La Borgogna delle piccole cose (tra Place Carnot e Domaine Albert Morot)

di Emanuele Giannone

Dire “Borgogna” parlandone stavolta anche un po’ al di là del vino, riviverla nella mente come si rivive un collage onirico: i contorni potranno apparire un po’ sfocati, forse, ma chiare e precise sono le immagini rimaste fisse nella mente, istantanee in bianco e nero, brevi sequenze di un filmato, strofe di una canzone. Tracce. Che non si propongono di offrire un quadro fedele, perché l’oggettività non ci compete: la scienza, anzi, ci insegna che nel momento in cui osserviamo le cose, non le vediamo così come effettivamente sono.

Ci siamo quindi arresi alla vivida apparenza e abbiamo provato a immaginare qualcosa di non ancora immaginato, allontanandoci un poco dal racconto più usuale. Abbiamo guardato alla Borgogna dietro il vino e mentre ne eravamo parte: con una prospettiva e una relazione dall’interno, non da osservatori esterni. Essendone parte, abbiamo colto le tracce: frammenti di un’essenza che un corso e un libro di testo solitamente non insegnano.

Il calare della sera su Place Carnot non ha prezzo. Scende piano, che sembra il sipario di un vecchio teatro, il cielo resta chiaro mentre i bar à vin accendono le luci, è una sorta di mondo capovolto, in cui i tetti appuntiti delle case, poggiati sulla tela ancora celeste, disegnano qualcosa in chiaroscuro. Fino a poco prima il medesimo chiarore nudo riempiva cielo e città, il primo vibrante e la seconda immobile, nuda e resplendissant sotto il velo del sonno. Ora, giunto il tramonto, si desta senza precipitazione, si veste per la sera, arriva con comodo e si presenta in serafica semplicità. Portami a mangiare. E così ci ammaestra sulla malìa d’ammanierare l’indolenza in avvenenza.

Place Carnot è il centro della vita di Beaune, lì si concentra il vociare dei turisti e degli abitanti della città, lì tintinnano calici e dalle porte delle cucine escono senza tregua flotte di escargot e squadre di jambon persillé: è il naviglio sottile che sortisce a preparare l’intervento di incrociatori e corazzate. Dagli effluvi si presente infatti la stazza imponente del boeuf bourguignon e dell’andouillette, o il calibro di certe salse tanto care a noi, quanto invise ai salutisti e dagli stessi certamente invidiate. Qualche centinaio di metri più in là, ma sotto lo stesso chiaroscuro, i vicoli e le strade si ritirano nel silenzio, i gatti si stiracchiano sui davanzali, dalla lontananza una tuba svetta in una fanfara che esegue pop in versione da camera.

E’ bello tornare per la terza volta a trovare una grande Maison alle porte di Beaune. Bello perché per la terza volta è la stessa persona ad accogliere sull’uscio, quel personaggio che ricordi per gli assaggi mai scontati, sempre diversi, messi insieme con la giusta combinazione di logica, senso e improvvisazione (l’improvvisazione riesce bene solo se gli attori sono esperti tanto dell’arte, quanto della parte); quel ragazzo composto, gentile, generoso. Nulla di strano, dunque, che ti aspetti sull’uscio per la terza volta – it’s business, baby, è il trattamento standard per i clienti reiterati. E noi, clienti reiterati lo siamo, ma non più suoi, perché nel frattempo ha dato le dimissioni, lavora altrove e non vende vino. Eppure è lì, nel suo ex posto di lavoro e ti guida per la terza volta sorprendendoti ancora. Cortesia e affabilità sono immutate: quella che molti, fra Eruli e Ostrogoti, scambierebbero per affettazione è piuttosto una familiarità con le buone maniere struggente e acronica. È tornato per noi, o addirittura l’hanno richiamato per noi, quasi ci ricordino come ospiti prima che clienti. Se ve la figurate, l’ipotesi è iperuranica: immaginate di tornare a una casa ove abbiate trascorso ore memorabili grazie a un certo padrone. Bussate alla porta, vi viene aperto, il padrone ora è un altro e tuttavia, essendogli giunta voce che col primo siete stati bene, si è peritato di richiamarlo per concedervi immutato agio. Una favola. A leggerla bene, questa storia fuori dal tempo trascura la prosopopea dei contemporanei e ricorre alla bellezza dei classici. È l’inverarsi del sogno di un viaggiatore classicista, addormentarsi con l’hospitality per risvegliarsi con la xenía. Dimenticare il Quai de l’Ile sul comodino e mettere al polso l’acronìa.

La canicola stranamente non rende fosco il paesaggio. La gamma del verde attraversa lo sguardo più volte al giorno, penetrante, vivida. Gli occhi, di quella vita, devono assorbire quanto più possibile, respirarla.

Il solerte portiere di Geoffroy Choppin de Janvry, Domaine Albert Morot, è un cagnolino bianco e caffellatte. Avverte dell’arrivo dei visitatori abbaiando e scodinzolando. L’abbaiata è probabilmente un’intemerata per aver noi poco prima sbagliato cancello, attingendo alla memoria del nostro head disk e finendo in un cantiere.  Ogni tanto il portiere si farà vedere in cantina durante la visita e non sarà l’unico animale presente: sapremo da fonti certe d’esser osservati da uno chauve–souris (pipistrello) e ci verrà anche indicato il punto in cui alberga.

Al Domaine Morot ci daremo in tutta scioltezza e senza pretese al gioco del “trova le differenze”: stesso vino, due pièce nuove. Qual è la migliore e perché? La sorpresa è che tanto per Geoffroy e suo figlio, quanto per noi, curiosità, slancio e divertimento sono i medesimi. Ci si intende: non già perché si convenga sulle stesse definizioni per il frutto in itinere dei suoi Beaune. Non si cavilla su ciliegioidi e fragole infinite. Ci si intende perché si ama il gioco e se ne è compreso alla perfezione lo spirito.

E, a proposito di spirito, Geoffroy è persona che ride volentieri e che distilla una buonissima Fine de Bourgogne.

Pierre Escoffier è sempre lo stesso, per lui il tempo non passa mai. O meglio: è sempre lo stesso dopo che da qualche tempo lo frequenti e studi. Non che lui aborra studiatamente il modello del piace alla gente che piace. Tutt’altro: lo ignora per natura. Si studia, questo sì, di far piacere qualsiasi pietanza esca dalle cucine per giungere a un tavolo, ma non è avvezzo a compiacenze o sorrisi di circostanza. Composto, compito, ironico, quando scegli un vino che piace anche a lui, in un certo senso lo si capisce; e se capisci che vino gli piace, in un certo senso capisci anche un po’ lui. Da tachicardia come sempre i suoi ris de veau: nenche loro, le animelle, invecchiano mai. Il ciottolato del Passage Sainte Helène risuona di passi allegri, gente che entra, a Ma Cuisine, gente che va. A fianco del suo locale ce n’è un altro, più moderno e dal nome esotico. Sarà buono, non dubitiamo, non ci siamo mai stati. Ma accanto al primo e alla sua non ostentata non-obsolescenza fa l’effetto d’un effetto speciale nei film di fantascienza anni ’50. Godzilla vs Pierre. Puntate sicuri sul secondo.

Una gioia quasi infantile è data dall’appropinquarsi del momento del ritiro dei vini ordinati en primeur l’anno precedente. Ci si sente come se al posto della Confirmation de Commande si avesse fra le mani il tagliando vincente di una giocata al totocalcio. Anche qui siamo accolti dalla stessa persona, qui però il sorriso, inizialmente striminzito, è andato ampliandosi visita dopo visita. Uno, ics, due: ad alimentare la nostalgia di vecchie ricevitorie c’è il turbinare di appunti e tagliandi come matrici figlie e spogli della vecchia SISAL. Prune si dice più a suo agio così che con il tablet e la cosa ci piace alquanto. Intanto, confrontiamo i tagliandi: la giocata è sulla ruota di Chambolle-Musigny, matrice figlia e spoglio recano stampigliature diverse, nell’ordine Village, Plantes e Charmes, ma l’assaggio toglie ogni dubbio: abbiamo vinto.

E poi all’una e mezza di notte ti ritrovi con un Alien incubato in zona sub-occipitale e hai bisogno di un OKI®, o di un’aspirina, e non sai come trovare la farmacia di turno. Così bussi alla porta di un hotel che non è quello dove soggiorni e ti imbatti in un premurosissimo portiere di notte che ricorda le figure dei quadri di Rousseau ma anche un po’ quei film francesi con Jean Reno. Ti trova l’asprò (Aspro®), si assicura che non sia scaduta, porge l’acqua, si preoccupa della mancata effervescenza e ne adduce la causa alla temperatura troppo bassa del liquido, mostra quali sono le pasticche che invece prende lui, ma ne servono due insieme e lui, purtroppo, ne ha una sola ma, tutto sommato, c’est pas grave, perché l’Aspro® va bene per i mal di testa forti mentre i suoi medicamenti solo per i mal di testa petit.

Che restino pure sfocate e confuse, queste immagini, che si confondano e si perdano senza ordine cronologico e tanto meno d’importanza l’una nell’altra. Che restino lì, accovacciate in qualche angolo della mente, per apparire nel momento più inaspettato a regalare buonumore e racconti fantastici, oppure a indicare nuove tracce di quello che non vediamo direttamente. Che restino, insomma, per conforto o  compagnia, a titolo di minimo vademecum gnoseologico o di minima enolalia, come vi pare.

Scritto a quattro mani con Alice in Wonderland

NOTA – Si ringrazia Carlo Rovelli per aver disseminato di tracce preziose le sue Sette brevi lezioni di fisica (2014 Adelphi, Milano).

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

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