Vinessum 2017, il fascino indiscreto della fiera integralista

Vinessum 2017, il fascino indiscreto della fiera integralista

di Thomas Pennazzi

Da Ventimiglia al Carso, dalla Franciacorta al Salento, l’Italia (e un briciolo di forestieri) un poco anarchica e talebana si è ritrovata a Bagnacavallo, un tempo luogo di guadi, in questi due giorni da poco trascorsi anche di vino. Nella severa cornice del convento di San Francesco, luogo imponente per struttura quanto essenziale, si è svolta la quarta edizione di Vinessum, la fiera del vino oltranzista par excellence: più di Fornovo, più di Vivit, più di Vini Veri, ha accomunato produttori e bevitori uniti da una visione faziosa della bottiglia, non priva di un certo fascino. Perché di fazione si tratta: anzi di un movimento, con tanto di manifesto programmatico.

Importa? Ad alcuni sì, e lo dimostrano le infinite discussioni e prese di posizione accese, perfino feroci, che si scatenano non appena si pronunci la fatidica parolina «naturale». Ma, ormai lo sapete, a me che #nonsonounwinebloggher poco o nulla interessano invece, e mi regolo di conseguenza: se mi piace, il vino scende, altrimenti lo sputo. Beata ignoranza? Forse.

I produttori della due giorni nel ravennate aderiscono, chi più chi meno, a questa corrente settaria dell’enologia: distinzione che, francamente, oggidì dovrebbe essere stata metabolizzata e digerita anche dal grande pubblico. Questi vini esistono dignitosamente: co-esistono, ed in parecchi casi pre-esistono (come tipologia) al vino di matrice convenzionale.

Gli assaggi che ho condotto, all’inizio con presunto metodo da degustatore, andato in vacca al quarto banchetto, ed ancor di più una volta incontrato il patron della manifestazione, Andrea Marchetti, che mi ha trascinato qua e là senza che potessi opporre la minima obiezione, e tantomeno ricordare poi cosa avessi bevuto, hanno confermato la mia opinione di vini ormai nel pieno della maturità espressiva. Del resto ciò mi era chiaro fin dall’anno scorso.

La gloria di questa filosofia enoica risplende fulgida nei vini definiti ancestrali. Che di ancestrale tuttavia hanno solo il ricordo, considerando la migliore igiene in cantina, la migliore istruzione del vignaiolo, ed i migliori macchinari: se i «talebani» disprezzano con più di una qualche ragione la fito- e l’eno-chimica, sono però dotati molto spesso di ottima enotecnica. Il loro vino non può che essere diverso da quello dei loro nonni per la somma di queste ragioni, colturali, culturali e meccaniche.

Non voglio qui prendere partito, ché sarebbe far torto a troppe bottiglie, ma quando sotto questo clima rovente il bicchiere ti viene colmato di uno spumeggiante vinello rifermentato in bottiglia, appaghi la vista, la sete ed il gusto in un colpo solo, e lo vorrai finire in un amen: sono calici che non si sputano mai!

Che siano malvasie o barbere, lambruschi o pignoletti della Legione Emilia (ed invero la Via Emilia – con virtuale prolungamento rettilineo fino a Casteggio e deriva verso Comacchio – dovrebbe essere ribattezzata Via della Bolla), oppure la Liga Veneta di prosecchi col fondo, durelli e garganeghe, tutti questi vini fatti o rifatti all’antica regalano un piacere di beva immediato e popolano, da osteria, dove l’aspro, il torbido e l’amaro si fondono con la gioia del frizzante e con l’acidità tagliente, che ti fanno vuotare le bottiglie in men che non si dica. E se volete eno-filosofarne, sarete spernacchiati dall’allegro tavolo accanto al vostro.

L’aspetto che mi ero ripromesso di indagare, senza risultato, erano i vini del Sud: anche qui qualcosa si muove, più lentamente, ma il movimento prende radice. Giovani e meno giovani intraprendenti, un briciolo di investimenti in più dei loro padri, maggiore coscienza dello sterminato patrimonio di vitigni che hanno sotto i piedi, e voglia di sfruttarlo in maniera più razionale o anche solo sperimentale: gli elementi ci sono tutti per garantirci sorprese da qui a dieci anni. Puglia, Calabria, Basilicata, e Campania hanno ancora molto da raccontarci, anche nel vino naturale. Qualche curiosità, accanto a consolidate certezze, c’era. Le isole sono più avanti di un bel po’ invece.

L’anno scorso nelle mie note concludevo con la parola chiave “bevibilità”; non mi dispiace aggiungervi stavolta “imprevedibile”. La natura mutevole delle fermentazioni indigene, l’evidente segno delle annate, la minore possibilità di correggerne i difetti, rendono questi vini non certo facili da bere, e tantomeno roba per tutti i gusti, in particolare quando si vira sui bianchi a lunga macerazione, sconcertanti per i palati borghesi come il mio. Bisogna tornare a scuola, con umiltà.

Il parallelo con le birre acide, di cui ho ancora caldo il ricordo, viene spontaneo, e calza alla perfezione, quest’anno anche per i luoghi claustrali degli eventi. Quando tutto va in fila però, e il vignaiolo sa il fatto suo, questi vini sedicenti naturali vi inchioderanno al loro fascino. E capita sempre più spesso, da Ponente a Levante e da Tramontana ad Austro.

(foto: Andrea Marchetti)

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto non può ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito, e da qualche anno ne scrive in rete sotto pseudonimo.

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