Il dilemma dell’astemio è un problema, altro che dilemma dell’onnivoro

di Pietro Stara

Per noi bevitori di liquidi odorosi a diversa gradazione alcolica, l’astinenza da vino (astemio – abstemius da abs, privativo, + temetum, vino) viene letta pressoché unanimemente come forme di malattia riconducibile o ad elementi fisici, o ad elementi psichici, o ad entrambi. Mentre qualche forma di indulgenza, anche se non plenaria, viene concessa a coloro che non bevono per motivi fisici, va da sé, sulla seconda forma, che assume spesso sembianze sacrali/religiose, o a-priori kantiani di matrice filosofico trascendentale, l’avversione è netta. Improvvisati seguaci di Søren Kierkegaard, i bevitori seriali imputano all’astemio l’assenza della scelta, l’appassimento in consunzione avrebbe detto il filosofo, a cui seguono due possibili atteggiamenti:

1. Del mite consiglio: l’atteggiamento del bevitore è simile a quello dell’adulto con un bambino che si rifiuti di assaggiare questo o quel cibo. In questi casi, dopo una lunga prolusione che tiene insieme elementi storico-sociali, archeo-botanici e folkloristici, il martellamento cerebrale passa attraverso lo sciorinamento delle indubbie e inevitabili virtù terapeutiche associate ad un buon bicchiere di vino. In zone di montagna le virtù medicamentose sono quasi sempre interpretate da grappe, genepì, amari alle erbe d’altura, grolle dell’amicizia e via cantando. Il tutto si conclude, spesso, con un disperato appello: “Almeno provalo!”

2. Della rabbia malcelata: Il bevitore seriale si sente colpito nel vivo. Riesce a trattenere a stento le convulsioni facciali. Emette suoni rauchi ed incomprensibili. Svolge lo sguardo ad altro. Continua a bere e rivolge le proprie attenzioni ad un lontano cugino di sesto grado, invitato a sua insaputa dalla nonna di 107 anni, con cui il massimo delle relazioni, a partire dal fatidico anno 1975, sono cominciate e finite con un laconico “ciao” – “ciao”. Nei casi peggiori la rabbia si trasforma in una scenata virulenta.

Chi meglio di Giuseppe Gioachino Belli, sintesi colta della plebe romana, nel suo sonetto “L’ammaloricato” (14 gennaio 1833), “Il malaticcio”, ha reso conto dell’astemìa paragonandola addirittura ad una bestemmia? E la soluzione per guarire il malaticcio? Lo metterebbe ar zugo de la bbótte!

Ma ccome ha da stà bbene, sciorinato (poverino),

Cuanno, per cristo, è bestemmio (astemio) dar vino?

Ognicuarvorta che nun va appoggiato

Casca si ll’urta un’ala d’un moschino.

             

    Ha le grandole (ghiandole) gonfie, è accatarrato,

Nun tiè mmanco ppiú un pelo in ner cudino,

Campa de melacotte e ppangrattato,

E sta ppiú ssecco che nnun è un cerino.

             

     Avess’io la patacca (patente) de dottore,

Lo metterebbe ar zugo de la bbótte,

Pe ffallo aringrassà ccome un ziggnore.

             

     Vorrebbe imbriacallo ggiorno e nnotte,

Ché dd’incaconature (ubriacatura) nun ze more:

E jje direbbe poi: “Vatte a fà fotte [1]

 


[1] Tutti i sonetti del Belli si trovano qui.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

2 Commenti

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Paolo A.

circa 10 anni fa - Link

Meglio, qui http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t208.pdf il pdf è decisamente più elegante e curato

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Sir Panzy

circa 10 anni fa - Link

Chi non beve vino ha un segreto da nascondere (cit)

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