Birre al glifosato in Germania. Controcanto all’analisi del Corriere della Sera

Birre al glifosato in Germania. Controcanto all’analisi del Corriere della Sera

di Thomas Pennazzi

È notizia di questi giorni: in Germania un’analisi su alcune birre molto diffuse ha rivelato residui di glifosato, un diserbante tra i più impiegati in agricoltura, suscitando un certo rumore sulla stampa. Il Corriere ha titolato: In Germania birre «al glifosato», erbicida ritenuto cancerogeno. Per quanto si tratti di notizia sensazionale, che d’altro canto gli enti sanitari hanno subito raffreddato, il problema esiste. Ma quanto deve preoccuparci questa scoperta?

Diciamo subito che l’enfasi sulle quantità è stata gonfiata ad uso scandalistico: ormai nel nostro cibo – anche bio – e nelle nostre acque esistono tante e tali sostanze chimiche residue, che l’elenco farebbe impallidire. Ma per l’appunto si tratta di tracce microscopiche, rilevabili solo con sofisticati metodi di analisi. Le quantità di glifosato assunte bevendo anche la più “inquinata” di queste birre sono così esigue che per avere un effetto tossico sull’organismo umano sarebbe necessario morire prima alcolizzati tre o quattro volte. Quindi tanto rumore per nulla.

Invece la questione va vista sotto un altro aspetto: la sommatoria di veleni a cui siamo esposti quotidianamente, dalle sostanze impiegate in agricoltura, ai farmaci che tutti quotidianamente usiamo, fino all’aria che respiriamo, è sicuramente un problema sanitario diffuso, che impatta in qualche misura sulla nostra salute. Questo è facilmente intuibile, ma non è motivo di allarme di per sé. Non vi salvereste nemmeno vivendo in Antartide.

Comprendere se tutto ciò sia rischioso è di estrema difficoltà, perché la tossicologia si occupa di singole sostanze quando determinano un effetto, acuto o cronico, sull’animale o sull’uomo. Il cocktail di tracce infinitesimali a cui siamo esposti non è – fino a prova contraria – suscettibile di provocare effetti significativi e soprattutto scientificamente dimostrabili sulla nostra vita. Ed il nostro fegato è ben attrezzato a darci man forte.

I regolamenti sanitari e le pratiche di controllo di qualità delle materie prime, che le industrie alimentari sono tenute ad osservare, portano ad una minimizzazione del rischio per ogni sostanza ritenuta pericolosa, ma non alla sua esclusione assoluta.

Ciò che più potrebbe preoccuparci quindi è non è una tossicità acuta o cronica, ma il potenziale rischio mutageno, ovvero la formazione di cellule “impazzite” dovuto all’esposizione prolungata a questi numerosissimi agenti dispersi su tutta la Terra ormai da quando la chimica ha preso piede. Anche qui, il punto di domanda è enorme, e se le sostanze prese singolarmente destano preoccupazione, come lo stesso glifosato, la prima cura degli enti preposti alla salute è di individuare e ridimensionare questi rischi vietando l’utilizzo di sostanze pericolose, senza farsi condizionare dalle multinazionali, che è il punto più controverso del dibattito. Ovviamente qualcuno dirà che il rischio è invece realtà concreta, ma il discorso porterebbe lontano in territori emozionali, e non razionali.

Il pericolo evidenziato in questi giorni dalla stampa è maggiore quando le derrate provengono da Paesi in cui i controlli sanitari sono carenti o elastici, e non è improbabile che i livelli segnalati dallo studio tedesco siano dovuti ad orzo coltivato con metodi di agricoltura intensiva poco o per nulla rispettosa dell’ambiente, e mal monitorati dagli utilizzatori.

Il punto è proprio questo: tendere verso la consapevolezza che ogni composto chimico usato nei campi comporta rischi per la salute, e che ne va ben valutato il rapporto rischio/beneficio, e non solo quello del costo/resa per ettaro, e che esistono già pratiche a basso impatto ambientale compatibili con un’agricoltura moderna.

Senza scadere in profetismi di sventura cari a certo ambientalismo radicale – stonati in un contesto di inquinamento capillare come il nostro attuale – il contadino moderno dovrà necessariamente rendersi cosciente che la domanda del pubblico va nella direzione di un’agricoltura più sostenibile, e, senza piegarsi pigramente alle sirene delle multinazionali, che abbandonare la sua atavica ingordigia di rese a scapito della qualità del raccolto è profittevole per sé e per gli altri. In certi distretti lungimiranti lo si è già capito.

Tutto quanto detto richiede maggiore istruzione: tecnica dei singoli imprenditori, culturale dei politici, e certamente una qualche forma di sostegno in denari pubblici; ma ne va della salute di tutti e del futuro del pianeta. Ci arriveremo?

[Immagine: Choice.com.au]

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

3 Commenti

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vinogodi

circa 8 anni fa - Link

...dobbiamo arrivarci ...

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Federico

circa 8 anni fa - Link

Ci siamo già arrivati, esistono fior fiore di fondi comunitari per lo sviluppo ed il sostegno della agricoltura biologica certificata. Il problema è il consumatore, fino a quando non pretenderà un prodotto certificato, l'imprenditore non sarà mai invogliato a fornirglielo e vincerà sempre l'approccio "minor costo, massimo risultato" con l'acquisto e la trasformazione di materie prime che non provengono da agricoltura sostenibile. Il problema, stavolta è solo nella preparazione del consumatore. Gli strumenti normativi e finanziari già esistono ed in molti casi, sono già applicati. Manca che si adegui la "domanda", l'offerta già lo sta facendo.

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vinogodi

circa 8 anni fa - Link

...mi spiace, ma sono più realista del re : l'agricoltura sostenibile , così come il bio (che non coincidono) devono essere imposti su larga scala. Deve diventare un "sistema agricolo sostenibile" perché non esistono microsistemi efficaci per frammentazioni solo volontarie, il più delle volte velleitarie o per uso commerciale, altre più oniriche nel fine più che nella pratica. La parcellizzazione di un sistema "ecosostenibile" in un sistema "convenzionale" è pura utopia e non perseguibile , perché la contaminazione crociata delle colture è la natura che le determina. Il resto è poesia...

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