Romagna mia | Ronchi di Castelluccio, verticali emozioni

di Gabriele Succi

Nell’immaginario collettivo la Romagna è sinonimo di distese infinite di ombrelloni, piadine, discoteche, vitelloni e sballo. Molti però ignorano che la parte più caratteristica, verace, meno appariscente, è l’entroterra con i suoi bellissimi borghi collinari circondati da vigne e olivi. Il noto regista e produttore cinematografico Gian Vittorio Baldi, lughese di nascita, nel 1974 di ritorno da Roma, rimase rapito da quei paesaggi e fondò il Castelluccio, nelle colline fra Brisighella e Modigliana, a cavallo fra le province di Forlì e di Ravenna.

L’azienda si trova ad un’altitudine che va dai 250 ai 500 m s.l.m., con terreni formati da uno strato compatto di marna e calcare dove furono individuate microzone particolari tra macchia e calanchi, adatte alla produzione di uve di altissimo livello qualitativo; queste zone da noi in Romagna sono definite ronchi, così chiamati perché non erano altro che pezzi di terra strappati al bosco con la roncola. Le tendenze enologiche anni ’90 erano ben lontane dal condizionare il mondo vinicolo italiano e Gian Vittorio Baldi, con l’aiuto di Gino Veronelli e dell’agronomo Remigio Bordini, capì che il legame tra il sangiovese e i terreni che avevano a disposizione era e sarebbe stato indissolubile.

Allora il progetto fu considerato visionario, “qvel l’è màtt” dicevano i contadini del luogo. Baldi (presente alla serata insieme al figlio Gian Matteo, oggi direttore generale della Bertani) ci ha raccontato del perché iniziò la sua avventura: non capiva come mai nei ristoranti italiani non ci fossero vini della Romagna in carta, e sugli scaffali delle enoteche. A posteriori la risposta è facile: si pensava a produrre tanto senza badare alla qualità del prodotto finale, cosa che nella maggioranza dei casi avviene anche oggi. Ecco perché lo consideravano “matto” e il suo estro, sommato alla grande determinazione, lo portarono anche ad essere tra i primi in Italia a mettere in pratica il concetto di cru (in questo caso in riferimento al singolo ronco), appreso quando andò a far visita, tanto per essere sicuro di non sbagliare, alle aziende Chateau Haut Brion e Chateau d’Yquem.

La zonazione lo portò a piantare selezioni clonali diverse di sangiovese a seconda dell’esposizione e del terreno, in modo da ottenere prodotti unici e distinguibili. Gian Matteo Baldi ci ha confessato che le selezioni scelte da loro erano quelle che a Tebàno (la sezione distaccata della facoltà di agraria dell’Università di Bologna, dove c’era appunto il Dott. Bordini) nessuno si sognava più di piantare perché poco produttive; una di queste selezioni (il biotipo SG 19, quello del Ronco della Simia) è tuttora piantato dagli agricoltori romagnoli e toscani ed è probabilmente una di quelle che offre i migliori risultati qualitativi.

Se le orme dei Baldi fossero state seguite da tutti in Romagna, avremmo oggi una delle migliori zone produttive e rinomate in Italia. Purtroppo, al contrario, a torto o a ragione, è invece considerata il terzo mondo dell’enologia e il termine ronco è ormai per i più sinonimo di vino in cartone (e l’esclamazione “tòt i dè!” nasce spontanea). Sono però un inguaribile ottimista e sono convinto che sotto le ceneri le braci ardano ancora. Prima o poi, i semi piantati nella “terra buona” riusciranno a germogliare e i prodotti di allora ritorneranno in queste terre, richiamando l’attenzione dei consumatori.

Oggi molti ottimi produttori cercano di raggiungere alti livelli qualitativi, alcuni ci riescono ma non c’è ancora uno stile comune, un filo conduttore che faccia capire agli appassionati il territorio: servono vini veri a base di sangiovese, possibilmente in purezza per evitare l’omologazione di cui soffrono molti vini della mia terra, dei miei colleghi. Un’ultimissima cosa: tanto per far contenti i tifosi del bio a tutti i costi, ricordo che Castelluccio fu tra gli antesignani – senza ovviamente sbandierarlo ai quattro venti come succede oggi – con concimazioni solo con letame (2/3 di vacca e 1/3 di pecora), in vigna solo rame e zolfo, uso di lieviti indigeni. Insomma cose semplici che oggi sono considerate virtù ma che allora erano la normalità.

Ecco i vini bianchi in degustazione.

Ronco del re ’81 (sauvignon blanc); colore giallo paglierino appena carico, alla vista sembra più un 2006 che non un ’81. Naso che apre con note di pera sottospirito che poi evolvono in un floreale di mimosa e poi in miele d’acacia. Bocca freschissima grazie ad una acidità veramente alta e con un finale agrumato, di una persistenza infinita. Per questo vino il tempo non è passato. Fu prodotto originariamente in non tantissimi ettolitri; ma dato che non piacque, venne dato agli operai dell’azienda, prima di essere imbottigliato. Rimasero due damigiane da 54 litri che furono poi imbottigliate. Un vino culto, da non credere. Il miglior bianco italico e non che abbia mai bevuto in vita mia. 98/100

Ronco del re ’90: colore giallo più carico del precedente. Al naso apre con un leggero sentore di zolfo a coprire il floreale, che viene comunque fuori ad aspettare con fiori di camomilla e miele. Bocca complessa con nespola in evidenza e un finale di caramello. L’acidità più bassa rende la beva appena più difficile per la minor freschezza. Soffre la presenza del fratello maggiore. 91/100

Questi invece i rossi, tutti 100% sangiovese.

Ronco delle ginestre ’82: colore rosso rubino intenso e brillante, senza cedimenti. Naso di pelle conciata al cromo, poi menta, menta e ancora menta. La freschezza è impressionante, vino che sembra di almeno 10 anni più giovane, ci sono note di tabacco e rabarbaro e balsamiche sul finale. Alla cieca sarebbe stato facile confonderselo con un Biondi Santi. 94/100

Ronco delle ginestre ’86: colore rosso più scarico e granato del precedente. Appena versato si sente una netta riduzione con odore di tombino, che però scompare nell’arco di neanche un minuto per aprirsi sempre in note mentolate (meno evidenti rispetto al ginestre ’82) poi agrumate ed infine in fiori macerati; veramente complesso. Anche qui acidità altissima, tagliente, che mantiene la beva vivissima grazie anche all’evidente frutto agrumato presentissimo. Anche questo è un sangiovese di gran classe. 95/100

Ronco delle ginestre ’88: questo vino a mio avviso è stato contaminato dal tappo difettoso. Apre con una piccola muffetta (non TCA netto, ma quasi) e con glutammato. Bocca evoluta, dove ritorna quella che a mio avviso è la contaminazione del tappo. Peccato. N.G.

Ronco dei ciliegi ’81: colore come il ginestre ’86. Olfatto che offre in apertura un thè nero indiano persistente che ritorna anche in bocca accompagnato da un’acidità vibrante e tannini ancora leggermente aggressivi che farebbero pensare ad un vino del ’90 o dopo ancora. Finale incredibile. 93/100

Ronco dei ciliegi ’82: per me la vera sorpresa della serata. Parte muto, chiuso, ma poi si apre in note torbate e poi iodate; bocca monumentale, assurda per un vino del 1982. Un frutto macerato in mezzo ad un mare di tannini compatti ma levigati fusi in un’acidità da far spavento. Pazzesco, in prospettiva potrebbe durare ancora altri decenni. 97/100

Ronco del casone ’80: colore scurissimo violaceo (!) sembrerebbe a prima vista un vino fatto da uve a base montepulciano o lambrusco grasparossa; irreale. Qui però la prima delusione, naso evoluto da Porto che ritorna anche nel prospetto gustativo. Non andato, ma veramente troppo evoluto; si potrebbe pensare ad una cattiva conservazione. Oppure andava bevuto prima. 83/100

Ronco del casone ’81: qui il colore è nettamente più scarico (anche perché sarebbe veramente stato impossibile fare di più). Olfatto anche qua con nespola che rimane in bocca assieme a tannini di una finezza setosa, quasi borgognona, anzi il più borgognone dei vini della serata; sfido chiunque alla cieca a scambiarlo per un sangiovese. 93/100

Ronco del casone ’86: Colore rosso rubino brillante, l’acidità volatile che è effettivamente sopra le righe copre tutto lo spettro olfattivo e purtroppo ritorna anche al gusto, anche se poi il finale agrumato va a raddrizzare la situazione, assieme ad un tannino perfettamente integro. Per inciso la volatile è sparita la sera successiva, e il naso è andato ad avvicinarsi ad un frutto chiaro leggermente maturo. La sera della degustazione ho scritto 84/100; il giorno dopo 87/100. Non all’altezza però dei migliori della serata.

Ronco del casone ’87: Seconda sorpresa della serata. All’olfatto è ancora presentissima una ciliegia rossa perfettamente integra, anzi ancora si avvertono note quasi fermentative, pazzesco! Il frutto rosso quasi macerato ritorna anche per la via gustativa con un tannino in progressione che domina sull’allungo finale; il tutto accompagnato dalla freschezza che è evidente ormai essere il marchio di fabbrica della gestione di allora. 96/100

Ronco della simia ’90: uno dei tre vini che chiederei di bere nel caso fossi condannato a morte. Colore di tonalità scurissima, compatto; con unghia appena aranciata. Subito il naso è monolitico, indice già dell’imponente struttura del vino; poi evolve in frutta rossa e nera macerata e poi in liquirizia, poi ancora cioccolata e mallo di noce. Bocca assoluta, struttura alla Chateau Latour; la potenza di Mike Tyson con l’eleganza di Sugar Ray Leonard. Poi ancora frutta nera, liquirizia e alla fine anche il catrame. Il tutto sorretto da una quantità di tannini enorme che non asciugano ma anzi allungano il finale. Che dire? 97/100 pieni, ma in prospettiva… chissà?

Peccato per chi non abbia mai bevuto una cosa simile. Nella mia vita è la seconda volta, posso dire di essere stato fortunato. Riassaggiato dopo un’ora, all’olfatto si è richiuso, come a dire: “avete intravisto chi sono…poi vi farò vedere sul serio chi diventerò”. Chi sarà il fortunato a riberlo? Per inciso, al termine della serata, si è bevuto un vino che è considerato lo “Chateau d’Yquem italiano” annata 1996, di un’altra grande azienda romagnola. Ma questa è un’altra storia.

32 Commenti

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Stefano Ghisletta

circa 12 anni fa - Link

Bell'articolo, bei commenti chiari e coinvolgenti, ma perchè dare dei punteggi ?

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Rossano Ferrazzano

circa 12 anni fa - Link

Perché non darli? Alti o bassi che siano, danno indicazioni di qualità relativa all'interno dell'articolo, e assoluta fra questi vini e gli altri vini del mondo, secondo l'opinione dell'estensore delle note. Io li ritengo utilissimi. Ovviamente non esistono punteggi oggettivamente giusti e sbagliati, essendo essi solo rappresentativi dell'opinione di chi scrive, ed essendo questa inevitabilmente variabile. Parto da questo presupposto dandolo per scontato, ma magari non è così per tutti.

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Mauro

circa 12 anni fa - Link

assolutamente d'accordo con quella nota un po polemica, da cui si deduce un po sofferenza, quando si dice che la Romagna potrebbe dare molta più qualità di quello che avviene. ma quando il mercato è in mano a grossi industriali che strozzano letteralmente i produttori con prezzi assurdamente bassi, smuoversi da questo pantano diventa dura. Ho sempre amato la Romagna, sono stato a Cesena a comprare San Giovese per anni facendo ottimi affari, è una delle zone nel Nord Italia migliori per rapporto Q/P, ma è vero che molti produttori non badano molto al risultato.

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egio

circa 12 anni fa - Link

Una serie di vini come quella che hai descritto, Gabriele, deve davvero far riflettere a lungo te e i tuoi colleghi romagnoli; dalle parole e dal lavoro di Gian Vittorio Baldi emerge chiaramente come in Romagna, forse più che altrove, sarebbe stato importante avere l'umiltà di avvicinarsi a quella terra con rispetto e, avendola, con grande sensibilità. Quella sensibilità che ha permesso negli anni '80 che a Castelluccio si leggesse al meglio la terra, il terreno e il territorio, seguendone fino in fondo le peculiarità e lasciando lavorare la natura, ma con grande sapienza, dopo aver studiato e imparato dai grandi il lavoro di vigna e cantina. Evidentemente la Romagna non è posto dove sperimentare "filosofie" enoiche precostituite, quasi da culto della personalità di chi fa il vino; questi vostri posti magnifici non hanno forse le spalle abbastanza larghe per far venir potabile un vino comunque lo si faccia. Ma a chi sa ascoltare, possono regalare emozioni inarrivabili, come abbiamo sperimentato a Brisighella. In Baldi non abbiamo riconosciuto un talebano di questa o quella ideologia enologica, ma un curioso innamorato del suo territorio; la sola idea non negoziabile che ha riaffermato con forza, se ci pensi, è stata: conoscere il territorio e salvaguardarlo al massimo. Secondo me motli tuoi colleghi, attratti da criteri diversi, hanno perso un bel treno. Può darsi, come dici tu, che ripassi. Ma intanto dal 1990 della Simia a oggi resta un buco non da poco, salvo rarissime eccezioni. Infine una domanda: ma sei proprio sicuro che nel Ronco del Re '81 ci sia davvero del Sauvignon...?

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Paolo E Katia Babini

circa 12 anni fa - Link

Concordo in pieno, ma credo che questi concetti valgano per tutte le zone, non solo per la Romagna. Credo che bisogna chiedersi perchè la storia di Castelluccio dei Baldi non è andata avanti e si è interrotta. Come dici tu Gian Vittorio era innamorato del suo territorio e non è mai sceso a compromessi pur di portare avanti le sue idee di fare dei grandi vini. Ora come allora questi concetti, che anche io seguo purtroppo per me, però difficilmente pagano.

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egio

circa 12 anni fa - Link

Sì, capisco che per chi a fine di ogni anno deve tirare una riga e chiudere un bilancio, non sia semplice, soprattutto a certe dimensioni che sono quelle che rappresentano la quasi totalità di chi fa vino seriamente in Romagna. Credo che questi concetti, queste scelte così totali, possano pagare solamente alla distanza, e spesso così in là una piccola azienda non è in grado di aspettare. Pensa a quello che è successo anche altrove prima che da voi; nel Chianti ad esempio, dove aziende che negli anni '70 erano magari considerate strane e rivoluzionarie perché cercavano la qualità a tutti i costi, si sono trovate di colpo a essere vecchie e fuori moda di fronte alla richiesta del mercato di vini che presentassero solo muscoli e legno, per poi tornare a essere considerate esempio per tutti e oggetto di venerazione, quando in realtà hanno solamente continuato a fare quel che sapevano fare, ossia grandi vini! e il pensiero va ad esempio, non a caso, dalle parti di Radda... Certo, non tutti possono permettersi di aspettare 20 o 30 anni per sentirsi dare ragione. E non tutti hanno un Giulio Gambelli...!

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Paolo E Katia Babini

circa 12 anni fa - Link

Perfetto il concetto è chiaro. Però resistiamo, non molliamo facilmente, anche se la strada è lunga e forse non basterà una generazione.

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Paolo E Katia Babini

circa 12 anni fa - Link

Devo ringraziare il "maestro" Gian Vittorio Baldi, che conosco da almeno 20 anni, perche visitando lui e Castelluccio negli anni 80,con il grande (non solo in altezza) Remigio Bordini, mi hanno fatto scoprire prima il vino poi le potenzialità del terroir di Brisighella (amministrativamente le vigne di Castelluccio sono in comune di Modigliana ma la vallata è quella di Brisighella)che poi ho scelto per iniziare il mio percorso di viticoltore nel 1989. Io poi lì, ho incontrato la compagna della mia vita "Katia" figlia della mitica "Maria" la cantiniera di Castelluccio dall' inizio fino al 1993 passando da Fiore, Bibo Ciani ad un giovanissimo Pagli . Il mitico Ronco del re 81 è stato "mostato" ( come si dice in Romagna) dai suoi piedi. Credo anche che vi siano, attualmente, dei bravi produttori sia a Brisighella che a Modigliana,(veri grandi terroir di Romagna) che possano seguire il lavoro iniziato da Gian Vittorio, dalla moglie Cristine e dai figli Gian Matteo e Gian Guido. Grazie Maestro.

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solarolo

circa 12 anni fa - Link

Il Poggio Tura 2005 riprovato ultimamente fa ben sperare che l'esperienza di Baldi non sia non del tutto andata perduta.

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Elisa Mazzavillani, Vini Marta Valpiani

circa 12 anni fa - Link

Il “qvel l’è màtt” mi fatto sorridere e mi ha ricordato quando nel 1999 mia madre Marta acquistò i primi ettari di terreno a Castrocaro sul colle di Bagnolo e quando 3 anni ho iniziato anch'io a lavorare a tempo pieno in azienda abbandonando un posto fisso di lavoro dissero "l'è tota màtà nèca la fìola"; da li i primi esperimenti, i primi errori, e i primi piccoli passi che giorno dopo giorno compiamo, nell'allevare e nell'accudire i nostri 5.5 ettari, e nel voler vinificare ciascun rosso in purezza e di dare 4 versioni differenti di sangiovese perchè le 4 vigne anche se una affianco all'altra hanno diversi terreni e diversi cloni, danno risultati e caratteristiche completamente differenti l'una dall'altra. Penso che non abbiamo nulla da invidiare ad altre zone viticole, abbiamo grandi potenzialità, ma se vogliamo andare avanti, dobbiamo saper valorizzare il nostro territorio (e non omologare i nostri vini) trovare una nostra identità territoriale e far comprendere fuori regione che la Romagna non è solo vino da tavola.

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Giorgio Melandri

circa 12 anni fa - Link

io andrei piano a paragonare l'esperienza di Castelluccio dei Baldi con qualsiasi altra in Romagna. Non siamo tutti artisti...

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Elisa Mazzavillani, Vini Marta Valpiani

circa 12 anni fa - Link

Salve Giorgio, e quindi lei cosa consiglia?

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Giorgio Melandri

circa 12 anni fa - Link

non consiglio nulla, facevo una considerazione. g

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M. Chiara

circa 12 anni fa - Link

Articolo molto interessante davvero, grazie ! fine anni '80 mi ci sono (per fortuna già) affogata nei varii Ronchi, molto amati da quei dì !

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GiovannimSolaroli

circa 12 anni fa - Link

Gabriele Suckling dal Titanic ci lancia una boa di salvataggio: sopra c'è scritto che non tutto e' perduto. Quindi grazie a chi saprà afferrarla. Pero' sarà meglio non farsi illusioni, perche' a leggere la storia passata ci vuole poco. Perché le pagine sono poche e l'esempio di Baldi non fa storia. Vacca boia, ma se la prima riserva di sangiovese e' del 1975, e se bottiglie vecchie anni 80 in pratica non esistono, qualcosa vorrà pur dire. Io credo voglia dire che non c'era interesse sul vino, se non per venderlo. In quanto al confronto, beh, stendiamo un velo pietoso: i romagnoli non vanno in giro a bere la " robaccia degli altri". O meglio non andavano, perché un po' le cose stanno cambiando, e chi sta crescendo guarda caso sono persone giovani e curiose. Parlo in senso lato, visto che di eccezioni ne esistono. E bisogna anche dire la verità su chi detta le regole dei disciplinari, l'ombrello identitario dei vini, cioè i produttori, vale a dire chi ha i voti. con questi antefatti, la strada e' lunga e bisogna stare lontani da idee copierecce. Speranze? sicuro, sono moderatamente fiducioso.

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Gabriele Succi

circa 12 anni fa - Link

Oh, con tutta la marea di persone che scrive di vino, proprio a Suckling dovevi paraganarmi? :twisted: :lol:

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GiovannimSolaroli

circa 12 anni fa - Link

Sol per assonanza = Succi uguale Suckling. Tutto li. At salut

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Gabriele Succi

circa 12 anni fa - Link

Finalmente un attimo di tempo per scrivere… Giovanni, vedo che hai afferrato il senso della mia critica. Tutti noi produttori in Romagna stiamo facendo fatica…vabbè che il problema non è solo qui; ma in tal caso il “mal comune”, non fa il “mezzo gaudio” perché se non vendi, chiudi. In un certo senso il problema l’hai inquadrato: la stragrande maggioranza dei miei colleghi locali, non beve…o per lo meno, beve solo il proprio vino. Questo io lo considero un limite, perché se uno per tutta la vita ascolta Albano, non sa che in giro c’è altra roba…ed è dall’altra roba che dobbiamo prendere esempio. @ Mauro (3rd commento in alto) La sofferenza c’è, eccome; perché dai tempi di Baldi oggi le cose sono cambiate veramente poco: nelle carte dei vini e nelle enoteche fuori Romagna, di vino di qua non ce n’è… Al di là del fatto che c’è un notevole pregiudizio, tutti noi produttori dovremmo porci la stessa domanda: “perché nonostante tutti i nostri sforzi non veniamo riconosciuti?” Il potenziale c’è…e allora sfruttiamolo, facciamo come il buon Baldi, andiamo a visitare aziende che sono riconosciute a livello mondiale come oggetto di qualità assoluta, beviamo cose che ci facciano capire quali sono veramente i grandi vini e poi cerchiamo, per quanto ci è possibile, qual è il modo giusto per farli. Intanto cancelliamo il concetto sbagliato “alcol=qualità” (proprio io lo dico :) ) che ha portato a fare cose davvero difficili; partiamo da un concetto diverso di potatura, di epoche di raccolta, di affinamento dei vini e di tempi di uscita sul mercato. Allora, forse, ce la potremo fare. Io non sono nessuno, tant’è che, con le mie scelte, pago lo stesso scotto dell’amico Paolo Babini (come ha giustamente scritto sopra) ma ritengo che trattando un’uva come il sangiovese non si possa fare diversamente.

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gian paolo

circa 12 anni fa - Link

Sogno o son "lesto" :) ??? Il grande Succi che scrive per Intravino...và beh ora posso prendere i tre bicchieri e andare in paradiso :) scherzo ovviamente. Che dire "Gabariele"-alla romagnola-post bello e condivido in toto; sono anche le considerazioni fatte più volte nelle tue degustazioni a casa tua , sopratutto l'ultima con tutti i Sangiovese alla cieca.Se poi vogliamo estendere il pensiero ,di vini buoni o molto buoni in romagna ce ne sono , vedi i tuoi quelli del maestro Berti ,Babini e tanti altri, forse bisogna solo saper degustare senza pre-concetti.Chi penserebbe di trovare in romagna un vino del 90 così meraviglioso? Ultimo appunto l'eleganza era di Alì o Cassius Clay poi forse dopo migliardi di anni luce di Leonard.Ciao GP

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Gabriele Succi

circa 12 anni fa - Link

Gian Paolo, in Romagna dobbiamo lavorare, lavorare e imparare... Come ha scritto Paolo Babini, non basterà una generazione... Sulla Boxe... ho scitto Sugar Ray per accostarlo a Tyson come epoca... Di quelli che leggono, chi ha realmente visto Clay? Io sì, ma ero bambino... ...ma gli altri?

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gian paolo

circa 12 anni fa - Link

Che si debba lavorare è certo ...come è "certa" la validità di "certi" vini ,tipo i tuoi ridaje, e come è altrettanto "certa" la cecità marginale di chi vede il Sangiovese solo come vino principe fuori Romagna.Ovvio e "certo" che io non capisco niente di vino..non ho vinto premi !:) Ciao GP

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esp

circa 12 anni fa - Link

Ha ragione lei, Sig. Succi, non si faccia fuorviare: Ray "Sugar" Leonard era famoso per l' eleganza (intesa come modo di boxare) sul ring. Il soprannome "Sugar" era riferito proprio all' apparente "dolcezza" con cui portava i colpi. Cassius Clay, nella prima fase era un istrione del ring, nella seconda un armadio che si spostava pesantemente.

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gian paolo

circa 12 anni fa - Link

Un Armadio che ha insegnato a tutti che un peso massimo può schivare e rientrare come un peso welter ...esp "lasa" perder . Mai nessuno come lui. consiglio di rivederti tutte le video che trovi . se hai problema dimmelo che te le dò io .

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esp

circa 12 anni fa - Link

Ma lascia perdere tu, ma veramente, a meno che non faccia collezione di brutte figure. Questa evitala, và....

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esp

circa 12 anni fa - Link

P.S. Io gli incontri di Clay li ho visti "mentre" avevano luogo.

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gian paolo

circa 12 anni fa - Link

Perchè non mi scrivi una mail privata così possiamo parlare di Boxe-visto che il Pugilato dopo la Muay thai è stata e lo è tutt'ora la mia passione ,sport - senza tediare Intravino visto che si stava discutendo di Sangiovese. Ultima cosa se la maggioranza degli adetti ai lavori considera Clay come il miglior pugile in assoluto forse un motivo ci sarà. Ciao se vuoi puoi scrivermi alla mail ....basta cliccare sul nome e trovi tutto .Gian Paolo

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Elisa Mazzavillani, Vini Marta Valpiani

circa 12 anni fa - Link

Giovanni grazie per il tuo incoraggiamento del "non tutto é perduto", non avevo mai pensato al nostro mondo come a un incontro di box e la cosa mi fa molto sorridere, e grazie al buon Gabriele che sa raccontare in chiave moderna il nostro lavoro, i nostri problemi, e anche le nostre origini.

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Elisa Mazzavillani, Vini Marta Valpiani

circa 12 anni fa - Link

@giorgio, mi spiace che abbia frainteso quanto ho scritto, mi sono solo limitata a raccontare quella che è la nostra storia, senza alcuna presunzione e chi mi conosce questo lo sa, perchè penso sempre di essere "nata" l'altro giorno e questo mi da coraggio per continuare a imparare, per continuare a studiare e per continuare a lottare e per continuare ad amare questo fantastico mondo, malgrado tutte le difficoltà.

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Giovanni Solaroli

circa 9 anni fa - Link

solo per chiarire che io e il signore che si firma giovannimsolaroli non siamo la stessa persona. E credo che il soprannome Gabriel Suckling attribuito a Gabriele gli sia stato affibbiato da me per la prima volta. Non che ne abbia il copyright, ma solo per chiarire che, pur avendo nomi e cognomi(così parrebbe) identici, siamo due individui differenti. Saluti.

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Emanuele

circa 8 anni fa - Link

Ma che sappiate...dalla vendemmia 2008 Castelluccio ha cominciato un percorso di "ritorno alle origini"? Cioè, negli anni a venire si tornerà a sentirne parlare come un tempo, o quasi?

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Mario Leone

circa 4 anni fa - Link

Mi pare che nei vini di Castelluccio di quegli anni sia importante l'uso dei carati nuovi, alias barrique. Ancora molta strada c'è da fare su un oculato uso di questi strumenti di cantina che richiedono una significativa concentrazione del vino base. Detto uso, anche per una occhiuta campagna di stampa in tal senso, é andato tramontando. Così come le basse rese per pianta e per ettaro, il ritorno all'alberello, il sovescio ed un arricchimento minerale dei terreni... Qualcosa di interessante si vede anche oggi. Penso ad esempio alle selezioni di un grande enopolio, intensamente fruttate, meritatamente evidenziate dai tre bicchieri di una nota guida. Peccato presentino imbarazzanti nomi di fantasia e non legati ad una menzione geografica aggiuntiva, né alla vinificazione separata delle uve di un cru. Il mancato apporto del rovere nuovo potrà incidere sulla durata nel tempo dei vini in questione?

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