Wineblogger per caso #3: Vinessum 2018 e la sua coda

Wineblogger per caso #3: Vinessum 2018 e la sua coda

di Thomas Pennazzi

Nella vita bisogna essere curiosi e anche se, oramai, le rassegne del vino naturale non sorprendono più nessuno, ed anzi sono sempre più frequentate e de facto inserite nel mainstream (se avete meno di 40 anni), ci si può divertire a percorrerle nella segreta speranza che la serendipità vi faccia trovare un bicchiere che sia valso il viaggio. Ed eccomi quindi a discendere mezza Via Emilia fino a Faenza per Vinessum 2018, nella probabile sede definitiva: l’austero convento di San Francesco a Bagnacavallo. Costruzione invero imponente, pur nella sua programmatica nudità francescana: qui arte non ce n’è, solo bianca calce e rosso mattone cotto dai secoli, figli poverelli di Sorella Terra.

Vinessum per la sua localizzazione è una giusta vetrina sui produttori dell’Emilia e della Romagna, che tanta parte hanno avuto e continuano ad avere nella scena bio-qualcosa, e nondimeno mostra un nutrito ventaglio di altri vignaioli sparsi per l’Italia ed oltremontani. Quest’anno poco meno di un centinaio, più una dozzina di banchi di cibarie: impossibile in un pomeriggio affrontarne più di qualcuno, ma mi ci sono provato.

Prima tappa, come è ormai mia tradizione, da Maccario-Dringenberg per salutare vignaiola e cagnone: solida certezza della rassegna romagnola, i vini di questa maison hanno un che di borgognone maritato al sole ed al sale di Provenza: qui un tempo si era in provincia di Nizza, non va dimenticato. Sono curioso dell’Amiral 2017, da rossese a bacca bianca e massarda, il quale non fa una piega rispetto ai fratelli rossi: vino terso e teso, sapido, dal retrogusto diresti anche di nocciola, il cui sorso chiama imperioso una buridda, ma che non disdegnerà il coniglio, più ligure di tutto il pesce del Ponente, lui.

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L’uccellino mi ha suggerito: Buscemi. E ci vado, in tutta ignoranza, perché sono un turista del vino, o se vi piace di più, un wineblogger abusivo. Cordiale accoglienza. La gentile signora mi serve un primo assaggio, mentre spolvero la mia memoria gustativa: Cormons, Collio, bianchi barricati che dopo mezzo bicchiere stomacano. E niente, già il primo campione sbriciola il mio pregiudizio: ecco il vino furlano in tutta la sua nudità e bellezza, smessa la veste francese alla moda che non gli si addice affatto. Alture 2016, pinot bianco di collina, è vino di onestà e precisione commoventi, mentre Alture 2004 in un sorso ti racconta del tempo e della sua azione sul liquido che un istante prima hai bevuto giovane; tu in errore già pensi, corrompente, lui ti spiega placido, nobilitante. I suoi frizzanti, Perle d’Uva 2016 e il fratello alla sciampagnotta Perle d’Uva 02/03 (imb. 2004) con ben tredici anni sui lieviti, seguono la stessa filosofia; con godibilissimo brio il primo, e biscottata complessità il secondo. Spiazzante il verduzzo 1988 Ossidazione Estrema, che rimane nervoso e assai bevibile sotto un manto color ruggine: vino estremo, non c’è dubbio. Il Braide bianco riserva massima 1999 è un monumento condensato in bottiglia, ed il mio pensiero nell’istante dell’assaggio è corso con grato affetto al Kellermeister Sebastian Stocker ed alle sue riserve segrete murate nelle cantine della Kellerei Terlan, i cui soci forse non compresero mai con quale monumento d’uomo avevano a che fare. I vini di Buscemi parlano lo stesso linguaggio: chissà se si siano mai incontrati, questi due notabili dell’acino. L’uccellino la sa lunga, e lo ringrazio!

In un’altra rassegna ero stato folgorato dal vino di un produttore, tale Jörg Bretz, che fa nel Carnuntum rossi opimi, in cui di vin vecchio empiendosi puoi bearti il palato. Urgeva andare a curiosare al banchetto di Vinai, il cui selezionatore, Tommaso Carboni, presentava una scelta di naturali austriaci. Non ho affrontato i bianchi, ma nei rossi c’era da spigolare: tra questi, Christian Tschida da Illmitz (Neusiedlersee) che è vignaiolo di tempra. Già guardando alcune delle sue etichette capite l’aria che tira: Non Tradition, Laissez-faire, Brutal. Di lui si sente raccontare: “Nessun ordine rigoroso, nessuna regola fissa, nessun dogma; i vini vengono lasciati soli. Così ottengono il loro equilibrio interiore”. Che dire? Un soggetto perfetto per Vinessum. Per quanto si dica e si faccia però, il territorio danubiano plasma il carattere alle uve: calde estati, inverni spazzati dai gelidi venti dell’est, il vasto lago come volano termico, terreni alluvionali e sassosi, undici ettari di vecchie e vecchissime vigne inerbite, dalle radici profonde, arma segreta di molti brillanti vignaioli, almeno credo. È vino selvaggio quindi, ma non selvatico, e di sicuro non piacerà a tutti. Infatti a me ne è piaciuto solo uno, Kapitel I (leggi Eins, uno) 2015, zweigelt e cabernet franc 50/50, dieci settimane di macerazione, né lieviti né solfiti né filtrazione, due anni di cantina che ne smussa gli spigoli e lo lascia di beva polputa, senza cedere in tensione. Se però non vi spaventano crestuti punk, skinhead anfibiati, e drughi dai bastoni animati, avrete vino per le vostre ugole. Ed etichette dalla grafica curatissima.

Ma il divertimento doveva ancora arrivare, a fiera chiusa: il post-Vinessum, evento esclusivo – dico per ridere – per pochi intimi, in realtà è stata una (non) banale cena per rilassarsi prolungando però le fatiche del gomito. Osteria di livello, e oste assai indulgente, viste le pretese degli ospiti di stappare del loro, e non poco. Capitiamo affamati, e si cenerà bene, tra chiacchiere e vini al microscopio. Per aperitivo, un prosecco Costadilà 450 pescato dall’enciclopedica carta dell’oste, deliziosetto pensando al piatto che ci attende; alquanto inferiore il suo fratello 280, cresciuto più in basso. In ombra un’Eclisse di Paltrinieri, forse una bottiglia infelice, e comunque troppo borghese per l’amico Andrea Marchetti (vèh, che noioso!), ma perché preoccuparsi? Plauso unanime per una boccia rifermentata offerta da Battista Belvisi (Abbazia San Giorgio), che, portata senza etichetta e senza commento, avresti giurato e spergiurato essere piacentina, se non fosse stato per quel gustino appena fuori contesto. Era invece grillo di Pantelleria, cresciuto ad oltre 450 metri, pensa te! Un capriccio di vignaiolo, ci ha confessato poi. D’incanto comparirà Giulio Armani (Denavolo), seduto pochi tavoli più in là, sbicchierandoci qualcosa del suo; ma faccio una fatica tremenda coi suoi vini eretici eppure per certi versi ammalianti, lo confesso. Girerà pure un Gattinara di Petterino che avrebbe meritato più considerazione, ma chi ha più sete, ormai? Il gran finale è romagnolo: se è buona creanza onorare i padroni di casa, nessuna lode sarà abbastanza ampia per il Nero Selva 2008, un pinot nero di Brisighella (Vigne dei Boschi) dall’incedere elegante ed armonioso. Sarà l’altitudine, il vignaiolo, l’età del vino, o l’Appennino, il segreto? Il pinot nero è vitigno capriccioso quanto una rossa adolescente ricciuta, e per quanto lo si conosca, non è mai domo; ma Paolo Babini sa lisciargli il pelo, evidentemente. Mica ci sono solo la Bourgogne e il Südtirol, nevvero?

(foto: Lorenzo Marabini)

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

1 Commento

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Spanna

circa 6 anni fa - Link

LeggerLa è sempre un piacere, questa volta di più. E alla chiosa finale con " nevvero", ho avuto i capogiri!

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