Il Moro di San Giovanni | Prove tecniche di grande vino

di Andrea Gori

La ricetta pare ormai collaudata: prendi un imprenditore ben avviato in altri campi, una regione bellissima e dal nome altisonante (tipicamente la Toscana) e pianta Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc a pioggia, Petit Verdot giusto se vuoi. Già che ci sei, aggiungi etichette molto particolari, raccogli qualche 90+ da Parker (PDF) e il gioco è (quasi) fatto. In genere però manca il vino.

A differenziare questa operazione dalle tante che si perpetuano in questa terra (ma se ci pensate bene succede anche in Francia o comunque in zone che suonano bene) c’è la testa, e un po’ di mano, di Andrea Franchetti, il barone rampante del vino italiano che salta dal Veneto alla Toscana e poi in Sicilia in cerca del miglior vino del mondo. In effetti non siamo poi così lontani da Trinoro (e quindi in Val d’Orcia e per dirne un altro, Podere Forte) ma i risultati ci sembrano meno parossistici e più facilmente comprensibili, senza contare che i prezzi hanno un zero in meno (dai 400 euro a bottiglia qui siamo attorno ai 40).

L’azienda “Moro di San Giovanni” nasce solo nel 2002 per un’idea della famiglia Cameli di Genova, in quello spazio lunare che sono le Crete Senesi, che comprendono molte delle classiche colline da cartolina toscana. I terreni sono argilloso e calcarei  con varie configurazioni che permettono di coltivare 2 ettari di Cabernet Sauvignon a San Giovanni d’Asso, 0,7 ettari di Cabernet Franc a ridosso della casa al podere il Moro (insieme a del Petit Verdot) e infine a Monticchiello altri 2 ettari di promettente Petit Verdot. I vini sono in realtà due: il Fiore del Moro, sorta di second vin che esce solo nelle annate piccole, e appunto Il Moro, il grand vin aziendale. Vediamo come si comportano in questa primissima verticale.

Fiore del Moro 2006
Cupo e ricco di tanti aspetti, con la frutta nera boscosa a farla da padrone ma arricchita di un carnet speziato di tutto rispetto, sandalo, ginepro, pepe, alloro e tostature delicate di cacao del Madagascar. In bocca siamo quasi all’equilibrio, con la bella acidità che si mantiene e un minerale delicato; l’alcol fa il suo e regala una bevuta impegnativa ma che si affronta volentieri perché nonostante tutto sa essere un vino da bere, molto lontano dall’idea dei supertuscan tutti muscoli. 88
Il Moro 2007
Il naso ha le tostature del legno il cui fumo esce dal camino (quello della casa in etichetta), e un incalzare balsamico che fa tanto inverno, con le essenze preziose per casa: resine, pino mugo, cere. Profondo rosso e nero di cassis, prugna e mora con appena un refolo di buccia di peperone e pepatura rossa. In bocca non è così imponente come ti aspetteresti, ci sono alcol e tannino in abbondanza ma non stancano grazie alla freschezza e alla voglia di capire dove questo vino vada a finire. Ma la piacevolezza del tutto è innegabile, e il palato rimane incantato e sedotto – e non della sola potenza. 88
Il Moro 2008
Resina, pomodoro e legno di castagno, ribes rosso, bocca molto fresca, non corposissimo, bel finale ma non indimenticabile. 84
Il Moro 2009
Il cabernet sauvignon aumenta sua percentuale: ribes rosso e bacche, boscoso lieve, molto ricco, fumè e china, senape, nel finale il tannino in evidenza non del tutto risolto, probabilmente da attendere ancora qualche mese. 83
Il Moro 2010 (anteprima)
Uve in percentuale equilibrata, tra cabernet sauvignon e franc, più un saldo di petit verdot (soprattutto quello da Monticchiello). Il vino è mentolato e vibrante, la bocca è di una intensità impressionante, finale succulento e lunghissimo dove emergono china, amarena e tabacco: grandissimo tra un paio di anni ma anche a ottobre quando uscirà. 88+

Le etichette quasi naïf e cinematografiche di Paul Harbutt ci trasportano in una dimensione intimista, bucolica, contadina ma anche moderna e accattivante mescolandosi spesso con le impressioni che escono dai bicchieri. La volontà dell’azienda prevede di non andare oltre le 18mila bottiglie prodotte e ciò consola, perché siamo piuttosto sicuri che il percorso non divergerà dalla cura estrema del vino. La progressione della finezza è, annata dopo annata, (compresa la difficile 2009) continua e avvertibile. Tranne pochi locali che lo servono, il vino si pone in vendita direttamente al pubblico di appassionati, che si suppone esistano sempre per questi progetti. Attendiamo curiosi il lancio, a fine maggio, del Blog del Moro, sorta di diario-racconto in prima persona dove il vino narrerà se stesso e la sua vita.

Andrea Gori

Quarta generazione della famiglia Gori – ristoratori in Firenze dal 1901 – è il primo a occuparsi seriamente di vino. Biologo, ricercatore e genetista, inizia gli studi da sommelier nel 2004. Gli serviranno 4 anni per diventare vice campione europeo. In pubblico nega, ma crede nella supremazia della Toscana sulle altre regioni del vino, pur avendo un debole per Borgogna e Champagne. Per tutti è “il sommelier informatico”.

3 Commenti

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she-wolf smelling blood

circa 12 anni fa - Link

Ma certo, perché no? La fregola di fare il miglior vino del mondo colpisce anche i piani alti dell'aristocrazia. In un posto famoso per il tartufo bianco e il pecorino ci si può piantare anche la vigna. Saggiamente il barone-imprenditore ha scelto vitigni meno rischosi e più di richiamo, il Sangiovese lasciamolo alle colline limitrofe con più esperienza. Tempo qualche anno ed ecco i vini rivoluzionari belli e pronti. Corposi, succosi con quel tocco trendy che dona piacevolezza e non solo potenza. Non sia mai che vengano confusi con produzioni simili extra-territoriali. Le etichette poi. Giustamente naif e bucoliche e al contempo moderne, accattivanti, fuse con il loro contenuto, sono proprio irresistibili. Al prezzo stracciato di 40 euro a bottiglia faranno il fumo fra quel pubblico di appassionati che esiste e non aspetta altro. Magari qualcun altro copierà l'avventura senza paura del Barone. Piantando vigne in terreni argilloso-calcarei fra le brume dell'Asso. Una garanzia di successo. Auguri!

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Andrea Pagliantini

circa 12 anni fa - Link

Piantare Sangiovese nel lungo borro era sinonimo di troiaio ben riuscito, quindi il "ben avviato in altri campi" si è inorgoglito a fare vino creativo nelle crete argillose e calcaree certo magari di essere ben pompato da degustatori che spesso sentono nel bicchiere sottofondo di zecca di stato oltre al peperone verde molto sfumato.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 12 anni fa - Link

Ma, siamo proprio un paese strano. Ogni poco c'é qualcuno che arriva da Urano o da Giove, e scopre che si può fare il vino in qualunque angolo d'Italia. Sai che scoperta! Ma possibile che questi valenti esploratori spaziali non pensino mai che se secoli, o millenni, di esperimenti enologici hanno portato a concentrare la vite solo in pochi poggi qualche motivo ci doveva pur essere? San Giovese ci protegga, che tanto a loro pensa Santa Cisterna.

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