A chi venderemo tutto ‘sto vino, ai turisti italiani all’estero? Produttori, leggete un po’ qui

di Cristiana Lauro

Frequento spesso per lavoro il Medio Oriente e i paesi del Golfo e, onestamente, mi piace il modo di condurre le relazioni da queste parti. Mi trovo a Muscat in Oman e anche qui abbiamo un bravo ambasciatore, Paola Amadei, che come altri nel mondo e di mia conoscenza, si dà parecchio da fare per promuovere i marchi italiani, i nostri prodotti, compreso il vino. Basta vedere un qualsiasi ricevimento in residenza. Ma non è la sola.

Penso al nostro ex Ambasciatore in Cina, Riccardo Sessa, e a quanto ha fatto per sostenere, raccontare i nostri vini. Così come il suo successore Bradanini, giunto ora a fine mandato, o a Cesare Ragaglini a Mosca che, per la festa della Repubblica Italiana, lo scorso anno ha dato quasi più visibilità al vino e ai nostri marchi che agli splendori della nostra Ambasciata in Russia, una delle più belle nel mondo. Non dico nulla di nuovo, che la nostra diplomazia sia un esempio mondiale è notorio; uno degli ultimi singulti di cose ben fatte nel nostro paese e di cui ci possiamo ancora fregiare.

Sulla destra, Sua Eccellenza Ambasciatore Paola Amadei. Foto: Cristiana Lauro

Ma è chiaro che tutto questo non sia sufficiente, qualcosa sbagliamo, facciamo un po’ di autocritica (è costruttivo!) perché altrimenti non si spiega come mai i numeri siano così bassi. E non pariamoci dietro alla solita storiella che qui si beve Champagne e i francesi, si sa, hanno tanti anni di marketing alle spalle e son più bravi di noi. E i neozelandesi? I cileni? I cinesi? (Perché nelle carte internazionali inizio a vedere la pagina della Cina).

Sono tutti più bravi di noi? Hanno grande esperienza nel marketing del vino? Qui la nostra presenza nelle carte dei vini di ristoranti e alberghi (dove si beve moltissimo, sia chiaro) è inferiore al 2%. Si trovano: Prosecco, il bianco Villa Antinori e Lageder. Con numeri risibili, ovviamente. Un vino rosso neozelandese che qui gira parecchio costa il corrispettivo di 100 euro e in Italia non lo accetterei nemmeno come resto per mancanza di monetine alla cassa del discount.

Mica si ragiona per Krug e Dom Perignon solo perché è un paese ricco. Si trovano tanti sparkling wine e alla gente piacciono, vengono bevuti volentieri. Io vedo tanto spazio per la Franciacorta ad esempio, ma non esiste. Sia ben chiaro, sono da sempre convinta che un’azienda si regga in piedi sul commerciale, ma non basta. Un addetto al commerciale estero fa una vita da cani, cambia più fusi orari che calzini e deve tornare coi numeri. Ragiona per numeri, sconti, pallet di vino. E spesso dopo che ha venduto la merce all’importatore si reca sul luogo per assistere gli agenti alla vendita. Cosa può fare più di questo? La formazione, la comunicazione, vanno curate in un altro modo.

Cari produttori, pensateci voi, ancora una volta di tasca vostra, perché se stiamo ad aspettare strutture ed enti come ICE et similia, stiamo freschi. Servono figure esperte, figure di raccordo, per le relazioni e per la formazione. Andiamo a spiegare, a insegnare il vino italiano in questi paesi, invece di improvvisare mini corsi di degustazione per quelli della palazzina nostra, altrimenti la richiesta non ci sarà mai e per vendere le nostre quattro bottiglie altrove dovremmo continuare a confidare nel consumo dei turisti
italiani all’estero. Ma sono sempre meno e da ‘ste parti non ci vengono. Perché siamo diventati poveri.

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Cristiana Lauro

Cantante e attrice di formazione ma fortemente a disagio nell’ambiente dello spettacolo, che ha abbandonato per dedicarsi al vino, sua più grande passione dopo la musica. Lauro è una delle degustatrici più esperte d’Italia e con fierezza si dichiara allieva di palati eccellenti, Daniele Cernilli su tutti. Il suo sogno è un blog monotematico su Christian Louboutin e Renèe Caovilla, benchè una rubrica foodies dal titolo “Uomini e camion” sarebbe più nelle sue corde. Specialista di marketing e comunicazione per aziende di vino è, in pratica, una venditrice di sogni (dice).

26 Commenti

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Hierro

circa 9 anni fa - Link

Parlando con cognizione di causa dato che ho vissuto a lungo in Medio Oriente...nei ristoranti in cui si può bere vino (ossia solo quelli degli hotel a 4 e 5 stelle) se si esamina la carte di vini le nostre bottiglie escono sconfitte in partenza in quanto volano sugli stessi prezzi dei cugini francesi (oltre 100 Euro a bottiglia), mentre mediamente australia, NZ e cile viaggiano a cifre piu' umane (sotto i 100 Euro a bottiglia). Le persone espatriate (io in primis) col cavolo che si fanno fregare per bottiglie conosciute vendute a prezzi offensivi. Ad esempio: - Ca' Del Bosco Cuvee' Prestige a 200 Euro, - Tignanello a 438 Euro, - Taurasi Radici Mastrob. 163 Euro, - Amarone Classico Cesari (!!!) a 490 Euro. A quei numeri ben pochi le scelgono se allo stesso prezzo posso trovare bottiglie di Bordeaux e della Burgundy che per l'europeo-americano medio hanno nettamente piu' appeal. C'e' tanto tanto tanto lavoro di marketing da fare. Alternativa: trovare un escamotage per essere competitivi in una fascia media.

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alessandro lucchi

circa 9 anni fa - Link

Sono d'accordo con Hierro. Mi sembra che trovare il modo per essere competitivi nella fascia media sia la cosa più sensata.

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Barbara Summa

circa 9 anni fa - Link

Fatemi spezzare una lancia per l' ICE, che quando ad Amsterdam c'era ancora ha fatto cose belle, utili e mirate per la promozione del vino italiano, con persone molto competenti a curare il settore. Peccato l'abbiano chiuso. Detto ciò un esempio che mi piace fare spesso è quello dell'Ufficio per la promozione dei fiori olandesi. I produttori si sono messi insieme per finanziare questo ente che promuove il prodotto olandese all' estero nella sua globalità, e lo fa in modo competente e mirato. Certo, bisognerebbe mettersi d'accordo e metter mano al portafoglio. Certo, occorrerebbe evitare le nomine politiche e mettere a lavorare gente davvero competente e che sappia fare il suo mestiere. Certo, ci vorrebbe un settore che sappia fare sistema.

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Nelle Nuvole

circa 9 anni fa - Link

Per quanto riguarda il mercato negli Emirati Arabi, questo è praticamente dominato da due società, mi sembra entrambe britanniche: MMI e AE. Queste decidono se gli garba importare qualcuno più di qualcun altro. Naturalmente, qualcuno è più qualcuno degli altri. Il discorso di Cristiana non fa una grinza, ma non è facile convincere e spiegare e relazionarsi con Società di questo genere. La presenza infiltrante e crescente della Cina nelle carte dei vini è semplicemente spiegabile con l'importanza commerciale e politica della Cina rispetto all'Italia. Non so quanto convenga a noi produttori italiani pagare di tasca nostra per ottenere una presenza costante in questo mercato. Abbiamo pochi spiccioli nelle tasche sfondate che ci ritroviamo e quelli cerchiamo di utilizzarli per mercati meno vincolati e vincolanti e più maturi relativamente al vino italiano. Un ultimo appunto, leggermente OT, ma è da tempo che volevo scriverne (forse l'ho già fatto). Riguarda gli sforzi della diplomazia italiana per sostenere il vino di casa sua, e nostra. Mi fa piacere leggere che S.E. l'Ambasciatore Ragaglini l'anno scorso a Mosca, in occasione della Festa della Repubblica Italiana, abbia dato ampio spazio alla produzione vinicola italiana. Io mi ricordo con vergogna un'altra Festa della Repubblica a Mosca, qualche anno fa. C'era appena stata una manifestazione organizzata dal Consorzio del Brunello di Montalcino e dal Gruppo Grandi Marchi. In due camere abbastanza risicate ci davamo dentro a servire, spiegare, ecc. Nella stanza accanto si trovavano anche banchetti di Parmigano e Mortadella di qualità. Nel pomeriggio passò l'Ambasciatore con qualche assistente. Non credo fosse lo stesso di adesso. Ci era stato chiesto di preparare qualche bottiglia di omaggio, cosa che facemmo volentieri, noi tutti produttori, compresi i "parmigianari" ed i "mortadellari": Finita la raccolta, l'Ambasciatore salutò e se ne andò. La sera dopo fummo invitati per il festeggiamento del 2 giugno. La sede è veramente bellissima, una villa con ampio giardino. Nel quale giardino c'era un gazebo che serviva gelati in piccole confezioni e succo d'arancia. All'interno delle splendide sale si aggirava una fauna mista di impiegati dell'Ambasciata, i loro parenti e noi miseri affamati ed assetati produttori. Sparsi sui tavoli giacevano vassoi di parmigiano e mortadella, poi arrivarono le farfalle al gorgonzola. Poi basta. E da bere? Solo vodka e mojto, servito con parsimonia da un barman affiancato da due strafichissime stangone, mute e imbronciate. Anche loro avevano una fame arretrata da secoli. Nessun vino presente, NESSUNO. Fine della storia, mi scuso per la lunghezza.

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

Cesare Ragaglini non era in carica a Mosca al tempo. I'inizio del suo incarico risale a meno di due anni fa, settembre/ottobre 2013. Quindi direi che per ora ha festeggiato un solo 2 giugno per la Repubblica italiana e lo ha fatto veramente molto bene dal punto di vista della visibilità dei nostri vini. Sarà che c'è stato anche il mio piccolo contributo

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

Giuro che avevo messo una faccina ironica ...o, almeno, credevo

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stefania

circa 9 anni fa - Link

"Servono figure esperte, figure di raccordo, per le relazioni e per la formazione" hai in mente qualcuno in particolare Cristiana?

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

Sì Stefania. Ma sposterei il discorso su un altro piano. Mi piacerebbe affrontarlo ma lo vedo più da discorso privato. Quindi, anche se non so chi sei e dove vivi, sei invitata a Roma per una chiacchiera sul tema. E un bicchiere di vino italiano, ça va sans dire!

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Vittorio

circa 9 anni fa - Link

In questi mercati monopolizzati o i produttori si consorziano e creano una società di importazione oppure bisogna accontentarsi che passino solo le referenze imprescindibili

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M.G.

circa 9 anni fa - Link

Bell'articolo. I punti principali sono 2. 1) I piccoli produttori non ha nemmeno senso che esportino in certi paesi in cui certificazioni, analisi, documenti per export, tasse e dogane sono complicate. In Russia ad esempio, solo per cominciare, ci vogliono 2000€ di analisi per ogni etichetta esportata. Per un piccolo produttore curare bene il Lussemburgo (un piccolo paese a caso) può essere più vantaggioso che cercare di sbarcare in Russia (parlo di questa nazione perché vivo qui e la conosco bene). Alla festa della Repubblica 2014 citata nell'articolo, a cui ho partecipato, nella peraltro splendida Villa Berg, era stato invitato a fornire il vino uno spaesato produttore Friulano (Perusini se non erro), convinto di promuoversi così in Russia. Devo dire che le signore di Perusini mi facevano quasi tenerezza, perché non avevano la minima idea di come fare, praticamente stavano mescendo a caso a zero potenziali clienti, con qualcuno che cercava pure (da tipico italiano) di millantare amicizie importanti, quando io sapevo che contava meno del 2 di picche quando briscola è denari (gli è andata male perché ha affermato di essere molto introdotto nella ditta dove io lavoro veramente ed ha fatto una figura da cioccolataro). Poi c'erano altre bottiglie (un po' tirate su a caso) ma diciamo che non era molto il momento adatto alla promozione (gli invitati erano all'80% italiani residenti a Mosca). 2) I grandi produttori, i soli che hanno davvero interesse a certi mercati, dovrebbero formarsi una struttura solida, formata da professionisti residenti nei Paesi in cui vogliono migliorare la penetrazione (o in gruppi di paesi omogenei: ad esempio Paesi ex Unione Sovietica, tranne baltici che ormai sono UE). Pochi lo fanno. Personalmente anni fa avevo ricevuto un abboccamento da un grosso gruppo italiano, per diventare il loro Brand Ambassador per Russia e dintorni, ma poi è tutto sparito. Ora lavoro per un importatore russo, e promuovo i vini del nostro portfolio, italiani o stranieri che siano.

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gianpaolo

circa 9 anni fa - Link

Se si aspetta che la promozione la facciano gli ambasciatori stiamo freschi, con tutto il bene che si può dire di questo o quell'altro. Il vino è materia complessa, ci vuole uno sforzo di semplificazione e visione di lungo periodo. I francesi lo fanno da sempre, e sopratutto per le regioni dove il vino è un business vero, come Bordeaux e Champagne, l'organizzazione è solida, il messaggio chiaro e forte. Dico una scontata banalità quando dico che gli italiani sono degli ottimi solisti ma pessimi team players. Nel mondo del vino la frammentazione è tale che se non si gioca di squadra si hanno opportunità solo nei paesi dove l'immigrazione italiana è robusta e fa il lavoro che dovrebbe fare il "generic body of promotion" che in Italia spesso manca, oppure appare per un anno o due e poi scompare. Wine Australia ha alla sua direzione Laura Jewel MW, ex head buyer di Tesco. Forse meno raffinata di un ambasciatore, ma sicuramente piu' concreta e preparata.

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Lorenzo Biscontin

circa 9 anni fa - Link

Oramai la "generic body of promotion" ovvero comunicazione dei marchi/prodotti collettivi non la fanno più neanche i Consorzi. Tutte le aziende sono alla ricerca di (nuovi) sbocchi commerciali, quindi sono focalizzate sul trade e si parla pochissimo al consumatore. Nessuno si preoccupa di definire un posizionamento specifico e differenziante della propria proposta prima di presentarsi ai potenziali clienti nuovi. Di conseguenza le strategie sono tutte di spinta sul mercato (push) e pochissimo di traino dal mercato (pull). Quando io chiedevo al consorzio (non importa quale) di concentrare le risorse per costruire e/o rafforzare la conoscenza e la reputazione della denominazione presso il trade e/o il consumatore in modo da "preparare il terreno" alle aziende nell'incontrare i buyer, tutti mi rispondevano che le aziende non erano disposte ad investire in questo tipo di attività e volevano invece i co-finanziamenti per fiere, missioni commerciali, degustazioni ecc.. Secondo me il punto di svolta sta qui.

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

Un buon intervento Lorenzo, aggiunge molto. Grazie!

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M.G.

circa 9 anni fa - Link

E perché vogliono finanziamenti per missioni e fiere? Perché molti si fanno le vacanze, invece di andare a vendere. Spendono in due-tre missioni più del loro fatturato annuo su quel paese (ammesso che veramente ci vendano alla fine). Ho visto, a certe fiere, aziende presenti a fare "degustare" i loro vini al consumatore finale, quando non avevano nemmeno l'importatore. E quando arrivava il ristoratore o il negoziante, si sperticavano in salamelecchi, senza sapere che per loro, in quella fase, erano completamente inutili. E state tranquilli che i buyers degli importatori a certe manifestazioni non ci mettono nemmeno piede. E dopo la fiera erano belli contenti per "il successo di pubblico".. Come dare un violino ad un ippopotamo..

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Fabrizio

circa 9 anni fa - Link

L'argomento è molto interessante, anzi direi strategico. Tuttavia, il pezzo ruota attorno a diverse sottolineature a favore della diplomazia italiana che pare investa (non lo sapevo) così tanto tempo nel promuovere il vino pur in zone non proprio facili sul piano diplomatico (ci sarebbe da fare qualche battuta, ma con paesi che invadono in armi i vicini e altre questioni ben più pesanti, passo oltre in questa sede). Lascio al gusto soggettivo il parere circa lo sfoggio di conoscenze con foto personali allegate al pezzo, per invece notare che manca del tutto un minimo di riflessione su quello che già è storia ormai in paesi dove da decenni (USA, UK, Germania, etc) il vino italiano ha una posizione consolidata (che sia o meno gratificante, ma pur sempre un dato tecnico ormai stabile). Per lavoro sono venuto a contatto in Italia con Coreani ed Americani e ho lavorato 3 anni in Germania, con diverse trasferte negli anni successivi in California. Ho aiutato (per orgoglio e passione per il vino) decine di piccoli produttori in oltre dieci anni, soprattutto toscani, ma anche pugliesi. I loro vini si sono consolidati, come altri prima di loro nei decenni in quei luoghi, grazie alla conoscenza IN LOCO delle dinamiche di mercato, di gusto, di cultura in generale. Questa idea del promotore che cambia più fusi che calzini fa tanto 'oddio che persone super-impegnate senza le quali il mondo si fermerebbe', ma che porta poco nei portafogli dei produttori a meno che non si approfondiscano i legami IN LOCO con chi il vino lo propone e lo vende. Ma proprio perché questo approfondimento è la vera parte difficile, guadacaso costoro hanno pochissimo tempo per farlo. Cari produttori, guardatevi bene da costoro che 'cambiano più fusi che calzini' ed investite (come ha fatto persino un produttore di Primitivo di Gioia del Colle, ben al di là delle potenzialità commerciali di chissà chi) in contatti locali, spot fatti da Sommelier in cinese (di nessuna delle nostre nobili, litigiosissime ed autoreferenziali Fond-Associazioni), etc. Mentre i 'cambiatori di fuso orario' ingrassano i propri portafogli, il vino italiano si vende all'estero non certo grazie a queste tecniche.

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Denise

circa 9 anni fa - Link

Salve, sono un enologa Italiana in Cina. Lavoro nel campo della formazione universitaria presso il primo College di viticoltura ed enologia ad essere stato istituito in Asia circa 20 anni fa. La maggior parte dei miei studenti ignora l'esistenza del vino Italiano e quei pochi che ne sono a conoscenza stenta ad apprezzarlo, preferendo vini francesi, spagnoli, australiani. Qui all'Università io e un mio collega anche lui Italiano organizziamo Master class sul vino Italiano(e non solo) ma sono poche le aziende Italiane disposte a collaborare per non parlare degli enti ministeriali. Si parla tanta di formazione ma se non si formano in primis coloro che andranno poi a formare e a lavorare nel settore (gli studenti per l'appunto) non si va da nessuna parte e i numeri del vino italiano in Cina non cresceranno mai.

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Sergio

circa 9 anni fa - Link

Molto interessante Denise! scusa una curiosità: fate lezione in Inglese, immagino; non circolano riviste anglofone, che pure parlano dei nostri vini? e poi: a quando un enologo cinese al lavoro in Italia? son bravi?

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Denise

circa 9 anni fa - Link

Salve Sergio, certo di riviste ne circolano ma l'attenzione qui in Cina è rivolta a ben altri paesi soprattutto Francia e non credo che bastino delle riviste anglofone per suscitare l'interesse degli studenti verso i nostri vini. Enologi cinesi a lavoro in Italia?Ma se in Italia non c'è lavoro neanche per gli enologi Italiani....

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

È l'intervento che aspettavo. Grazie Denise!

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alessandro lucchi

circa 9 anni fa - Link

Piuttosto interessanti tutti gli interventi. Rilancio (forse) provocatoriamente: in un mercato come i paesi del golfo,con vini tutti uguali e standardizzati,quel che conta è la griffe, e l'unico investimento è la pubblicità?

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

Ma no, in realtà quello che dici vale più per città come Dubai dove di vini italiani se ne vedono e vendono di più e sono prevalentemente le griffe di cui parli. Lì Gaja, per intenderci, ha pagine dedicate solo al suo marchio in fior di ristoranti. Ma Dubai ultimamente è sempre più meta di turismo di fascia bassa, infatti ci sono molti italiani. Qui in Oman, che ha un turismo decisamente meno cheap e dove si beve molto, non funziona solo la griffe. Ecco perché scorrono fiumi di vini dalla Nuova Zelanda che manco per pulire i pavimenti. Attenzione: a 100/120 euro la bottiglia e parliamo di prodotti col tappo a vite che al discount compreremmo per sfumare le scaloppine, forse. Ad esempio gli sparkling wine girano parecchio. Non solo grandi marchi ma roba di bassa lega offerta al calice nei ristoranti e che ho letto in mescita alla modica cifra di 18 euro al calice. Sto parlando di porcherie, mica di spumanti. Per questo vedrei spazio per la nostra Franciacorta. Non c'è richiesta di vino italiano. Il nostro compito dovrebbe essere di comunicare e formare sul vino italiano. Non sul vino. Che il vino procuri ebbrezza lo sanno tutti. Infatti lo bevono volentieri. Quello degli altri

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alessandro lucchi

circa 9 anni fa - Link

Chiarissimo, non conoscendo direttamente la realtà dei paesi del golfo generalizzavo. E' incredibile che non riusciamo ad inserirci con una fascia di prezzo di questo tipo, forse è anche difficile mettere a fuoco il consumatore tipo di questi paesi, ammesso che conti il consumatore e non invece chi il vino lo propone. Comincio a capire quanto è difficile il vostro lavoro...

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M.G.

circa 9 anni fa - Link

Ma si potrebbe sapere il PERCHE' questo vino neozelandese di basso livello costi 100€? Come sono le dinamiche che portano dal prezzo ex factory a quello alla mescita? Tasse e accise? Ricarichi degli importatori? Ricarichi dei ristoratori? In Russia ho chiara come funzionava e funziona la meccanica che portava e porta un vino che ex factory costa X a costare al ristorante 5.X o 10.X; il tutto passaggio per passaggio.. Se il vino neozelandese, che costa in un locale di Muscat 100€, parte da un ex factory di 2-3€, non si potrà mai stare nella stessa fascia con prodotti che costano ex factory 10€, siano essi italiani, francesi o spagnoli.

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Cristiana Lauro

circa 9 anni fa - Link

a quanti dollari esca quel vino dalla Nuova Zelanda, in effetti, non lo so, ma avendolo provato ( dando un'occhiata anche al packaging) si tratta di un vino che da noi uscirebbe a 3/4 euro dalla cantina, la fascia è quella. Va detto che qui c'è forte consumo di vino e di superalcolici ma le tasse di importazione sono elevatissime. Sicuramente anche i ricarichi non son da meno, ma quello vale anche per altri prodotti. Insomma, si può bere alcol nonostante l'Islam lo vieti, ma bisogna pagarlo caro. Cosa della quale ci accorgiamo solo noi, qui non hanno certo problemi di soldi, bontà loro.

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M.G.

circa 9 anni fa - Link

Beh, allora un vino italiano che esce sui 7-10€ ex-factory, proporzionalmente arriverebbe in un ristorante di Muscat indicativamente sui 200€ al pubblico. Per quanto i consumatori non abbiano problemi di soldi, non sarebbe comunque nella stessa fascia.

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Gianluca Zucco

circa 9 anni fa - Link

Salve Cristiana, innanzitutto post e interventi davvero interessanti e ricchi di spunti di riflessione, in particolare quelli di M.G., con cui mi sono identificato in più di un’opportunità. Quindi sposto la fiera in Brasile. Qui ci sarebbe da scrivere un libro di aneddoti a riguardo della troppo spesso frequente pochezza di visione da parte di quasi tutte le parti in causa: a cominciare dai produttori fino agli import locali passando per le partecipazioni speciali di consorzi, gruppi e istituzioni. Quindi chiedo venia se mi dilungo un po. Istituzioni. Meglio non mettere il dito sulla piaga di ciò che non si fa, e quando si fa è a livello assolutamente amatoriale, mentre portoghesi e cileni in primis, e poi francesi in sordina ma da sempre e argentini più di recente, che guarda caso sono anche quelli che ci precedono nel ranking dell’import locale, ci fanno ognuno a modo suo un sederino così, basati su metodo, capacità organizzativa, costanza, determinazione, branding, didattica e soprattutto visione a lungo termine. Formazione, divulgazione, cultura enologica italiana? Non pervenute. Gruppi e Consorzi. Sporadicamente qualcuno si fa coraggio, organizza un evento, spende un sacco di soldi, si mette nelle mani dei soliti sciacalli locali che organizzano invitando la mailing list di sempre, leggasi la solita orda composta da due caste: i parassiti scrocconi il cui obiettivo è bere e spizzicare a sbafo, e poi via col copy/paste sul "“blog”" (e metti virgolette…), oppure la mezza dozzina di traffichini, che forti del proprio “nonnismo” provano ad accentrare in qualche modo qualsiasi business enologico locale, oltre allo sbevazzo libero, che nessuno è fatto di ferro. Spente le luci, il nulla, a parte un bel mazzo di biglietti da visita di gente “interessata”… Import locali. Si possono consolidare in 3-4 sottorazze almeno. Innanzitutto quella limitrofe ai traffichini di cui sopra, a cui sostanzialmente interessa continuare a concentrare il “meglio” della produzione estera da un lato e del portfolio di clienti danarosi dall’altro. E se per caso esprimi qualche opinione sensata, sei preparato e/o dotato di fondamenti, gli fai scattare immediatamente l’allarme rosso attacco alla terra, pardon orticello... Poi ci sono quelli che sono entrati nel ramo per investire, non ci capiscono una mazza, ma "il vino va di moda, so tutto, sono stato pure in vacanza a Sonoma, mentre a Mendoza sono di casa, ho fatto il business plan, e adesso metto su bottega raccattando una mezza dozzina di produttori frustrati dalle scarse attenzioni dei grandi import, e visto che ci sono mi porto via anche 3 o 4 venditori pieni di vizi, di quelli che ti presentano il vino col nasino all’insù come se stessero vendendo una Montblanc o un Rolex; fra i vini italiani ci schiaffo un Prosecco, un Brunello, un Primitivo, che va di moda, un Amarone ed è fatta”. Poi ci sono quelli emigranti, con un paio di vicini in Puglia che producono vino buono che qui in Brasile di sicuro piacerà molto… In mezzo a tutto cci sono sicuramente anche alcuni seri, in tutte le categorie, grandi, piccoli, naturali, ma ancora non pervenuto uno di un certo rilievo che sia specializzato in vini italiani, al contrario di tutti gli altri paesi di rilievo enologico. Ed infine i produttori (e rispettivi addetti export). Qui il discorso si fa delicato, quindi sarò volutamente generico. Si trova di tutto, pressappochismo a palate, “Te lo spiego io il Brasile” (che ci ho dormito in tutto 5 notti in paio di occasioni, con l’albergo ad un isolato dal locale dell’evento…) ascendente, “il Brasile che delusione” prima dei pasti, stoccazzismo di contorno, e via discorrendo. Ma la lacuna principale è insita nell’approccio, troppo spesso raffazzonato, di basso impegno, insopportabilmente incostante. Il Brasile (ed in parte di fatto se lo merita, tasse abusive, cambio proibitivo, tanto per dirne un paio) visto come ruota di scorta, che ritorna velocemente nel bagagliaio se la Cina o la Germania fanno un fischio… Di fatto non sarà mai una mecca, ragioni climatiche e di costumi vedranno sempre la birra dominante, ma spazi ce ne sono, il mercato ha ripreso a crescere nonostante un anno molto difficile come è stato il 2014 e continuerà, siamo ad un punto virtuoso di non ritorno; ma noi continuiamo accoccolati sulla riva del fiume a guardare la barchetta che va, ed è un peccato perchè saremmo avvantaggiati in assoluto, su tutti, per il modo in cui siamo visti e considerati, per identificazione ed empatia, compreso verso i nostri vini. Non voglio farla semplice, perchè semplice non è, lo so, ma è sinceramente difficile riuscire a comprendere chi è abituato a veder trascorrere le stagioni e spesso gli anni per avere il proprio prodotto pronto, essere così superficiale e volatile nel momento di venderlo in altre latitudini. Saluti,

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