Ho preso il treno e ho scoperto Sciatò Muloeta, il vino irripetibile di Antonello e Paolo Rovellotti

Ho preso il treno e ho scoperto Sciatò Muloeta, il vino irripetibile di Antonello e Paolo Rovellotti

di Pietro Stara

Per me Vinitaly finisce di martedì. Verso sera, dopo l’ultimo giro tra lambruschi rifermentati e vini delle sabbie che preannunciano la gioia primaverile, prendo l’autobus in direzione stazione di Verona – stadio. Vado a ritirare il mio bagaglio nel deposito, che se scatta il minuto mi tocca pagare un euro in più e mi dirigo al McDonald’s, perché ho letto da qualche parte che nutre il pianeta: prendo un Chickenburger con patatine fritte e un bicchierone vuoto su cui vi è stampato il nome della Coca-Cola. Che pure lei disseta il pianeta. Apro la mia valigia, tiro fuori la bottiglia di Cheval Blanc del 1961 e me ne verso alcuni calici nel bicchiere di carta inspessita. Evito la cannuccia.

Poi salgo al binario 6 nella speranza di trovare un posto a sedere: mi sono dimenticato di comunicare alla redazione di Intravino che avrei ben visto, nell’appello pubblicato su Change, di inserire anche la richiesta di panchine lungo i vialoni della fiera. Volto lo sguardo a sinistra e colgo un angolo libero, vicino ad un ragazzo. Mi seggo, dopo aver controllato che non vi fossero avanzi di pollo fritto spantanati sul sedile, aspettando il velocipede diretto a Milano. In vista del cambio per Genova in dieci minuti, che sono diventati, ritardino più ritardino meno, 45 secondi di corsa (binario 3 versus binario 21), fatti di corsa e tallonato da un Alessandro Dettori in splendida forma atletica.

Vicino al ragazzo, che poi scoprirò essere suo figlio, un signore distinto piegato a comunicare con il cellulare: mi sembra di conoscerlo. Alza lo sguardo, occhiali quadrati in stile nerd come i miei, e guarda un po’ chi vedo? Monsieur Antonello Rovellotti, del contado di Ghemme, in persona. Scambiamo due chiacchiere: mi rammenta che lui fa il contadino (deve andare a legare), per cui viene a Verona soltanto per un giorno e non ha molto tempo per commerciare. Poi mi racconta questa storia.

«Io e mio fratello Paolo, pur essendo strenui cultori dei nostri vitigni autoctoni (l’Alto Piemonte, avesse solo erbaluce e nebbiolo sarebbe già al top del mondo, in più ha la vespolina), abbiamo sempre avuto grande rispetto dei prodotti e dei vitigni dei nostri fratelli francesi. Al punto che per nostra curiosità, e non per fini commerciali, piantammo una vigna sperimentale di chardonnay e una di pinot nero per produrre uno champenoise, e del merlot e del cabernet per fare un taglio bordolese italiano. La realtà fu che i primi due maturavano troppo presto rispetto ai vitigni locali e, per avere una acidità decente per un metodo tradizionale, avremmo dovuto vendemmiarli in agosto. Eravamo un bel po’ più giovani di oggi e cominciare una vendemmia quando si poteva resistere ancora qualche giorno con la pancia al sole… finì sempre che raccoglievamo con la nostra vendemmia e questi vitigni facevano 15 di alcol e 5 di acidità. Inadatti quindi a produrre un metodo tradizionale. Per un po’ facemmo “sparire” questa produzione e mettemmo cabernet sauvignon e merlot nel vino da tavola, dopo averli testati e assaggiati nel tempo, per capire la potenzialità. Nel 2004 morì nostro padre Guido, che tanta parte aveva avuto nella realizzazione del nostro sogno di riassemblare vigne e cantine del Ricetto, e pensammo di dedicargli un vino. “Sciatò” come lo scriverebbero a Ghemme e Muloeta come il soprannome della nostra famiglia (non cercate di leggerlo perché il dittongo ha un suono non italiano, simile al francese bœuf). Come i soprannomi sono cose che scompariranno, anche questo vino è scomparso; quando ci accorgemmo che i vitigni non indigeni erano più facilmente soggetti alla flavescenza dorata, estirpammo immediatamente tutte le vigne, rendendo irripetibile il tributo famigliare del 2004 e del 2005. Le quantità prodotte sono state 600 bottiglie circa del ’04 e 900 circa del ’05. All’inizio ci sembrava potente ma un po’ volgare (siamo nebbiolisti) ma poi, nel tempo, abbiamo cominciato ad apprezzarne l’evoluzione e adesso ne abbiamo una piccola riserva in cantina che chiaramente non vendiamo ma assaggiamo e facciamo assaggiare a chi ci pare, come curiosità. Percentualmente è cabernet sauvignon, pinot noir e merlot in proporzioni simili, forse un po’ più di merlot. A colmare le barrique, periodicamente, è sempre stata aggiunta vespolina, che doveva rappresentare la speziatura del syrah che non avevamo nella vigna. Più di tre anni in barrique non nuove, blend da vino, perché le uve maturano troppo distanti e quindi fermentavano in monovitigno».

Dopo qualche giorno mi viene consegnato lo Sciatò Muloeta del 2005. È sempre un grande piacere ed un grande onore quando qualcuno ti mette a disposizione un pezzo della propria storia.

Tappo a posto, arieggio e lo verso in un bel calice. Compatto, fitto, quasi impenetrabile. Vivo e vegeto: un bamboccione di soli 10 anni. Uno in meno di mio figlio, quello grande. Ci ficco dentro il naso e, bam! ecco che entra nelle narici come un urlo puntuto. Sono quei parti lenti: dopo una fase iniziale del travaglio, in cui il vino si contrae per diverso tempo, l’espulsione è sempre un atto traumatico. Il vino, che viene ad una luce diversa, non conosce ancora il mondo: strizza gli occhi e piange forte. Poi se ne sta lì, si allarga e si slarga, prende forma e aria, ma quanta aria! Lo assaggio. Come al naso: urla in bocca. Dritto verso il velopendulo, il vino non si è ancora liberato: né della bottiglia né del contenitori in legno che lo hanno ospitato per lunghi anni. Sembra che abbia più alcol di quanto ne abbia sviluppato in gestazione: 13,5. D’altronde l’urlo spinge subito dritto e in alto. Lo lascio lì. Per un’ora. Sgomita un po’: al naso è già diverso. Lo lascio lì di nuovo. Non lo tocco sino al giorno seguente. Il vino si è adattato all’ambiente circostante: non dico che parli genovese, ma ci siamo quasi. Non ha perso in potenza, densità, tannini di ampia nobiltà: aggiunge ad essi evoluzioni, larghezze e perduranze. Ribes nero, amarena, prugne, ciliegie, rabarbaro, humus terroso viaggiano nel sottofondo ancestrale del vino, spazzolate qua e là da foglie verdi di pomodoro e note balsamiche di pino. Il palato dapprima si contrae e si asciuga per poi ripartire impetuoso e ridondante. Il pinot nero sbuca di fianco, mai direttamente. E come potrebbe con due cuginastri bordolesi di tale impatto? La vespolina rabbocca e rimbocca il pepe nero del pinot. I frutti lasciano poi, lentamente, il posto ai sentori evoluti.

Un bel pezzo di una piccola storia.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

6 Commenti

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Hierro

circa 9 anni fa - Link

Dovremmo girare a Nossiter le ultime righe. Racconto interessante, ma e' necessario svolazzare cosi' in alto? Saluti

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Nelle Nuvole

circa 9 anni fa - Link

Un bel pezzo di una piccola storia raccontata alla grande. Ah, questi incontri sui treni!

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Amadio

circa 9 anni fa - Link

Cheval Blanc del '61 bevuto solo soletto da McDonald's...mi sa che ultimamente hai rivisto Sideways, dico bene?

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Pietro Stara

circa 9 anni fa - Link

Esatto! .....ma non ultimamente.

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camillo favaro

circa 9 anni fa - Link

Tutto bene, tranne qualche sfumatura. Cito: “mi rammenta che lui fa il contadino (deve andare a legare), per cui viene a Verona soltanto per un giorno e non ha molto tempo per commerciare”. Perché noi che andiamo al Vinitaly “a commerciare” non leghiamo le viti? Non mi risulta di avere qualcuno che lo fa al posto mio e della mia famiglia. Ma oltre a legare le viti, potare, fare i trattamenti (ebbene si), pensare alla vendemmia, farla, vinificare e via discorrendo … il vino dobbiamo anche venderlo. Capisco che possa essere volgare questa cosa di “vendere”, ma certi atteggiamenti puzzano di snob (pardon, profumano). E adesso scusatemi, vado a piantare una vigna di chenin blanc, ma solo per pura curiosità personale.

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Pietro Stara

circa 9 anni fa - Link

Buon giorno Camillo, ho riportato una frase di Antonello Rovellotti, senza approfondire la questione, che non era centrale per l'articolo. Lui e suo fratello commerciano, eccome!, e poi fanno tutto il resto: credo che lo facciano il più possibile in sede, da loro, cercando di conciliare capra e cavoli. Come molti di voi. Non penso che vi fosse alcun intento snobistico, se non quello di ribadire la difficoltà ad allontanarsi dalle vigne nei momenti cruciali delle lavorazioni. Suo figlio, studente in lingue, li supporta con i clienti stranieri, nelle visite guidate al Ricetto di Ghemme e così via: era a Verona anche per quello (anche se dava l'idea di voler essere dovunque tranne che lì). Neanche per curiosità.

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