Breve storia del distillato di vino dagli egizi ai giorni nostri

Breve storia del distillato di vino dagli egizi ai giorni nostri

di Thomas Pennazzi

In principio era il vino.
Poi, attraverso le pratiche metallurgiche, riservate ai sacerdoti ed agli iniziati, non sappiamo bene da dove – Cina, India, Persia? – arrivò anche l’alambicco. Senz’altro conosciuto da Persiani, Egizi, Ebrei e dai Greci, è in epoca alessandrina che compaiono le prime tracce scritte a noi pervenute di questo strumento.

Una sacerdotessa alchimista di quel tempo dal nome di Maria l’Ebrea (ancora oggi ogni casalinga usa il suo bagnomaria), viene citata da autori posteriori come la prima costruttrice di alambicchi di rame e non più di argilla e come fabbricante di “acque divine” (che vanno intese probabilmente come sostanze chimiche). Se tra queste si comprendesse l’acquavite, non possiamo affermarlo, ma nemmeno si può escluderlo.

Questa conoscenza sacerdotale, passata da Alessandria d’Egitto per mano araba alle Corti dell’Andalusia medievale, si trasforma nei secoli da scienza occulta a medicina pratica. Vediamo quindi fiorire la disciplina  alchemica in tutte le scuole medico-filosofiche medievali. Non abbiamo notizie sicure, ma pare che l’aqua ardens, cioè l’alcool impuro, fosse già noto alla scuola Salernitana per uso medicinale (esterno) verso il IX-X secolo d.C.

In epoca basso-medievale le fonti invece si fanno certe, e vediamo la distillazione fiorire ed assurgere a principale pratica alchemica; gli apparecchi si perfezionano, le conoscenze si espandono in tutta Europa, i grandi Maestri nelle prime scuole universitarie di medicina praticano l’alchimia trasmettendola ad allievi meritevoli, mentre nel silenzio dei monasteri abati e dotti fratacchioni esplorano gli anfratti della natura alla ricerca delle quintessenze, e forse anche delle prime sbronze ad alto grado.

L’uso esterno dell’alcool di vino, chiamato indifferentemente aqua mirabilis, aqua ardens, aqua vitæ, era ormai ben consolidato in medicina e dal XIII secolo il popolo se ne riforniva presso i conventi e le prime farmacie per sanare piaghe, contrastare cancrene, perfino diluito come collirio, in breve un disinfettante.

Le classi elevate nel XIV secolo tenevano l’acquavite in grande considerazione, come trattamento per conservare la giovinezza e la salute. Si narra che lo spietato Carlo il Malvagio, re di Navarra, morisse nel 1389 per causa singolare: dormiva avvolto in un lenzuolo intriso di spirito, ma un servitore, entrando in camera di notte con un candeliere, incendiò per disgrazia il letto in cui il re trovò un’orribile morte.

Chi sia stato ad introdurre il consumo del distillato di vino (è innegabile che l’acquavite sia la primogenita, e la grappa la sorellastra), non ci è dato sapere. È certo invece che gli alchimisti religiosi e profani ben sapevano del potenziale d’abuso dell’alcool e tendevano il più possibile a nasconderne al volgo il metodo di fabbricazione. Ma il segreto non durò a lungo.

La prima notizia scritta dell’uso dell’acquavite come bevanda ci viene dal frate medico poi cardinale Vital du Four (1260-1327) in un suo manoscritto del 1310, custodito nella Biblioteca Vaticana. Già priore dell’abbazia di Elusa (Eauze), capitale dell’odierno Bas-Armagnac, il medico scriveva nel suo “Pro conservanda sanitate liber utilissimus” delle quaranta virtù possedute dal distillato di vino e nessuno può dubitare che al tempo l’aygordent, come veniva chiamata in lingua occitana, non venisse già bevuta diffusamente.

Ma cosa bevevano i nostri avi? Il paleo-armagnac descritto dal cardinale non era certo come quello attuale: gli alambicchi erano ancora primitivi e poco efficaci nel separare il distillato nobile dalle sue flemme; il risultato era assai poco potabile, se non quando edulcorato e aromatizzato per mezzo dell’arte farmaceutica. L’invecchiamento pare non fosse in uso, mentre la botte era un semplice contenitore temporaneo.

Il popolino si accontentava perciò di una grama ebbrezza a basso costo: nel XV secolo l’usanza si era diffusa in tutta la Francia ed uno dei comuni mestieri ambulanti era il venditore di acquavite, che girava con un serbatoio sulle spalle e qualche bicchiere a disposizione del pubblico o teneva banco agli angoli delle strade per sollevare il passante dalle fatiche della vita quotidiana, con un goccio di maleodorante e disgustosa eau-de-vie, dal sapore non troppo diverso da una nostrana grappa mal distillata clandestinamente.

Le classi superiori invece ricorrevano chi alle arti dello speziale e chi a quelle del monastero per ingentilire un prodotto vile, ancora pieno di metanolo, alcoli superiori ed esteri sgradevoli, ma in fondo attraente. Con le infusioni di erbe e radici, e di lussuosi prodotti orientali (zucchero e spezie) nacquero così in questi ambienti farmaceutici tutti gli antenati dei liquori oggi conosciuti. Se lo scopo originario del bere alcool era medicinale, preventivo o curativo che fosse, ben presto si passò a quello voluttuario.

L’acquavite entrerà stabilmente nel consumo d’élite tardi, verso il 1700, dopo un secolare processo di raffinazione della sua fabbricazione e del consolidarsi della pratica dell’invecchiamento in botte di rovere.

La grande rivoluzione nel mondo dello spirito di vino – essenzialmente francese e spagnolo – la portarono gli Olandesi tra il 1400 e il 1500 con il perfezionamento dell’alambicco di rame. Fatto di grandi marinai, mercanti, ed anche distillatori di spirito di grano (jenever), questo popolo operoso contribuì alla nascita dei distillati in senso moderno. Già da secoli le genti fiamminghe usavano imbarcare vino nei porti atlantici e del Mediterraneo occidentale per commerciarlo più a nord, nelle isole britanniche e nel Baltico, ma la sua conservabilità era spesso limitata; per cui introdussero diffusamente la pratica di “bruciarlo” (brandewijn, da cui brandy in inglese) per ridurne drasticamente il volume, oppure di fortificarlo con acquavite (vino di Oporto). Era frequente al tempo l’usanza nordica di allungare il brandy con acqua al momento del consumo, per ricostituire una sorta di vino dal suo concentrato.

I vantaggi erano evidenti: di trasporto, un decimo del volume del vino, di conservazione, e doganali. Quando Bordeaux vietò l’ingresso dei vini forestieri in città fino al giorno di San Martino, il divieto non si estese alle acquaviti, che poterono essere liberamente imbarcate, creando un potente stimolo alla distillazione di vino in Guascogna, invece che venderlo tal quale con difficoltà. L’acquavite di Cognac aveva grande mercato nel porto de La Rochelle, e nei borghi in riva alla Charente, di facile accesso ai navigli inglesi e fiamminghi.

L’industria del brandy spagnolo nasce dagli stessi presupposti: il distillato imbarcato nei porti andalusi con destinazione Fiandre, nel XVI secolo facenti parte del Regno di Spagna, venne sicuramente prodotto con tecnologia olandese, tanto che ancora oggi a Jerez ai distillati pregiati di vino, poco rettificati, si dà il nome di Holandas.

La tecnologia nota agli Spagnoli venne impiegata tal quale, non appena trapiantata la vite nel Perù, per far nascere l’industria del Pisco, che nient’altro è se non un’acquavite di vino non invecchiata, la più antica del Nuovo Mondo. Anche i Peruviani hanno perciò un debito secolare con gli Olandesi.

Dal 1600 in poi, una volta che l’arte distillatoria fu stabilizzata, ben poco è cambiato nella produzione dell’acquavite di vino. Ormai diffusa in qualunque parte del globo in cui si coltivi la vite, le differenze sono limitate alle qualità di vino distillato, quasi sempre bianco, e al tipo di alambicco impiegato. Tradizione ed esperienza, bisogna riconoscerlo, sono però predominio assoluto francese.

In Italia l’industria della distillazione sconta un peccato originale: per secoli alimento con valenza sacrale prima ancora che bevanda, a nessuno sfiorava l’idea di poter distillare il vino. Tanto che l’acquavite nazionale è un prodotto dell’arte di utilizzare gli avanzi, ché il vino se lo tenevano i ricchi per berlo: il contadino se voleva acquavite, poveraccio, era costretto a distillare vinacce, ed imbottigliare grappa più o meno cattiva.

Quindi la fama di mediocrità che ha circondato per lungo tempo la grappa era meritata, per incultura e mancanza di mezzi del distillatore. Questo ha impedito anche lo sviluppo del distillato di vino nostrano: chi poteva permetterselo se lo comprava altrove (a Cognac). Soltanto la fillossera poté fare il miracolo, quando i francesi si trovarono prima degli altri a corto di vino. Allora l’industria del “cognac” nazionale si sviluppò tumultuosamente, ma ancora senza esperienza né grande arte, pur restando sulla breccia per circa 80-90 anni, prima di precipitare nell’oblio.

Oggi un triste disciplinare ed il predominio dell’industria, mancando un diffuso artigianato di bottega, fanno del brandy italiano un prodotto quasi sempre privo di qualità, ma qualcosa si sta muovendo tra i vignaioli più avvertiti. Purtroppo, come dicono i francesi, ci vogliono tre generazioni per ottenere stabilmente una tradizione di brandy d’eccellenza. Ce lo racconteranno i nostri nipoti… forse.

 

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto non può ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito, e da qualche anno ne scrive in rete sotto pseudonimo.

2 Commenti

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Paolo

circa 8 anni fa - Link

Fammi fare il pierino: "in principio era il vino", o la birra? :P Seriamente: esiste qualche analisi storica che "grosso modo" cerchi di capire se è più antica la fermentazione del cereale o quella dell'uva? Tralasciando ovviamente la questione teNNica su cosa possa definirsi birra o vino a quell'epoca, ma rimanendo sull'aspetto generale: la fermentazione alcolica sarà stata scoperta/utilizzata prima per l'uno o l'altro dei prodotti?

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Thomas Pennazzi

circa 8 anni fa - Link

@ Paolo: la risposta la può dare solo chi scioglierà l'enigma se sia nato prima Noè o il Faraone... in realtà il primo fermentato alcolico bevuto dagli uomini paleo-qualcosa è l'idromele ;) Piuttosto mi piace commentare l'immagine a corredo dell'articolo: xilografia tedesca quattrocentesca, a occhio, mostra un alambicco a quattro capitelli; la cucurbita era unica, e gli sfiati della caldaia a lato del manufatto da cui esce il gas combusto fanno capire quanto fosse nocivo lavorare in un laboratorio alchemico. La cosa interessante è la forma dei capitelli, conica e non a cipolla, e l'uscita dei vapori non in cima ma sul fianco di essi: l'assenza della serpentina di refrigerazione e la posizione dello sfiato fanno capire quanto inefficiente fosse la distillazione e quante flemme impure finivano nel liquido finale. Fate il confronto con un'immagine moderna e vi renderete conto di quanto le modifiche introdotte dagli olandesi solo pochi decenni dopo hanno apportato un significativo incremento qualitativo e nella resa del distillato.

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