Wine blogger per caso #2. Vinessum 2016 al Castello di Mesola

Wine blogger per caso #2. Vinessum 2016 al Castello di Mesola

di Thomas Pennazzi

Bisogna essere un po’ matti per tornare la sera dalla Puglia, e la mattina dopo buttarsi in macchina e attraversare più di mezza padania fino al suo limite estremo per una fiera vinicola, avendo come unico interesse la propria curiosità. Non per aglianici né baroli, non per fiani né friulani, ma per vini naturali e dintorni.

La rassegna era pretenziosa, circa 100 produttori provenienti dall’Italia e Paesi limitrofi con una folta rappresentanza emiliano – romagnola a fare gli onori di casa; il luogo era altrettanto di pretesa, il castello di Mesola, una delle delizie estensi meglio conservate: questo è stato Vinessum 2016, una due giorni vinaria nel delta del Po, con la regia di Andrea Marchetti e Tiziano Ferriani.

Il pubblico è accorso in buona misura il primo giorno, nonostante il luogo alquanto fuori mano, mentre il lunedì si girava rilassati tra i tavoli in mezzo a gente più specializzata ed interessata.

L’occasione mi è stata preziosa per approfondire la conoscenza di questo tipo di vini, spesso oggetto di fiera partigianeria quanto di altrettanta avversione. Naturale è parola controversa: tuttavia il vino non lo è mai, essendo frutto dell’artificio umano; è quindi difficile trovare una definizione che renda tutti concordi. Era il caso di far parlare i bicchieri.

Per me, ignorante delle cose del vino, l’approccio a queste bottiglie è stato molto easy: libero da catechesi e teologie enologiche, ho scorrazzato tra i tavoli un po’ a casaccio, un po’ con la bussola di qualche amico pratico per non perdersi inutilmente, con lo scopo di capire meglio questo mondo in apparenza bizzarro, ma che talvolta lo diventa di sicuro.

Ne ho ricavato qualche impressione. La prima, più generale, che potrei definire il filo conduttore della rassegna, ma che probabilmente è il carattere di fondo di questi vini, è stata la grande bevibilità di molti. Dai rifermentati, che offrono un approccio più sbarazzino, ai vini fermi, ho trovato raramente qualche bottiglia da lasciare intatta. Pressoché tutte si potevano vuotare senza pensieri e senza fatica al palato. Correndo col pensiero agli inchiostri pugliesi dei giorni prima, un fresco sollievo spirava da questi calici ‘naturali’.

Un’altra, altrettanto generale è che ormai questa tipologia di vini sta uscendo da un bieco dogmatismo e si è fatta adulta. Ci sono produttori storici e/o talentuosi che sanno quello che vogliono e salvo annate infelici ottengono i risultati sperati. Non è più il tempo delle puzze sotto il naso e dei vini francamente difettosi. Ma c’è un’agguerrita fetta di giovani vignaioli e non solo che sembra aver ancora le idee poco chiare oppure sta battendo sentieri estremi che non sempre conducono al bere bene. Sta bene, è legittimo, ed è un approccio che piace straordinariamente ai bevitori under 30. Però se proprio c’è un punto debole, l’ho trovato in questa categoria di vignaioli cervellotici, estremisti o filosofanti, che perdono di vista la soddisfazione di godersi il bicchiere, inseguendo qualche chimera vinificatoria, oppure uve bislacche, per il gusto del farlo strano o territoriale ad ogni costo. Il vino è musica, ed il rischio di scivolare dalle armonie schubertiane alla carta vetrata di Stockhausen è molto concreto tra i ‘naturalisti’.

Non ho sfiorato la questione biologico/biodinamico: di per sé lavorare rispettando maggiormente terreni e mosti è salutare, e offre una visione ai vignaioli tradizionali. Si può fare molto bene, e numerosi esempi ce lo dimostrano, anche seguendo il calendario biodinamico e le bizzarrie cornoletamiche, non lo dico da steineriano semi-convinto, ma da bevitore sorpreso. Quello che andrebbe compreso meglio dall’enologia mainstream è che l’arricchimento del terreno e della sua microflora con metodi ‘naturali’ giova alla salute della vigna, e di conseguenza al suo frutto. Sarà banale, ma ogni fermentazione, casearia, del pane, del vino, della birra, si fonda sull’attività del microambiente circostante. Preservarlo può essere utile sia al vignaiolo ordinario che a quello ‘bio’ e costa solo un poco di lavoro in più. Poi, fare vino buono è un’altra storia.

Nota di colore: alla rassegna partecipava, in veste di espositore, uno dei più fini nasi sulla faccia della Terra. Se vi domandate chi poteva essere, ecco la risposta: Nelson, un magnifico esemplare di cane di Sant’Uberto, al seguito della signora Maccario. È stato la felicità dei numerosi bambini presenti, e di tutti i cinofili che giravano per le sale. nelson_vinessum2016

Le mie degustazioni: non ho preso mezzo appunto mezzo, e ha poco senso parlare da incompetente ad un pubblico di intenditori. Però qualche bottiglia spiccava curiosa o per luminosità sui banchetti costellati da centinaia di possibili sorsi. Ve le racconto da nord-ovest a sud-est:

Domaine Mamaruta (Roussillon): vigne più che centenarie, ma vini giovani fatti da ragazzi. Parlando un grammelot franglais ci si intende, e mi descrivono cose interessanti: carignan, macabeu, muscat blanc à petits grains, che però difettano ancora un po’ di pulizia e precisione. Ma c’è trippa per gatti, se passate dalle parti di Perpignan. Cresceranno.

Maccario-Dringenberg: Rossese di Dolceacqua 2015, un classico senza compromessi, la bottiglia che vorresti godere a tutto pasto ogni santo giorno. Bisognerebbe giocosamente cambiarne il nome in Trinkerberg (Monte del Beone).

La brigata Piacenza: banco composito, pieno di belle sorprese e qualche conferma. La solida Stoppa, capace di vini profondi, le bottiglie concettose di Denavolo, una folgorante barbera ferma (2013?) di Andrea Cervini (Vino del Poggio) che fa la barbera come Dio comanda, e una malvasia con macerazione eterna, straniante al primo sorso, ma che poi te la finiresti d’un fiato; insomma tra bianchi e rossi c’è da divertirsi parecchio in queste valli.

Giù a rotta di collo per la Via Emilia: tappa d’obbligo da Vittorio Graziano. Il suo lambrusco grasparossa 2013 ha tutt’altra faccia dell’infelice anno 2014, ma ahimè, il mio cuore batte per il sorbara. Però il fermo Sassoscuro 13, da malbo gentile, da solo vale il viaggio in cantina.

Breve risalita al ferrarese: una seconda volta da Mirco Mariotti per i suoi vini delle sabbie. Cercatene la semplicità, i suoi rifermentati non sono monumenti, ma piaceri leggeri come la brezza d’estate. E poi la fortana del Bosco Eliceo di Mattarelli, un vinello con tutto al posto giusto (bolla, tannino ed acidità) che quella sera ho desiderato come non mai sulla mia anguilla ai ferri: matrimonio d’amore, territoriale allo spasimo. Oste malnato, non ne aveva nemmeno a pagarla oro!

In Romagna ritorno sul luogo del delitto: darei tutta una botte di albana per un calice di centesimino passito della Cantina San Biagio Vecchio. Riassaggiatolo, continuo a pensare che sia parente stretta del marzemino, quest’uva deliziosa e un po’ frufru.

Un salto a Montalcino, perbacco! Da Tiezzi la loro bottiglia più facile è anche la più simpatica. Finalmente un brunello che non ti stucca dopo un bicchiere: signori miei, il sangiovese non deve per forza avere le spalle larghe, e nemmeno la pancia. Ci fanno pure uno chardonnay niente male, questi diavolacci toscani: eresia conclamata. Urge inviare sul colle ilcinese un esorcista: ma so già che finirà ubriacato.

Umbria: Marco Merli, giovane vignaiolo, i cui vini non ho capito, forse è un mio limite, forse è un produttore troppo ‘talebano’ per il mio banale palato borghese. In ogni caso sa tirare fuori espressività da un territorio negletto e potenzialmente ricco di sorprese. Lasciamolo sperimentare, troverà la sua strada.

Per finire, Verdicchio di Jesi. Il mio peccato di gioventù si chiama Fazi-Battaglia, e le sue colpe ce le ha anche qualche vignaiolo di Matelica: è un vitigno che finora non avevo mai considerato di alcun valore. Le bottiglie base 2015 de La Staffa e della Fattoria Coroncino invece mi hanno riconciliato con la tipologia al primo sorso. Gran bei vini bianchi, senza se e senza ma: decidersi tra questi due calici è un giudizio di Paride. Meglio bere e tacere. E tornare ad approfondire, un giorno: so già che troverò ancora di meglio.

Che dire? Troppi assaggi li ho dimenticati, ma l’impressione generale è che il livello qualitativo dei produttori della rassegna Vinessum  sia definitivamente alto, pur senza esprimere vinoni (dopati?) da body-builder. Tra questi artigiani c’è molta attenzione al lavoro ben fatto in vigna ed in cantina, molto rispetto del terreno, del frutto e del vitigno comune o raro, tutte cosette da non buttare via. Se poi questo sarà il futuro del vino, non ne sono certo, ma se è una strada per riavvicinare ad una cultura del bere i giovani, siano benvenuti la facilità di beva, i rifermentati ed il torbido vino sur lie.

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

3 Commenti

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nico

circa 8 anni fa - Link

ogni vignaiolo deve inseguire la propria "chimera vinificatoria" che è poi l'espressione del suo prodotto come tutte le uve anche quelle bislacche se vinificate in maiera etica!!!

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Nelle Nuvole

circa 8 anni fa - Link

Esemplare esempio di scrittura classica. Come un dilettante del vino che sa tenere la penna in mano ed il naso nel bicchiere, riesce a trasmettere alcuni concetti chiave - "Naturale è parola controversa : tuttavia il vino non lo è mai, essendo frutto dell’artificio umano; è quindi difficile trovare una definizione che renda tutti concordi. " - A volte serve di più un outsider non ancora contaminato da pregiudizi che un insider scafato e conoscitore anche del colore dei calzini di tutti i vignaioli di qualsiasi denominazione. Lettura godibilissima e scorrevole, come gran parte dei vini assaggiati.

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sergio

circa 8 anni fa - Link

Incompetente? Non direi. Traspare una buona cultura ma, poi, la conoscenza dei super alcolici aiuta a capire i vini. Un palato comunque affinato ed una mente "più libera" ci regalano delle recensioni o racconti diversi. E per questo, per me, molto piacevoli. Non so se queste degustazioni siano alla Perullo, non credo. Ma, allontanandosi dagli schemi classici, forse tendono. Condivido il commento di Nelle Nuvole che chiarisce in modo efficace e meglio la mia opinione. Anche in un altro post sul vino invitai Thomas Pennazzi a degustare senza nessuna guida per lasciare il palato e la mente il più liberi possibile.

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