Verticale in 10 anni di una birra: la Extra Brune di Maltus Faber

Verticale in 10 anni di una birra: la Extra Brune di Maltus Faber

di Fiorenzo Sartore

L’ignoranza è la mancanza di stimolo a voler imparare. Questa affermazione, che non è mia ma di Lorenzo Dabove, è alla base di ogni possibile ignoranza. Per lasciare dietro di me l’ignoranza sulla birra ho iniziato il percorso necessario, anche se no, non sono arrivato ancora a nessun tipo di consapevolezza, quella credo non sia nemmeno la meta del viaggio. Lo stimolo a voler imparare mi ha portato, qualche sera fa, alla verticale di dieci anni di Extra Brune (è il nome di una birra, sì) a casa di Maltus Faber.

Il birrificio genovese si trova a circa quindici minuti di dueruote dalla mia bottega – e questo è il solito fatto chilometrozero, ci vado volentieri anche per quello, mi manca ancora lo stimolo a volermi allontanare di più – che determina, ci giurerei, un altro tipo di ignoranza.

Dieci anni di birra? Davvero? Si fanno le verticali di birra? Sì e no. Kuaska (è il nome con cui tutti conoscono Lorenzo Dabove, l’uomo-comunicazione della scena birraria artigianale in Italia) precisa da subito che alcune birre, che sono state la fonte prima del suo amore in Belgio, si prestano a questo tipo di assaggi, così come accade comunemente nell’enomondo. Ma anche no, in Italia la legge prevede una data di scadenza, tecnicamente non si mettono in vendita prodotti scaduti, quindi è un mondo complicato. Lo sapevate già, certo.

Il birrofilo non si cura di quell’aspetto legalese, sa di avere tra le mani qualcosa di valore, lo mette da parte e aspetta.

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Extra Brune è una gloria locale per diversi motivi: pluripremiata, tecnicamente si rifà alle Belgian Dark Strong Ale, uno stile del cuore per Maltus Faber – nel birrificio ci sono due bandiere, quella della Repubblica di Genova, e quella del Belgio. Ha colore scuro e potenza alcolica insolita, 10 gradi, soprattutto morbidezza, anzi dolcezza, che assieme alle note tostate condiziona la beva: birra da formaggi piccanti, cioccolato, certamente birra da comfort. Ed è appunto una delle etichette simbolo di Maltus Faber: dieci anni fa qui è cominciato tutto, adesso si torna indietro coi ricordi. Ora come d’uso riverso un po’ di appunti, partendo dall’Extra Brune più giovane, anzi infanta.

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1 mese. Un po’ poco in bottiglia per esprimersi, infatti sta molto sui toni tipo caramella mou e miele, insomma maltata assai. Dolce molto suadente, e (normalmente, data l’età immatura) poca carbonazione, cioè poche bollicine. Si introduce il concetto di watery: qui acquoso non sta nemmeno a definire un difetto, quanto un profilo di bevibilità leggiadra.

1 anno. Questa ha un certo caratterino al naso, aggressivo da verde e quasi selvatico. K. rileva una vena pepata, dovuta ad un tipo specifico di lievito. Rispetto alla precedente è, manco a dirlo, clamorosamente più buona, anche per quella complessità da caramello e miele di castagno.

2 anni (2015). Versione alla spina: torna la cosa del watery, la scorrevolezza in bocca pare aumentata dalla spillatura del fusto. La maggiore compiutezza si traduce in facilità di beva unita alla solita (vabbe’, avercene) gradevolezza da tostato e dolcezze varie.

5 anni (2012). Un salto consistente lungo il tempo significa un naso all’inizio un po’ più cupo, riottoso, pare quasi pellame, animalier insomma. Mi piace il colore brunito, cupo pure lui. Poi esce come una nota di fungo – “fungo secco nell’acqua”, metto le virgolette perché me l’hanno suggerito ma ci sta proprio, come descrittore. K. dice che la bocca è umami, è salmastra in finale, che assieme alla dolcezza finisce per dargli una botta di complessità esaltante.

7 anni (2010). Rabarbaro? China? Polvere di caffè? Quando negli appunti piazzo una serie di interrogativi significa che la faccenda si fa difficile – oppure che, non avendo sputato, l’alcol mette alla prova i sensi. In bocca la dolcezza si ricompone anche grazie ad una vena amara finale, e la carbonazione, qui curiosamente più accentuata, enfatizza il calore dell’alcol.

8 anni (2009). Tra il Porto e lo sherry, tra i funghi e la terra, poi alla fine arriva il miele amaro. K. dice che qui si entra nel territorio delle ossidazioni, ma non rilevo stanchezza né respingenza. Anzi, tutt’altro.

10 anni (2007). Ecco quindi il numero zero: il colore è brunito scarico e opaco, e lo sherry domina al naso, insiste ma in un modo che trovo più elegante rispetto (ad esempio) alle ridondanze di un Pedro Ximenez. Qui tutto è declinato in modo sottile. Forse troppo watery, regge appena il fiero cioccolato di Viganotti. Ma nessuno si lamenta.

Arrivati a questo punto della serata si sono aperte altre cose, birre ospiti, o Extra Brune sperimentali passate in barrique usate di Bricco dell’Uccellone per esempio, quindi versioni ancora più stratificate, se possibile, dello stesso concetto brassicolo. Tutte bevute di grande significato per me, anche se i miei appunti qui diventano un foglio bianco, ho smesso di scrivere. In realtà già alla terza Extra Brune Kuaska ci aveva indicato la via: smettiamola di farci tante menate e beviamola, ‘sta birra. Che in effetti assomiglia a tanti altri tipi di esortazioni al minimalismo che ogni tanto emergono nell’enomondo – con scarso seguito. Anche io ci ho messo un po’ a capire che dovevo smetterla con gli appunti, ma insomma, deve essere il famoso percorso. Fin qui, tutto bene.

[Disclaimer per un mondo migliore: io vendo questa birra, quindi già sai che devi fare. In chiusura invece ecco un simpatico siparietto]

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Fiorenzo Sartore

Vinaio. Pressoché da sempre nell'enomondo, offline e online.

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