I Lamenti de’ Bevanti e le Osterie di fuori porta, ovvero, Giulio Cesare Croce feat. Francesco Guccini

di Alice in Wonderland

“Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta:
qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione,
chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi ed è una morte un po’ peggiore”

(da “Canzone delle Osterie di Fuori Porta” – Francesco Guccini)

Confesso. Avevo conosciuto Giulio Cesare Croce forzatamente, prossima all’esame di Letteratura Italiana 2. Avevo, altrettanto forzatamente, letto la sua opera più nota, trovandolo anche divertente, però per una breve relazione. E difatti, non appena riposto il libretto in tasca, io e lui ci salutammo, con la convinzione che quel saluto non potesse essere altro che un “addio per sempre”.

Ma, come le migliori sceneggiature insegnano, non è affatto raro che ci sia un sequel, anche se di solito è la diretta conseguenza di un grande successo di botteghino. Definizione, questa, che utilizzata come metafora del nostro incontro, sembrava clamorosamente mal calzante.

Per caso, ma questa volta per mano dell’invisibile entità Destino (e non del mio professore di Letteratura ), qualche lustro più tardi, sono incappata nuovamente nel  Signor Giulio Cesare Croce (1550 – 1609), materializzato sotto forma del suo Lamento de’ Bevanti per la gran carestia del vino e delle castellate di questo anno, (dove le castellate sono,  come insegna la Treccani “Mezzo di trasporto caratteristico per l’uva pigiata, in uso nel Bolognese e nella Romagna. È una botte allungata, che occupa tutto un carro a buoi e che contiene da q. 8,5 a 9 di uva pigiata: è quindi adoperato anche come unità di misura.”)

Il GCC era un emiliano, nato a S. Giovanni in Persiceto, ed emigrato a Bologna all’età di vent’anni. A Bologna sono legati i suoi versi, così come la sua vita, essendo d’altronde, nel suo caso, gli uni imprescindibili dall’altra.

Il Lamento è un’operetta in versi che, sotto qualche aspetto, appare fortemente attuale. I protagonisti dei versi sono tre uomini avvezzi a trovare consolazione ed ispirazione fra le mura della taverna, e che si servono del vino come medium. Nomen omen: Trippa, Sponga e Bacialorcio, un destino nell’enogastronomia.

Son disperato, Trippa, fratel caro,

Poi ch’odo dire a tutti in generale

Che ‘l vin quest’anno sarà molto caro,

Onde noi, ch’usi siam, non un boccale,

Ma dieci e venti tracannarne il giorno,

Non siamo, ahimè, per farla se non male.”

 La disperazione è originata dalla scarsità di raccolto di un’annata difficile. I tre sanno che si aprirà la corsa alla speculazione e che i prezzi salteranno alle stelle, e non nascondono il loro profondo risentimento nei confronti dei contadini:

Ch’inteso ho fir, ch’elle si son pagate

Sin a quest’hora, bem quaranta lire,

E molte che di prezzo son passate.

Ed un villan, che pur dovria arrossire,

M’ha domandato d’una ben cinquanta,

Guarda un po’ tu se questa è da patire.”

Il risentimento non è causato solo dal gioco al rialzo e dalla speculazione pura, qui si fanno considerazioni tragicamente pratiche: vista la situazione difficile, potremmo dire che sono rimaste in vigore solo due modalità di pagamento: l’anticipato all’ordine oppure il contrassegno alla consegna. I tempi del “pagherò” e delle fatturazioni a 180 giorni sono finiti.

Né darla punto a credito s’attende,

Ma voglion la moneta su la mano,

Che ‘l villan col patron così s’intende.”

Sponga, dunque, informa il suo compare Trippa del nuovo difficile scenario che si prospetta per il futuro dei bevanti e, così facendo, lo coinvolge nella depressione, che in questo caso certo non è da sbornia.
E Trippa riesce ad esprimere il profondo scoramento con parole chiare e ben esplicative del suo stato d’animo:

Oh, Sponga, fratel mio, tu m’hai passato

Il core adesso (…)”

Non sarà più possibile trascorrere giornate intere alla taverna:

“Questa per noi è cosa molto amara,

Perché più non potremo far bombina,

Né traccannare i gotti a centinara,

Ch’ a la taverna andar sera e mattina

Soleamo, e starvi tutto il giorno intiero,

Gustando il buon liquor de la cantina,”

Trippa e Sponga pongono l’accento sul ruolo taumaturgico, antidolorifico, consolatorio e balsamico del vino, nonché sul suo valore sociale di mezzo contro le inibizioni. Se manca il vino, mancano fiato e loquela.

“ Che ‘l vin troppo m’allegra e mi consola

Quando ho bevuto, oh che buona loquella

Mi trovo haver, ma s’io non ho da bere,

Non posso haver né fiato né favella.”

Tracanneranno pure vino tutto il giorno, ma si preoccupano anche di quella che oggi chiameremmo la scientifica arte dell’abbinamento cibo – vino e GCC ci fa quasi la figura di wine&food blogger antesignano. Può essere molto divertente immaginare qualche possibile abbinamento, e altrettanto prendere nota dei menu preferiti dai bevanti:

“E, lassando da parte ogni pensiero,

Attendevamo a star’ allegramente,

Con qualche boccon grasso sul tagliero.”

Immaginiamoli con uno sgrassante Lambrusco, e onoriamo così il grafico didattico e l’abbinamento che contemporaneamente può fregiarsi delle qualifiche di “territoriale” e “per contrapposizione”.

“E dir a l’hoste: “Porta de’ capponi,

Porta galline, e buon vitello arrosto,

Torta, polpette, castrato e piccioni.”

Vedi, vo’ che pigliamo un cappon lesso

E un poco di vitella ben stufata,

Con qualch’altra cosetta poi appresso.

Un’alimentazione varia, si può dedurre: animali da cortile, selvaggina di vario genere, carne di vitello stufata, dessert e anche “qualch’altra cosetta appresso”. Questi sono dei veri winelover,  esperti e navigati, ecco spiegato il motivo delle grandi quantità di vino trangugiate, è semplicemente un attenersi alla buona norma dell’ “ad ogni piatto il suo vino!”

Forse in quei boccali veniva versato del sangiovese novello, forse un albana passito accompagnava il dolce, forse  tra “Quei vin saltanti, somiglianti a l’oro, Che m’allegrano i spiriti vitali” c’era un pignoletto frizzante?

Il vino è consolatorio e balsamico ma anche dotato di vocazione estremamente sociale, il valore aggiunto della condivisione non sfugge:

“Con questo tuo discorso, tu m’hai fatto

Saltar l’humor di gire a l’hosteria,

Ma sol non voglio andarvi, a nissun patto

E si affrettano all’entrata della taverna, perché  le cinque, l’ora di un boccale e una foietta, è già passata, quasi fosse finito l’orario dell’happy  hour:

Hor a far’ a la morra a due per parte,

Un boccale a le cinque, una foietta,

Che questa de’ bevanti è la ver’arte.

In somma, a la taverna mi diletta

Per le cause suddette, e perché siamo

Ad essa giunti, entriamo dentro in fretta, Che l’hora è già passata.”

La trama del racconto è tutt’altro che arzigogolata, tuttavia gli spunti offerti, molti dei quali ancora oggi attuali, fanno pensare. E, se lo svolgersi della trama appare semplice, ancora più diretta e lampante appare la morale, un ibrido illuministico – epicureo: bere è bello ed è anche giusto e sano poiché, come l’esperienza insegna , che “l’acqua ammarci i pali” è scientificamente provato.

 (Il ber mi piace, e non posso patire

Di veder l’acqua, ch’ell amarcia i pali,

Sì come per proverbio si suol dire.)

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Dedicato al mio amico Francesco [che mi perdonerà le imprecisioni ed il tono scherzoso] , studioso e conoscitore, al contrario di me, dell’Emilia (forse, dice lui) e della Romagna (molto meno, dice) vitivinicole.

 

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Alice in Wonderland

Nascere a Jesi è nascere a un bivio: fioretto o verdicchio? Sport è salute, per questo, con sacrifici e fatica, coltiva da anni le discipline dello stappo carpiato e del sollevamento magnum. Indecisa fra Borgogna e Champagne, dovesse portare una sola bottiglia sull’isola deserta azzarderebbe un blend. Nel tempo libero colleziona multe, legge sudamericani e fa volontariato in una comunità di recupero per astemi-vegani. Infrange quotidianamente l’articolo del codice penale sulla modica quantità: di carbonara.

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