuna, gli assaggi consigliati da amici più colti hanno preparato il terreno per il recente ravvedimento operoso, che devo in parte al fortuito incontro con un bouquiniste portodanzese e un libro del tipo ritenuto comunemente più inutile: le pubblicazioni finanziate dalle banche, tipico acquisto a peso dei saloni del mobile per le loro esposizioni. Invece, Dalla carità al credito di Renato Bordone (ediz. Cassa di Risparmio di Asti) è servito a riconsiderare la mission e la vision delle casane astigiane, delle merchant banks ante litteram che impiegarono un po’ dello sterco del demonio per far più belle e ricche le loro città; e che oltre a capricci e guerre di potentati, sostennero anche imprese e commerci. Ma il passo decisivo per il recupero personale del Roero è nella recente visita ai Viglione di Generaj.

Generaj è poco fuori Montà. Vi si arriva scorgendo il fenomenale e labirintico paesaggio delle Rocche: una sorta di kermesse cronostratigrafica a spasso tra Miocene e Pliocene, vero parco di divertimenti per geologi e geodeti; ancor più divertente, forse, per amanti di boschi, forre, calanchi e tartufi, o per motociclisti, trekkers ed escursionisti a cavallo. Le scienze esatte fanno risalire tutto questo divertimento alla cosiddetta cattura del Tanaro, evento che, nonostante il nome suggestivo, è un racconto a sfondo idrografico e non mitologico. Lo salto molto volentieri perché gli si oppone una versione antistorica ma assai più avvincente: quella di Beelzebub emerso dalle acque del fiume perché invocato da un pugno di feudatari, esasperati dalle angherie del tiranno di turno. Deve essere andata più o meno così: “Cuntra côeul dìau del Tiràn, aj andarìja giùsta el Dìau!” [1].E giù moccoli di lauto contorno. Musica per le orecchie a punta del signore delle mosche, che approfitta subito dell’atout e affiora dal Tanaro già munito di scavatrici, esplosivo, variante al piano strutturale, valutazione d’impatto ambientale, contratto d’appalto e permessi vari: “Ben, fiöj, mi sun sempre sì, a basta ciàmeme![2] Ecco a voi: una firma qui, una qua – a inchiostro rosso, prego – e io in una notte vi sbanco i bricchi a Pocapaglia e con la terra di risulta ci alzo un pianalto a Cherasco. Con un modico sovrapprezzo vi faccio pure la roccaforte. E il tiranno non lo vedrete più. Pagamento in moneta virtuale: anime, non bitcoin.”. Sulle prime l’idea di dare le anime al diavolo non piacque ai castellani; ma presto, giacché erano bene avvisati nell’arte del commercio e vedevano nell’affare un buon tornaconto, si risolsero a concluderlo mandando al diavolo qualche povero disgraziato. Chiusi i lavori e i cantieri entro la scadenza pattuita, Beelzebub depositò la dichiarazione di fine lavori, ebbe la sua moneta virtuale e i feudatari si liberarono del tiranno.

I vigneti aziendali si trovano ad altitudini comprese tra i 330 e i 350 m.s.l.m. su terreni prevalentemente sabbiosi e calcarei, con saldi di limo e argilla per quelli dedicati alle varietà a bacca rossa. A gestirli troviamo tre generazioni: nonno e nipote omonimi, quindi un doppio Giuseppe, più Gian Paolo, il padre. Il nome dell’azienda sta per generale, stranome del bisnonno che fu conciliatore per il Comune e distributore di bachi da seta per le fiorenti colture del tempo. Non militare, quindi, ma militaresco per l’inflessibile gestione dei suoi uffici pubblici e dei suoi poderi: l’appellativo gli viene da tanto piglio. I suoi registri sono conservati con cura come vademecum di piccola epica ed etica (e se volete anche etnica e pathos).

In una sala al pianterreno, Beppe mesce ed enologo annuisce. Faustum futuri regiminis vaticinium. Tutto bene. Tutto bene anche per i commensali reduci dal pranzo, spiaggiati sul pomeriggio come balenottere alla mercé di correnti di crostini al tartufo, ravioli al sugo, gnocchi al castelmagno, stracotto (quello del sugo per i ravioli), cinghiale in civet e a finire bunet – e dire che il ristorante doveva essere un modesto intervallo tra mezzogiorno in bianco e pomeriggio in rosso. Tornati al campo base, ognuno al suo posto e ai suoi calici, viene servito il primo vino. Quand’ecco irrompere, bello e improvviso, un giovanissimo signore d’età avanzata: arriva una prima volta con una sporta di castagne, una seconda con un grappolo d’uva. Doppia epifania di giovinezza nonostante le rughe e le novanta e passa primavere, bello come può esserlo chi si è sempre risolto a viver bene. È Pinotu, l’altro Giuseppe, nonno-scenografo-sceneggiatore di Beppe junior che è il regista. Alla scenografia perfetta mancavano solo la sua eleganza desueta e sorriso d’altri tempi; alla perfetta sceneggiatura la sua entrata in scena. Bello coi suoi colpi di teatro, il cesto con le castagne extra-large che presenta orgoglioso come le giapponesi e poi il grappolo da offrire a tutti, rigorosamente partendo dall’enologo. Bello al punto da render chiara l’oscurità di un dialetto impervio e meraviglioso, dalle intonazioni tutte dossi e dorsi. E il Roero è già bello così. E c’è anche il vino.

 

Metodo Classico Brut Millesimato 2010 (arneis 50%, chardonnay 50%). Perlage fine e regolare. Crosta di pane, fiori e spezie bianchi, ananas, anice e un cenno di mandorla a integrare un complesso aggraziato, misuratamente morbido, senza pesantezze. L’impressione è confermata al gusto, ben accordata alla vena sapida e alla vivacità della carbonica: sensazione tattile fine e nettante, non aggressiva; equilibrata e composta quella aromatica, con note prevalenti di frutta gialla e crosta di pane ad anticipare una venatura amaricante e tostata (nocciola) in chiusura. 36 mesi in bottiglia sui lieviti, 5 g/l di zuccheri.

Roero Arneis DOCG Bric Varomualdo 2013. Fiori bianchi e gialli (acacia, biancospino, ginestra), erba falciata, anice, pesca bianca, maggiorana, cardamomo e pepe bianco. Diritto e fresco al palato, ben gestito nella progressione, chiaro nei riconoscimenti di pesca, aloe, regina claudia verde, kiwi e cardo. La vena calorica si effonde piano, procedendo verso il finale, insieme a note di pera matura, idromele e una piacevole vena amarognola.

Roero Arneis DOCG Quindici Lune 2012. Mela golden, mandarino, verbena, pesca gialla, ginestra, burro di arachidi e pepe bianco. Al palato l’attacco e decisamente fresco, d’impronta agrumata ed erbacea. In fase centrale un passaggio brusco e scalare alla diffusione calorica e a note più morbide di camomilla, miele, spezie bianche e tè verde. Dopo quest’intervallo la resa degli aromi è lenta e regolare, la sensazione prevalentemente calda e avvolgente li distribuisce senza confusioni. Finale morbido e speziato.

Vino Rosato Isola 2013 (nebbiolo 100%). Cera, rosa canina, viola, frutti rossi freschi, cenni salmastri e di carne. Svetta e sfugge, è di verticalità quasi contundente. Freschezza d’attacco al palato e frutto in grande spolvero: ciliegia, prunella, fiori e in aggiunta bacon e carne secca. Poi si dilegua. Preso così è una rima baciata: ricercato e corretto, poco coinvolgente, più “incorsettato” degli altri, forse anche per una più generosa solfitazione. Se però lo si strappa al cerimoniale dei rosati, servendolo a temperatura da rosso e lasciandogli tempo per distendersi, rivela la virtù innata e non protocollare dell’uva di talento: niente convenevoli, prende letteralmente corpo e un altro passo, fa grande presa al palato e sviluppa più regolarmente calori e sapori. Trattato da rosso, insomma, è buono: più autorevole, meno precipitevole.

Langhe DOC Lüsiota 2010 (nebbiolo 50%, barbera 30%, croatina 20%). Così Beppe: «Mia nonna Lüsiota (Lucia, ndr) aveva un ruolo importantissimo all’inizio dell’attività commerciale. Lei e mio nonno hanno percorso insieme 67 anni di matrimonio, lavoro e dedizione alla famiglia. Era lei a tenere i conti e, mentre mio nonno era totalmente preso dal lavoro in vigna e cantina, curava la famiglia e la parte burocratica. Si è sempre distinta per la sua discrezione e semplicità. Fino all’ultimo dei suoi giorni si è interessata alle novità che a mano a mano introducevamo in azienda. La sua umile personalità traspariva dagli occhi lucenti. Quando le presentai il vino che le avevo dedicato, arrossì quasi vergognandosi, ma io sapevo di averle fatto un bel regalo. A ogni ricorrenza mi chiedeva qualche piccola confezione da offrire ai parenti e a loro diceva “assaggia un po’ il mio vino, guarda cosa mi ha combinato Beppe”, sorridendo orgogliosa. Il “suo” vino è semplice, contadino come era lei, onesto e per niente banale…». Generoso e accogliente, pieno di suggestioni erbacee (oliva, cappero, cardo, malva), cenni di fiori e frutta fresca (susina, ciliegia, mora) e uno di fumo che non ha a che fare col legno – la vinificazione avviene in cemento e l’assemblaggio in acciaio. Bocca opulenta e soda, senza mollezze, buona per nerbo, trama tannica e definizione del frutto, lineare per progressione e coerente anche nel ritorno della sottile nota affumicata.

Barbera d’Alba Superiore Ca’d’Pistola 2010. Barbera energica e corposa, di rustica e non ricercata eleganza. Prugna, marasca e mora composte a cenere, pepe rosa, viola e muschio. Slancio e tensione al palato con il frutto in evidenza, fresco e mai ridondante. Una vena sapida e ferrosa sottesa all’intera progressione, calore misurato e chiusura nitida, asciutta e saporosa con tannini molto buoni, fondenti e fini, a smentire i dubbi sulla scelta del lungo passaggio in legno piccolo. 18 mesi in barriques e 3 in acciaio.

Roero DOCG Bric Aût 2010 (nebbiolo 100%). Terriccio, viola, ciliegia, macis, cacao in polvere e cenni di menta, salvia e incenso. Al palato l’approccio è in freschezza, subito regolata dalla viva e prolungata sensazione calorica. Ampio, ricco di richiami a frutta rossa e nera, misurato e regolare nello slancio, durevole nelle sensazioni finali e fitto nella trama dei tannini, dolci e minuti. 18 mesi in barriques e 3 in acciaio.

Roero DOCG Bric Aût Riserva 2010 (nebbiolo 100%). Insieme olfattivo di notevole stratificazione e profondità: sottobosco, succo di ciliegia, mora, ribes nero, toffee, nocciole tostate e ricordi – corteccia, noce, vaniglia – della lunga permanenza in botti piccole (27 mesi + 3 in barriques). Al palato è serrato e non immediato per espressione: grande corpo, rilievo e fittezza della trama, equilibrio nel rapporto tra acidità e alcol e tra dolcezza e freschezza delle note di frutta rossa e nera (amarena da un lato, gelatine di frutti di bosco dall’altro). La sosta in barrique risalta ma non raffrena lo sviluppo aromatico, né condiziona la persistenza, scandita da tannini radenti e di grande nettezza.

 

PS – Un minimo trippa-advisor: non so se l’Hotel Ristorante Belvedere di Montà sia recensito o premiato da qualche guida, ma lo raccomando caldamente. Il pranzo sopra citato, prima ancora che abbondante, è stato eccellente. Allo stesso modo raccomando la pasticceria Novo e il pasticcere Enrico Novo, in particolare per i pani all’uva, semplici e squisiti, farciti con uva arneis e brachetto dalle viti dei Viglione.

 



[1] “Contro quel belzebù del tiranno, giusto belzebù ci vorrebbe!”

[2] “Ehi, figlioli, io sono sempre qua, basta chiamarmi!”

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

1 Commento

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Andrea Zarattini WineZone

circa 9 anni fa - Link

Vorrei aggiungere due cose: - Beppe è sempre disponibile e sorridente; - il rapporto qualità/prezzo è insuperabile.

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