Ops, mi è rifermentata la bottiglia nel bagagliaio

di Jacopo Cossater

Il Bordeaux, o il Porto. Da sempre il vino viaggia e porta con sé il territorio in cui nasce. Il primo, la denominazione più famosa del mondo, si sviluppa grazie al fiorire dei commerci tra l’Europa continentale e la Gran Bretagna. Anche il secondo vede gli inglesi protagonisti, che dopo l’embargo dei prodotti francesi cominciarono a guardare altrove per nuove forniture di vino, in Portogallo per esempio. Vicende simili anche per l’italico Marsala.

Ecco, negli ultimi giorni proprio il trasporto ha pesantemente influito su alcune bottiglie di vino. Si parla di rifermentazioni spontanee, dovute probabilmente all’improvviso aumento della temperatura. Eppure ho controllato fuori dalla finestra, l’estate sembra ancora lontana dall’arrivare. Nel primo caso, era un Sauvignon, pare che proprio non fosse più lui, così diverso dagli standard cui ci aveva abituato. Nel secondo, praticamente un Lambrusco, erano proprio saltati i tappi. Troppa carbonica, pare.

Volendo a tutti costi classificare, entrambe le bottiglie andrebbero inserite in quel contesto che viene normalmente definito “naturale”. Pochi interventi in cantina quindi, con il rischio però di far uscire vini non completamente stabili. Il vino è però da sempre cultura e conoscenza, sembra un paradosso non possa viaggiare da dove viene prodotto a dove viene consumato. Dovessi scegliere, preferirei qualche trattamento in più in cantina e la possibilità di portarmelo a casa. Magari nel bagagliaio, d’estate.

[Foto “L’urlo” Flickr/G|o®g|o]

Jacopo Cossater

Docente di marketing del vino e di giornalismo enogastronomico, è specializzato nel racconto del vino e appassionato delle sue ripercussioni sociali. Tra gli altri, ha realizzato i podcast Vino sul Divano e La Retroetichetta, collabora con l'inserto Cibo del quotidiano Domani e ha cofondato il magazine cartaceo Verticale. Qui su Intravino dal 2009.

7 Commenti

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bacillus

circa 14 anni fa - Link

E' pur vero che negli ultimi anni il paradigma del trasporto del vino è radicalmente cambiato. Ormai è diventata indispensabile (almeno per i prodotti di qualità) una vera e propria "catena del freddo". In questo modo è possibile mantenere la bottiglia sempre nelle migliori condizioni di conservazione, sia dal punto di vista microbiologico, ma anche (e direi soprattutto) dal punto di vista chimico-fisico (si rallentano i processi di ossidazione ed invecchiamento). Ma a questo punto mi vien da dire: li volevate "naturali"? Ed allora beccateveli! Quelle rifermentazioni (alcoliche o malolattiche che fossero) sono letteralmente una "botta di vita" :-) , sono la natura che si manifesta nella sua essenza e se vogliamo, nella sua potenza. E' qualcosa di affascinante. Ma il vino (che appunto NON è e non sarà MAI un prodotto "naturale") ci rimette alla grande. Butto lì una considerazione tecnica su cui riflettere. Uno degli aspetti più caratteristici dei cosiddetti vini naturali è la fermentazione alcolica senza l'utilizzo di lieviti selezionati (attenzione, non ho scritto lieviti "indigeni" o "selvaggi" per motivi ben precisi che ora non sto ad approfondire) ed ovviamente senza attivanti di fermentazione (azoto, tiamina, ecc.). Ebbene, in questo caso le fermentazioni possono molto spesso risultare non "ideali" e quindi il rischio è quello che nel vino restino significativi residui di zuccheri fermentescibili. Tale residuo, che può del resto rappresentare un componente importante del gusto – anche nei vini secchi, è la base su cui si innesta con facilità una rifermentazione, soprattutto in vini poco alcolici e poco acidi (e magari con poca – o niente – solforosa). La "naturalità" dunque è molto rischiosa... soprattutto per il consumatore.

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Antonio Tomacelli

circa 14 anni fa - Link

Potrei però citarti il caso del Primitivo di Manduria, nettamente all'opposto. Gli "indigeni" di Manduria arrivano tranquilli fino a 18° senza morire, lì dove un selezionato "stecchisce" a 16°.

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bacillus

circa 14 anni fa - Link

Non ne sarei tanto sicuro... Tieni conto, Antonio, che nel corso della fermentazione si attua un processo di "selezione naturale" (maledetto Charles, sei proprio dappertutto!), per cui si selezionano appunto gli individui che nella successione delle generazioni presentano le migliori caratteristiche di resistenza all'alcool. E questo naturalmente vale anche per i lieviti selezionati dall'industria. Quanto ai lieviti "indigeni" ho la sensazione che sia un mito tutto da verificare. Perché in effetti di lieviti sulle bucce delle uve ce n'è veramente pochi. Quelli che in realtà fanno partire le fermentazioni sono i lieviti rimasti dall'anno precedente sulle pareti, negli anfratti, nelle attrezzature non perfettamente lavate e disinfettate. Detto questo, mi pare difficile dunque parlare di lieviti "indigeni". Bisognerebbe verificare caso per caso, ma la probabilità che quei lieviti siano i discendenti di lieviti "industriali" è molto alta. Possono essere, per dire, anche lieviti portati in cantina mangiando un panino... Certo, c'è la differenza che il "pool genico" dell'ecosistema "cantina" è ampio e varigato. Ma che si tratti di roba "autoctona"... posso avere dei dubbi?

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Pierpaolo Rastelli

circa 14 anni fa - Link

C'è una felice definizione di Armando Castagno a proposito dei lieviti non selezionati: lieviti "sconosciuti". Trovo sia particolarmente appropriata.

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Armando Castagno

circa 14 anni fa - Link

Pierpaolo, la definizione ("lieviti incogniti") non è mia, ma del professor Jim Manning, riportatami dall'amico e collega Luca Mazzoleni. Diamo a Cesare.

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Pierpaolo

circa 14 anni fa - Link

Sia dato. Io l'avevo letta da te, tra l'altro l'ho riportata anche male, anche se il senso cambia di poco. A questo punto potrei tenere per me "lieviti sconosciuti". :-)

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giulo

circa 14 anni fa - Link

Sfidando le ire del Bernardi, mi permetto di segnalare una riflessione del prof. Farris, dell'Università di Sassari, relativa ad una possibile definizione di lievito autoctono: http://www.infowine.com/default.asp?scheda=9301 @Jacopo relativamente al "caso lambrusco", suppongo si trattasse di un frizzante cosiddetto "tappo raso"; in questo caso, più che un problema di stabilità microbiologica, è probabile che si sia trattato di un aumento di pressione, che è proporzionale alla temperatura, oltre le capacità di tenuta del tappo.

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