Gaspare Buscemi e il Movimento dei Non Allineati. Una nota propositiva

di Emanuele Giannone

Quando guardo alle molte insegne amiche sotto le quali si riuniscono i vitivinicoltori naturali e, per una volta di più, mi sforzo di cogliere i discrimini che non siano semplici questioni personali, il pensiero corre molto indietro. Corre ai tempi del grembiule e del programma di Storia alla scuola elementare: il Movimento dei Paesi Non Allineati. Ricordate? Un paragrafo di poche righe dimenticato nel sussidiario. Eppure esiste ancora – lo sapevate? – questo consesso che nacque con ottime ragioni – la terzietà, l’esser fuori dai blocchi, la rivendicazione di indipendenza e libertà – e che in quelle ottime ragioni originali esaurì il suo slancio ideale. I paesi membri del Movimento tengono tuttora dei vertici e ammettono osservatori. Ci si vede, ci si conta, c’è chi ci sta per abitudine ma ha testa, cuore e finanze in tutt’altra sede, si ha finanche l’impressione che qualche membro ci stia solo per non aver trovato ancora un posto più comodo dove eleggere domicilio. Talvolta, nel tentativo di ravvivare l’atmosfera, qualche reprobo viene cacciato.
Ecco, leggo le sigle e penso a quel movimento, soprattutto perché anche a quello dei vini naturali va mancando lo slancio che scongiuri, se mi è concesso, il rischio di sussidiarietà. Le similitudini sono notevoli: dalle ottime ragioni originali, agli equivalenti di un Tito, un Nehru, un Sukarno e un Nasser. Ricorre l’impressione che molti dei membri non condividano in realtà obiettivi ma semplicemente luoghi: là i palazzi dei congressi, qua spazi meno sacramentali, quelli fieristici, le sale convegni, un blog. Ricorrono i summit periodici con i seniores, gli juniores e gli osservatori. Ci si vede, ci si conta, si scruta il nuovo arrivato mentre dietro i banchi, a mezz’aria, si va condensando il pensiero dominante: cui prodest? Poi si parla di quello che ha trovato un posto più comodo ed è andato via. Resta, com’è ovvio e giusto, l’obiettivo comune di vendere il vino. Ma anche su questo non ci si intende e spesso, piuttosto, ci si ostacola.
In breve, lo slancio unitario e ideale andrebbe recuperato ora che, piaccia o meno, il movimento dei vini naturali non è più statu nascenti e tende per molti aspetti all’istituzione. O sotto tale specie viene di fatto considerato da chi lo osserva o frequenta. Lo slancio andrebbe recuperato ora perché, se non si desta dal sogno idilliaco, l’arcadia naturale è un luogo a rischio di autoreferenzialità, dispersione, plagio e cannibalizzazione.

Per questo resto perplesso pensando ai viticoltori non allineati impegnati a trovare nuovi terreni di contesa anziché di incontro; o all’atteggiamento di chi ha fatto strada e si è dileguato. Soprattutto, resto perplesso per quanti non leggono gli sviluppi in corso e si lasciano vivere dal cambiamento, per chi si è rassegnato all’invasione degli ultracorpi con il bollino verde. C’è infine, la perplessità storica sulla mancanza di massa critica e voce – una, corale e potente, ché ora non bastano più custodi e agiografi, aedi e rapsodi.

Per questo credo che ogni tentativo di far chiarezza sia meritevole almeno di una lettura critica. Quello che segue è un tentativo autorevole, porta il nome di Gaspare Buscemi. È stato inviato a molti e letto, almeno finora, da pochi, forse perché invoca concetti semplici più che sensazionali e ne difende l’originalità. Forse perché Buscemi si è stancato di fare il non allineato. La proposta parte dalle considerazioni sul famigerato regolamento UE 203/12 e sulla confusione che esso può ingenerare tra naturalità e serialità, privando i fautori della prima del titolo che qualifica loro e i loro vini. Da questo, arriva a proporre un concetto
Dopo questa, mi auguro di leggere nei prossimi mesi molte proposte analoghe. Suggerisco la traccia: united we stand, divided we fall.

GASPARE BUSCEMI – NOTA PROPOSITIVA

La recente regolamentazione comunitaria che riconosce il “vino biologico” – prima di questa soltanto la viticoltura poteva qualificarsi “biologica” mentre il vino poteva solo definirsi “vino ottenuto da uve provenienti da viticoltura biologica” – è oggetto di critiche forti e giustificate.
I limiti di impiego dell’anidride solforosa – solo di poco inferiori a quelli previsti dalla normativa che riguarda i vini convenzionali – e l’utilizzo della maggior parte delle pratiche e dei prodotti enologici in questa consentiti, di fatto rendono il vino biologico un prodotto non più distinguibile da quelli convenzionali.
Di conseguenza risulta compromessa l’immagine di naturalità e sanità alimentare fin qui riconosciuta alle uve prodotte con viticoltura biologica e, di riflesso, anche al vino da queste ottenuto.
Risulta però compromessa anche l’immagine di territorialità propria dei vini prodotti dal piccolo viticoltore nel rispetto di tradizioni, contadine e artigiane, esistenti ben prima dell’era tecnologica e industriale e, pertanto, tradizioni indubbiamente di naturalità e di territorio oggi vive proprio nei vini correttamente più naturali.
Infatti, per quanto elevato sia lo standard qualitativo raggiungibile, un vino costruito attraverso tecnologie inevitabilmente caratterizzanti e da tutti ripetibili in ogni luogo, in quanto create per l’industria, non può certo esprimere l’unicità della natura e della cultura contadina e artigiana.
Per detta normativa, evidentemente prodotta in funzione di grandi produzioni industriali, l’immagine di “biologico” è destinata ad essere sempre più utilizzata sul mercato dei grandi consumi e dei minori prezzi e, in conseguenza, a perdere valore di mercato a scapito proprio dello stesso viticoltore che, tra mille difficoltà e diffidenze, l’ha prodotta e l’ha resa credibile.
Ma le leggi sono sempre fatte dai più forti per i propri interessi, non certo nell’interesse di chi è più debole e non ha forza contrattuale.
Così sono fatte per i grandi numeri, con il supporto di indirizzi di istruzione e di ricerca sempre più condizionati da tali numeri, perfino annullando, per convenienza, ignoranza o scarsa lungimiranza, quell’immagine di cultura sulla quale potrebbe – anzi dovrebbe – costruirsi la qualificazione di mercato necessaria a garantire il futuro, oggi purtroppo estremamente incerto, alla nostra difficile viticoltura ed al vino italiano tutto, anche a quello di maggior consumo.
E non è proprio un caso se con questa normativa – prodotta anche per aumentare i sistemi di controllo e di tracciabilità che possono giustificarsi per le produzioni industriali ma non per quelle contadine e artigianali, perché in queste l’operatore è sempre presente, chiaramente individuabile e totalmente responsabile, essendo anche il produttore della materia prima – è iniziata un’azione di controllo e di repressione a carico dei vini che si dichiarano “naturali”, non esistendo nelle leggi la possibilità di distinguere la qualità di chi vuole poter essere migliore, anche oltre il “biologico”.
Questi vini sono infatti dichiarati “naturali” perché derivano da una viticoltura tesa ad allevare la vite in armonia con l’ambiente naturale, nel rispetto della natura stessa e della salute del consumatore, secondo regole più restrittive di quelle previste dalla coltivazione biologica; inoltre sono ottenuti, in cantina, con una enologia naturale, come un tempo, senza impiego di tecnologie industriali né di prodotti estranei al patrimonio qualitativo delle uve, senza utilizzo di stabilizzanti e con ridotte, o nulle, quantità di anidride solforosa.
Nonostante un impegno così elevato, la contestazione è possibile perché la regolamentazione della produzione e del commercio dei vini non prevede alcuna possibilità che un vino possa qualificarsi “naturale” ma, come già detto, la legge è sempre fatta nell’interesse dei più forti !
La colpa è però anche degli stessi piccoli produttori, troppo assenti o troppo deboli al momento di prendere decisioni, salvo poi la critica quando queste sono prese da altri che, oltre ad interessi diversi, solitamente hanno conoscenza scarsa o nulla del lavoro contadino e artigiano.
Per tali ragioni, chi produce con impegno, giocandosi il proprio nome oltre che il proprio patrimonio, se non vuole trovarsi appiattito nell’anonimato delle grandi produzioni ed essere poi strozzato dal mercato globale, deve pretendere che i suoi prodotti siano riconosciuti e distinti, anche istituzionalmente, per l’espressione di cultura e di qualità, oltre ogni standard, che rappresentano; ma deve altresì pretendere il riconoscimento del proprio impegno di operatore presente e responsabile per il quale burocrazia e controlli non possono essere quelli concepiti per le grandi produzioni industriali frutto di protocolli tecnici, di automazione e di lavoro demandato.
Ma simili obbiettivi possono essere perseguiti solo da una grande forza, una forza sufficiente a rivendicarli, proporli e concretarli, una forza che può essere espressa solo da un grande numero.
A questi fini, ormai da molti anni, io propongo l’artigianato, che è la cultura che l’uomo esprime in trasformazione – quindi in cantina – con un lavoro rispettoso della natura, per una qualità nella quale potersi esprimere e identificare, perché l’artigianato, oltre che rispetto della natura, è la massima espressione del lavoro; è la naturale distinzione dall’industria, dallo standard, dall’anonimo; è una distinzione che dovrebbe essere comune a tutti i produttori di “vini naturali”, una distinzione che non fa perdere le prerogative per le quali questi vini sono biologici, biodinamici o semplicemente “naturali”, certificati o no.
Sull’artigianato potrebbe infatti realizzarsi una grande e forte organizzazione nazionale – magari aperta anche ad altri prodotti dell’artigianato agroalimentare naturale – finalizzata al riconoscimento, alla tutela, alla promozione ed alla valorizzazione delle produzioni artigianali quali espressione di cultura territoriale e quali strumenti di miglioramento dell’immagine di mercato, a vantaggio anche delle produzioni industriali in un rapporto di complementarietà utile ad entrambi, come avviene in altri importanti settori quali la moda, la calzoleria, il mobile, il gelato…
Qui, infatti, le grandi produzioni industriali sono motivate e qualificate proprio dall’immagine, di alta qualità e cultura, creata dalle produzioni artigianali e queste, a loro volta, godono delle aperture di mercato prodotte dalle produzioni maggiori, più competitive.
Proprio questa sinergia, che realizza la migliore politica di mercato, purtroppo, non si verifica nel settore enologico italiano che risulta invece fragile per la conflittualità, che ci è congeniale, favorita ed accentuata proprio dalla mancata distinzione tra artigianato e industria.
Non dimentichiamo che, proprio grazie ad una politica capace di riconoscere e qualificare il “terroir” attraverso il “vigneron” e i suoi vini, evidentemente artigiani, la Francia è da sempre grande leader di mercato; mentre noi, per una politica che non considera la figura basilare del viticoltore e la cultura contadina e artigiana che rappresenta, ci troviamo a competere sul mercato ormai globale, con le produzioni industriali di ogni paese nuovo produttore, ma in condizioni di grave inferiorità visti i costi e le difficoltà della nostra viticoltura il cui futuro risulta così, proprio per questo, sempre più incerto.

Gaspare Buscemi
Cormons, dicembre 2012

[Foto: Daily Jfk, Gaspare Buscemi]

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

17 Commenti

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Andrea Petrini

circa 11 anni fa - Link

Un grande uomo che forse ha ricevuto meno di quello che ha dato

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naturalmente

circa 11 anni fa - Link

Non è il solo , aggiungerei un altro piccolo grande vignaiolo che lavora molto vicino a Gaspare , ed è Maurizio Princic dell'azienda Ronco di Zegla...".naturalmente" bravo....

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she-wolf international again

circa 11 anni fa - Link

Ich Bin Ein Kontadiner

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armin

circa 11 anni fa - Link

bravissima! ma chissà quanti (o meglio, pochi) conoscono o si ricordano l'originale? :-(

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Stefano

circa 11 anni fa - Link

Però la dicotomia artigianale=buono industriale=cattivo, mi ha un po' stancato. Ci sono prodotti industriali buoni, ottimi ed altri cattivi, così come quelli artigianali. Se invece si uscisse dal ghetto? Se i viticoltori "naturali" si confrontassero a viso aperto con gli altri? Se decidessero, per esempio, di andare al Vinitaly? Non in un altro ghetto dentro Vinitaly ma a fianco degli Antinori, dei Feudi, dei Firriato? E poi c'è la proposta di Farinetti: un unico marchio finalmente riconoscibile semplice e spendibile in Italia e all'estero. Ma lo sappiamo che questo è il paese dei municipi, dei campanilismi, dei settarismi.... come diceva il mio vecchio preside: "La società è bella dispari ma tre sono troppi".

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Caffellatte

circa 11 anni fa - Link

Credo che quello che dici tu, Stefano, sia lungi dal venire, per alcuni motivi, legati tra loro. Non si puo' negare che i vini naturali di oggi abbiano caratteristiche organolettiche, e quindi alla vista, all'olfatto e al gusto, diverse da quelli prodotti su vastissima scala in modo standardizzato e collaudato. Quindi, si dovrebbe prima "rieducare" il palato dei consumatori ad un vino diverso a quello cui siamo abituati. Per esempio, ho bevuto proprio tre sere fa la nosiola di Foradori, a cena da mio padre, e lui mi hadetto che era spuntato. Inoltre, l'unita di intenti e di etichetta che invochi sarebbe giustamente finalizzata al prodotto made in italy, ma non sarebbe funzionale ad una necessaria meritocrazia all'interno della comunita dei produttori. La strada proposta da Buscemi secondo me e' molto intelligente: se vogliamo valorizzare un prodotto, lo dobbiamo tirar fuori dal gruppo e metterlo sotto un'altra luce. Quella dell'artigianato e' perfettamente coerente con il prodotto vino naturale

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Stefano

circa 11 anni fa - Link

Ma perché dovrei "rieducare" il mio palato? Per apprezzare un prodotto difettoso? Se si continua su questa china la "battaglia" dei vini naturali è persa: i vini naturali non devono avere difetti al pari di quelli industriali. E questo non significa che non debbano avere una spiccata territorialità e/o riconoscibilità. Però se un vino "spunta" non c'è nessun palato da rieducare. Comunque ho bevuto tempo fa il Manzoni della Foradori e non spuntava per niente. Tornando al discorso dell'artigianato, forse sarebbe possibile ricondurre una certa viticoltura all'artigianato ed un'altra all'industria, ma si dovrebbe prima di tutto smetterla di vedere nemici dappertutto.

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Emanuele

circa 11 anni fa - Link

Mi permetto di osservare: la questione non verte tanto sulla bontà vera o presunta, quanto sulla pregnanza del termine. Artigianale corrisponde non già a "necessariamente buono", bensì a tecniche, dimensioni e processi produttivi chiaramente diversi da quelli industriali. Tra i problemi e i rischi che Buscemi paventa, spicca quello della confusione, dell'appropriazione dell'aura di artigianalità e naturalità - gli anglofoni parlerebbero di claims, imagery etc. - da parte dell'industria. Il regolamento sul vino biologico rende tale rischio maggiore.

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Nic Marsél

circa 11 anni fa - Link

Scusate il pragmatismo. Per quanto ho capito la legge divide le imprese in agricole, artigianali e industriali con diverse normative. Sempre per quanto ho capito, oggi i vignaioli fanno parte della prima categoria (indipendentemente dal numero di ettari lavorati e dal numero di ettolitri prodotti) anche se trasformano la materia prima prodotta (uva) in vino e lo imbottigliano. Non capisco la proposta : forse si tratta di far sì che la legge riconosca come artigiano quel contadino che si occupa del lavoro trasformazione in cantina?

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Paolo Cianferoni

circa 11 anni fa - Link

Se penso alle persone che sono arrivate ora alla "coscienza eco" e che lo possono fare perchè qualcuno si è davvero fatto un culo per anni... Se penso a tutte le critiche di ogni genere e da ogni parte che sono state rivolte ai promotori del bio (o come diavolo si dice)... che però hanno creato una discreta realtà, sia come realtà produttiva sia come presa di coscienza dei consumatori... Se penso che questi ultimi arrivati invece di partecipare a migliorare e corregere gli eventuali errori, scelgono di sfruttare tutto e tutti traendo vantaggi di mercato e sputano dall'altezza del loro ideale di marketting... Sapete che vi dico? Bisogna smettere di parlare di vino bio, di naturale, vero, libero o tutto il resto. Non vale più la pena. L'importante è "fare" per l'ambiente senza sbandierare più nulla. Ecco alcune considerazioni di un "vecchio" Bio-produttore: http://www.officinaenoica.org/2012/06/29/le-nuove-regole-della-vinificazione-bio-e-la-maggioranza-silenziosa/

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manilo

circa 11 anni fa - Link

Ci sono vignaioli che fanno forse un biologico, ma non ne vogliono sapere di entrare in questa guerra fra le varie fazioni, posso garantire che fà un ottimo Brunello ed addirittura non ha una temperatura controllata in cantina.

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Emanuele

circa 11 anni fa - Link

Non ho capito di chi parli, Manilo: fìmmina o màsculo?

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Vittorio Merlo

circa 11 anni fa - Link

Il problema sapete quale è? Il fatto che fin da subito i produttori che si riconoscono naturali hanno dichiarato guerra, in modo ideologico, ai produttori che loro chiamano industriali. In pochi hanno detto faccio così perchè mi piace. No, faccio naturale perchè bisogna combattere il cattivo industriale.

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Emanuele

circa 11 anni fa - Link

Vittorio, questa generalizzazione non rende a molti produttori di vino naturale il rispetto che gli si dovrebbe. Ne ho incontrato uno tra i tanti la settimana scorsa a Montalcino. Il suo parere è che senza i grandi, o industriali, non esisterebbero i moderni "vina generosa" (Copyright Pliny the Elder) e la stessa notorietà che porta vantaggio anche agli artigiani. Le posizioni sono molto più varie e sfumate di quanto Lei sostiene.

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Gaspare Buscemi

circa 11 anni fa - Link

Visti i commenti fin qui seguiti alla mia nota, correttamente introdotta da Emanuele Giannone e motivata dai problemi relativi ai “vini naturali”, problemi che sono emersi a seguito dell’entrata in vigore del regolamento UE che disciplina la produzione e il commercio del vino biologico, mi sembra opportuno chiarire alcuni concetti che forse non ho espresso con sufficiente chiarezza ma sui quali ritengo importante il confronto. • A mio avviso è indispensabile recuperare credibilità e qualificazione per migliorare la forza e la stabilità di mercato, ma anche la tutela della salute e dell’ambiente, obbiettivi che si raggiungono con le sinergie, non certo con la conflittualità di interessi o di opinioni personali o di parte che, per quanto motivati, sono destinati ad annullarsi reciprocamente. • Per questo, non dovrebbe esistere conflittualità tra l’agricoltura contadina e l’agricoltura imprenditoriale, tra naturale e convenzionale, perché hanno modalità di conduzione e obbiettivi diversi. Infatti la prima segue logiche tradizionalmente territoriali e naturali, quali gli avvicendamenti, le consociazioni, le rotazioni, la resistenza alle avversità …al fine di un mercato limitato ma possibilmente di alta qualificazione, mentre la seconda interviene tecnologicamente per adattare gli ambienti e creare le condizioni utili a consentire una coltivazione di alta specializzazione e produttività per poter sostenere il confronto, anche sul piano del prezzo, nel grande mercato. • Lo stesso vale per l’artigianato e l’industria. • Per evitare la conflittualità non è però possibile prescindere dal coinvolgimento di tutte le parti interessate, condizione praticamente impossibile quando la vita è progettata e regolamentata indipendentemente dalle voci, contadina e artigiana, fondamentali e complementari nel vino, ma praticamente assenti nonostante l’importanza che rivestono. • Nell’artigianato, inteso come attenzione dell’uomo al buon svolgimento dei processi naturali di una trasformazione che, già molto prima di oggi, quindi naturalmente, ha prodotto i vini più prestigiosi consentendo alle uve di esprimere il loro massimo potenziale qualitativo e territoriale, diventa possibile l’incontro di quanti producono vino secondo questa filosofia, ancor più significativa proprio quando nella vigna la natura è maggiormente rispettata. • Nell’artigianalità, che completa la professionalità del viticoltore e qualifica il suo vino, questo incontro può diventare molto grande ed avere così la forza necessaria alla reale ed efficace difesa dell’ambiente e della cultura che, sempre più, sono i maggiori valori di mercato di ogni produzione, oltre che gli interessi di vita di quanti sono impegnati per questi valori. • Senza una forza di partecipazione e di opposizione, è normale che nascano certe leggi, che il clima sia cambiato ed il territorio più fragile, che, nonostante i tanti pareri scientifici contrari, ed i provati danni irreversibili all’ambiente e alla salute, gli OGM si diffondano per renderci - oltre al danno le beffe! - anche acquirenti forzati di ogni seme così prodotto,……ed è ancora normale che la democrazia, tanto spesso invocata e rivendicata, esista solo nei discorsi di quanti si sono inventati, o si sono ritrovati, leader.

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francesco vettori

circa 11 anni fa - Link

Non so, mi pare di non capire la questione. Quindi prendete il mio intervento con cautela. Se si tratta di acquisire un riconoscimento politico normativo, e per di più a livello comunitario, ad un determinato tipo di vino, quello definito "biologico", purtroppo la strada la vedo molto in salita. Gli interlocutori legislatori sono storicamente dei burocrati, fino a prova contraria. Se si tratta invece di acquisire un riconoscimento prima sociale, e indirettamente politico, cioè di rivolgersi al pubblico di bevitiori di vino "biologico", la questione cambia e le strade percorribili mi sembrano diverse: in Germania per esempio le varie associazioni di vignaioli, che stabiliscono i criteri di produzione dei vini delle diverse zone, mi sembrano funzionare. Per quelle associazioni, che il vino sia "biologico", è dato per scontato, nel senso che sono altri i criteri distintivi di produzione. E per il "pubblico", mi par di capire, conta che il singolo produttore sia parte di una data associazione, che è garante di qualità. Circa il concetto di artigianalità, d'accordo. Però, allora, non si dovrebbe davvero porre il problema della mancata riconoscibilità, presso il pubblico, di un vino artigianale. C'è tanta differenza fra produzione artigianale e produzione industriale per cui le caratteristiche effettive del vino nato artigianalmente non sono confondibili con quelle del vino industriale. Tipo libreria fatta a mano e libreria ikea. E del resto, brutalmente: se la quantità di solforosa, per dire il primo, è criterio che non tiene, se ne propongano altri alternativi. Il primo che mi viene in mente è il numero di bottiglie producibile, come le opere che un artigiano, se non un artista, può produrre e non riprodurre in copia. Però c'è anche la pop art. Un vino da 140.000 bottiglie potrà mai essere artigianale? Sarei molto interessato a capire quali sono i procedimenti artigianali che il signor Buscemi giudica indispensabili in vigna e in cantina. Grazie

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gaspare buscemi

circa 11 anni fa - Link

La riconoscibilità mi sembra indispensabile per poter essere conosciuti, non solo ai fini del mercato, che comunque determina la vita delle produzioni , anche di vino, ma particolarmente per poter contare nel sistema sociale che decide il futuro, nostro e dell’ambiente che vogliamo salvaguardare. Per quanto concerne l’artigianato, non è corretto riferirlo all’agricoltura, e quindi alla viticoltura, cui spetta per definizione la produzione di prodotti pronti al consumo o da trasformare, operazione quest’ultima non più agricola ma, sempre per definizione, artigianale o industriale. Per questo, il viticoltore che trasforma le sue uve, anche se considerato operatore agricolo, in realtà, è artigiano, o eventualmente industriale, per modalità più che per quantità, quando è in cantina. Diversamente da quella industriale, che segue protocolli standard e si avvale della tecnologia particolarmente per correggere valori che la viticoltura non è stata in grado di assicurare al meglio o che la lavorazione ha perduto in tutto o in parte, o per completare processi il cui non completamento sarebbe causa di instabilità o di diversificazione tipologica ….la trasformazione artigianale, che si avvale della presenza dell’uomo, responsabile e direttamente interessato al risultato qualitativo, ed ha l’obiettivo di realizzare le espressioni territoriali, non modifica la composizione dei mosti, o quanto meno tende a non farlo, e fornisce le condizioni perché i naturali processi, da sempre responsabili della trasformazione, possano compiersi completamente. Oltre che dalla qualità delle uve, la qualità del vino dipende così proprio dalla qualità del lavoro, un lavoro attento a non perdere, ancor prima che a trasformare, il potenziale qualitativo contenuto nelle uve. Per me questo è il principio, poi naturalmente ognuno lo applica secondo la propria sensibilità ed i propri obbiettivi.

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