Vienna, una piccola guida algebrica

Vienna, una piccola guida algebrica

di Emanuele Giannone

Giorno.
Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia, sono quasi arrivato. Sapete, a me nei paesi di lingua tedesca mi scambiano spesso per francese. Me chiameno messié: a me, capito? Accadeva già quando abitavo in una See-prima e in una Leopold-poi-Strasse. Agli omoglossi di Hundertwasser e Beckenbauer suonavo più aborigeno dell’andouillette che della pajata. Si tratta probabilmente di un bias euristico-affettivo dovuto al finale di cognome, o forse ai modi da respectful-foresto più che da italo-disco, uno che cede il posto sulla U1 a the Elderly e alle Signore, un foresto discreto, seriamente interessato agli affari suoi o a guardarsi intorno, un collezionista di momenti e sguardi come il clown delle Opinioni; eventualmente anche alle proposte di un oste o cameriere, questo cliente che nelle attese attende più a Zeitungen e Kindle che al telefono; ebbene, forse questi modi sabotano l’archetipo del bienvenido amigo turista europeo del Sur, ¡bienvenido a Austria!, ¿Quizá conozca usted Viena? Es decir Strauss y Mozart (junto a sus bolas), Franz Joseph y Sisi, Wienerschnitzel, Sachertorte, Radetzkymarsch, Klimt y Kleibert, Prohaska y Pressehaus, valzer y Otto Wagner, K.u.K. y escuela española de equitación y el parque de atracciones más antiguo del mundo. E dolci ricordi di gite al liceo e fughe segrete al Revue e poi passa la gioventù, ecco al suo posto concerti di Capodanno, Zubin Mehta, il Bel Danubio Blu e persino un concerto di Mireille Mathieu, pure quello al Musikverein. Esta es Viena. ¿Usted no conoce? No worries, amigo. Nosotros la vamos a presentar ahora. Espero que usted estudie el menù con atención, entonces hablaremos. Menu en français? Voici les entrées. Menù in italiano? Ecco, Signore! Andiamo!

Il gastro-hype a Vienna non è pervasivo. Qui non imperversano gli accalappiamandibole come fuori dai locali ai Monti, al Parione, su La Rambla o a Mykonos. Ciò aggrada molto al non-turista, o al casuale multilingual business friend, vago di dolcefarniente e girovagare al termine di un viaggio di servizio fino al termine della notte, un viaggio da Homo Europaeus al centro dell’Europa, cioè, per noi scemi idealisti, al centro della terra, quindi anche viaggio sentimentale di un viaggiatore cerimonioso: per me salire o scendere a Vienna è arrivare al mio, al nostro centro, alla mia algebra, alla mia chiave, al mio specchio, sebbene questo lo abbia scritto un extracomunitario al quale concederei beninteso asilo e cittadinanza immediati nella mia Insula Utopia. Gli scemi idealisti come me si emozionano quando sentono attaccare O Freunde, nicht diese Tӧne!: anche perché, proprio qui a Vienna, un compositore straniero diresse un dì la prima della sua Corale, sinfonia il cui recitativo, centosessant’anni dopo e ridotto per soli strumenti, ha dato un inno all’Unione Europea, bello senza eguali o quasi per la musica e sicuramente per il testo: il quasi lo riserviamo per la musica della Kaiserhymne di Haydn, che curiosamente fu cantata come inno prima a Vienna e nel suo Impero, poi a Berlino e Bonn; il testo, per chi lo ricorda e ne trascura l’omissione bruxellese, è di un poeta che aborriva i siam pronti alla morte e gli êtendards sanglants e cantava piuttosto la gioia, magia che riunisce ciò che la moda ha diviso; e le moltitudini che si abbracciano; e più volte il vino, che della gioia è dono al pari dei baci e dell’amicizia.

Da noi, sia Roma o Milano, nei fori centrali non brillano più da decenni le vetrofanie cubitali di vecchi buffet e caffè, stranianti magie di pasticcerie dai nomi stranieri e ammalianti, gli Sluka, i Trześniewski, i Szamos, gli Hawelka. Da noi le strade al mattino hanno odori diversi da questi così particolari. I nostri sono più particolati. Anche da noi esistono d’altronde belle passeggiate per non-gitanti, per girovaghi al termine di un viaggio di servizio, per di più con le ore contate e viepiù preziose. Così, benché stavolta non vi sia tempo per il Quartiere dei Musei, il periplo del Ring, il Belvedere, tutto a tentoni come poveri ciechi, che movimento sia: io vo… tu vai… si va… perché soltanto andare in un mondo di ciechi è la felicità. Oggi il tempo è poco ma lo dilateremo: si parte dalla stazione del Centro che non è quella Centrale, si attraversa il ponte con le quattro teste di lemuri per entrare nell’Entre-Deux-Mers della cotoletta, quella sottile striscia di terra delimitata da Bäckerstrasse e Wollzeile. Se siete a dieta giratene al largo e riparate sulla Singerstrasse, dove ai salutisti e musicofili spetta il conforto di una libreria Leporello. Ecco Santo Stefano: dalla piazza della Cattedrale si leva di qua il tramestio di Graben, ma voi andate di là, Brandstӓtte, Tuchlauben, Seitzergasse, che innestano di colpo la sordina e la staccano solo per dar suono al passaggio delle carrozze. Ecco Parisergasse e, laggiù in fondo, una piazza.

Piazza a sorpresa. Piccolo, poliedrico corpo politico, poliforme e poliglotta, piccola grande storia di popolo e pogrom, di memorie coartate all’oblio e poi recuperate. È la Judenplatz, Piazza degli Ebrei. Qui c’è un Bieradies, gioco di parole su un presunto Bier-Paradies. C’è la vecchia Cancelleria Boema presso la Corte. Ci sono la Casa dei Locandieri Viennesi e la Casa Cooperativa dei Sarti. C’è una sacra salumeria al pianterreno della casa intitolata alla Piccola Trinità, cui è intitolata pure la salumeria. C’è un gran bel palazzo con un gran bel rilievo neogotico che gronda antisemitismo, celebra quello che fu salutato come un gran bel massacro. All’orrore che puzza di riflusso e ritorno in voga fanno diga una targa scoperta 570 anni dopo l’eccidio (vd. Note 1 e 2) e, accigliato sul suo piedistallo, l’illuminato e tollerante Lessing, quello di Nathan il Saggio, della religione naturale e di una parabola degli anelli che, in tempi più lucidi dei nostri, avrebbe più notorietà di quella tolkieniana. Sotto il monumento a Lessing si ferma in contemplazione una torma di ciclisti a lui evidentemente devoti. Tutti in silenzio. L’unico suono è, di nuovo, lo scalpitio dei tiri a due che risalgono lungo Schulhof da Santo Stefano. Silenziosi i vetturini, i passeggeri, i passanti. Seguo i ciclisti cambiare prospettiva e sostare velocemente di fronte al Museo Ebraico, poi muoversi molto più lentamente, molto più a lungo intorno al Memoriale per le Vittime della Shoah. Un parallelepipedo di libri muti perché ciascuno ha dorso e titolo rivolti all’interno, l’interno è inaccessibile, le porte fisse come i libri nella pietra scolpita. Il passaggio dall’Ebreo prima schernito all’Ebreo poi oppresso e infine soppresso è un ricorso che la storia registra in più riprese. Nella Judenplatz mi sono fermato a riflettere su quale tipo di momento sia quello corrente per concludere di averne paura. Al termine del viaggio di servizio ho ripercorso quell’itinerario. Ricordato quelle storie. Avevo ancora la sera davanti. L’ho raggiunta a piedi. Muto.

Sera.
Verso sera il rumore è più diffuso, nondimeno si differenzia dalle nostre familiari toniche, modali e dominanti motoristiche. Al suono della sera contribuiscono discretamente posate e stoviglie in continuo movimento nella summenzionata Mesoschnitzlania. Io quella sera ero mosso dal ricordo di una cotoletta sulla Bäckerstraße, dorata e lata quanto un Canada, tenera e succosa nel corpo sottile, croccante nel vestito. Tuttavia, a forza di fantasticar d’orecchie d’elefante, mi ero spinto oltre la destinazione impostata. Non avevo però avuto tempo di ricalcolare l’itinerario, perché, ripresomi dal sogno nella Weihburggasse, l’eletta via culinaris di Vienna, sotto la curiosa insegna dello Spazzacamino Bianco (Zum Weissen Rauchfangkehrer), questa mi aveva invitato a traguardare prima attraverso due vetrine, poi a sguincio nella porta aperta su un vestibolo, e infine in questo a fissar la carta esposta su un leggio. “È fatta” – ho pensato. “C’è posto?” C’era, e pure ampio, comodo e in uno stile piacevolmente rétro. Benché la leggenda voglia il nome derivante dalle incursioni del baldo spazzacamino nella bottega della mitica, bella fornarina, una versione più credibile lo accredita sbronzo fino al pass-out e caduto a ronfare in una tinozza piena di farina, quindi bianco alla sua ricomparsa dopo aver smaltito la sbornia. Leggendario è anche il profilo di molti avventori attraverso i tempi dalla sua apertura, intorno al 1848: Bernstein, Visconti, Paola del Belgio, Nurejev, Margot Fonteyn, Curd Jürgens, Peter Falk oltre a una folta schiera di pittori surrealisti e stelle hollywoodiane. Quattro sale, una delle quali con pianoforte, riservato però solo a chi sa usarlo bene, un menu solidamente incardinato sulla cucina austriaca e viennese, una carta dei vini che è un Bengodi, ricca com’è di un paio di centinaia di referenze tutte austriache – ma non solo, il perché si vedrà nel seguito – con laute appendici per le Collezioni Kracher e i distillati.

Prendo posto. Portano un assortimento di riviste. Grazie, per ingannar l’attesa leggendo, sia cortese, una birra. O una flûte di spumante. Scelga lei. Sceglie la unfiltriert Zwettler Zwickl, vispa, piena, rotondetta e amaricante, con una sterzata decisamente amara, rinfrescante e… Ricola® a fine sorso. La porta insieme al pane della casa in più versioni. La birra finisce quasi subito, anche il pane dura poco perché arriva presto l’amuse-bouche con una Brettljause in versione neanche tanto mini, assaggi di Wurst, Speck und Schmalz da maiali della fattoria bio Labonca. E capperi. E assaggi dei formaggi di Pӧhl al Naschmarkt, che è il più famoso mercato di Vienna (naschen viene sbrigativamente tradotto in italiano con sgranocchiare, ma denota piuttosto lo spiluzzicare con particolare goduria). Mi scusi, ci ho preso gusto: prosegua pure colla flûte, ché qui – vede? – qui ci ho ancora un poco di Feinkost. Arriva così la flûte della casa, il Mathäi Brut Reserve Stift Klosterneuburg, un arnese agile, spiritoso, ridanciano, una susina e una pera allegre e carboniche insieme a pain grillé, fragranti e dissetanti, nude perché c’è anche la foglia di fico. Mi scusi, io ordinerei, prima di distrarmi ulteriormente. Chiedo venia e lumi a proposito di alcune sibilline formulazioni in carta – l’austriaco è quasi un tedesco a sé per variazioni lessicali e di intonazione – e arriva un menu in perfetto inglese (sarà un caso ma è perfetto anche l’italiano del sito in versione per noantri). Porto via? No, no, lo lasci, dient als Wortschatzübung: faccio esercizio. Mi risolvo a ordinare d’impulso la Wienerschnitzel perché per lei, solo per lei mi sono messo in marcia, e dalla carta cantano sirene irresistibili, le temo, mi perderanno, mi lego quindi a lei e Mi scusi! Certamente ordinerò la Wienerschnitzel, ma prima ancora… un attimo, le dico, sì: Rinderkraftsuppe, il brodo (di manzo) di rinforzo. Allora glielo servo con un assaggio dei nostri Griesnockerl. Ah, grazie tante. All’idea degli gnocchi di semolino non ardo propriamente di passione, ma va bene, è andata. Per il vino mi affido a lei, ma solo un calice, ché vorrei variare. Ora è giocoforza ascoltare finalmente le sirene, posso leggerle, ah! Cupidigia e rimpianto! Le voci dei pesci e dei manzi, dei maiali e delle animelle, delle anatre e degli knӧdel chiamano ancora, da lontano, in diminuendo… e adesso che succede? Che profumo! Un crescendo rossiniano! E non è oltraggioso dirlo qui nella casa di Mozart e dépendance di Beethoven; infatti Rossini spopolò anche qui nel 1822, tenne 56 repliche al Kӓrntnertortheater e 7 al Theater an der Wien, relegando il secondo dei sommi sopra citati a popolarità secondaria. Insomma, chi canta? Ah, ma è questo, il brodo? E questi, che cosa sono? Ha detto Griesnockerl, Kaspressknӧdel e Fritate? E quel semolino in versione brunita, accanto al classico bianco? Ah, è con fegato. E quella bottiglia? Questa, Signore, come a lei è piaciuto comandare l’ho scelta io, ed è il Grüner Veltliner Federspiel Burgberg 2011, Weingut Karl Lagler (Wachau). Limone e pompelmo canditi, pesca, mango e pepe bianco, bocca cremosa e rotonda il giusto, fresca e regolare nello sviluppo, morbida nel finale di spezie e frutta bianche e dal nitido finale minerale e agrumato. Non morde, né dovrebbe, vista la struttura del piatto. Avvolge, accarezza e rinfresca. Il brodo è squisito e non sorprende che le Kraftsuppen (o Kraftbrühen) vantino qui quasi altrettanto rispetto, nonché adepti e letteratura, quanti nel mondo sino-nipponico. Ha un solo effetto collaterale: apre pericolosamente lo stomaco. Per fortuna arriva presto l’agognato trofeo, che rispetto al Canada ha le dimensioni pur sempre rispettabili di un Messico e non è altrettanto sottile. Ma che magnifica panatura, brillante e asciutta, saporitissima; e che carne squisita, succulenta e morbida. E quello, che sarà? Syrah? Sicuro? Va bene, lo provo (…) no, non si offenda ma… perché non un autoctono? Le dispiace? Ma si figuri, torno subito. E arriva un Blaufrӓnkisch, non nascondo un sorriso. È il 2014 di Rosi Schuster (Burgenland), che abbraccia la cotoletta con delicate note di frutti (prugna, albicocca) e una sapidità al suo passo, ne esalta fibra e succulenza con presenza misurata, adeguata freschezza e una punta acida-amara (aronia, rabarbaro). Lungo e persistente su note fini e dolci di frutti di bosco. Ma è già finito tutto? È durato così poco? Mi scusi di nuovo, io sarei a posto e anche di più, tuttavia mi parrebbe un’ingiuria cenare a Vienna ed escludere a priori un dessert (e qui la continenza si dissolve per un attimo nella luce forte di un miraggio dal nome di Kaiserschmarrn o Salzburger Nockerln, ma è roba che fa quasi pasto a sé, quindi rinvengo e…), mi consiglierebbe lei un capriccio in modica quantità? Mi permetta. E qualora desiderasse un vino in abbinamento… 

Sul Bel Danubio Blu e oltre.
Chi mi conosce un poco, sa indovinare la rosa della mia squadra al Fantacalcio. Eccola, in ordine sparso, senza titolari, né riserve predeterminati: Sgonico, Soccorso, Medana, Sanlùcar, Montosoli, Oslavia, C. De Lobos, Le Prata, C. Dell’Abate, Sanlorenzo, Vila Nova, con R. de São João, Bukovica, Zegla, F. dos Padres, Chambolle, C. Feduchy e Seixal a completare i ranghi.

Con una squadra (e una carta) tutta austriaca mi divertirei assai ma avrei prima bisogno di studiare i giocatori. Oltre ai tantissimi austriaci titolari, si vede però che lo Spazzacamino Bianco ha qualche campione straniero in panchina. Grande è stata quindi la sorpresa allorché, dopo una breve chiacchierata con il maître su come chiudere la partita, e lasciando a lui la scelta del modulo, mi sono ritrovato in compagnia di due beniamini e un campione ammirato solo sporadicamente (purtroppo).

Calcio d’inizio.
Non ricordo di aver mai letto una carta dei vini da dessert e meditazione desiderando di provarli tutti, prima di imbattermi in quella dello Spazzacamino Bianco. Il primo impulso è stato abitudinario: vedo rappresentata la triade dei miei fortificati del cuore, sto per chiedere una tripla mezza dose, in quel momento chi siede al pianoforte attacca qualcosa di lontanamente familiare, riemerge dall’infanzia un ricordo vago, salotto, giradischi Thorens, Largo Bradano, Roma, la persona cui devo il nome proprio e quello di famiglia mentre aziona il braccio, dev’essere un Lӓndler, dev’essere Schubert, anche lui era di Vienna. Così, mentre andava finendo la modica quantità, una ganache di cioccolato con purea di castagne e gelato di ciliegie, mi risolvevo a sacrificare uno dei tre beniamini (Jerez) in onore del genius loci.

La tripla mezza dose, io poi l’ho chiesta. Mi sono arrivate tre XL.

Malvasia Justino’s 10 Years (Madeira). Ho un debole per la Perla dell’Atlantico. Se posso scegliere, dico Sercial. Ma anche la “semplice” Malvasia di un produttore tra i maggiori può rendere la giornata più felice. Questa trova proprio nella semplicità il suo vero pregio: piena e intensa nel bouquet di cioccolato bianco, toffee, frutta candita, mallo e acqua salmastra, dolce e morbida al palato ma senza pesantezza, di trama fitta ma mobile, una carezza diffusa di crema, papaya e ananas canditi, caramello, nocciola e, toh, una sparuta e casuale acciuga. 10 anni, una ragazzina, estroversa e giocosa come spetta a quell’età.

Porto Barros Colheita 1941. Ho un debole per Porto. Se posso scegliere, dico Tawny, quindi figuriamoci una Colheita. L’ambrato scuro è un’illusione ottica: questo vino è verde di sedano, gerani, fichi d’india, rosa di rosoli, allitterato in benzoli benzeni e benzoini, verde e carnoso al sorso, pieno e fresco, di dolcezza intensa in attacco e pastosa sapidità in allungo, presenza statuaria, verde in persistenza assai più che dolce e lento nelle sfumature di iodio, noce e rancio nobile che accompagnano alla porta.

Kracher 2005 TBA #5 Zwischen den Seen (100% Scheurebe). E così Kracher ha brevettato quest’infuso folle di cere e mostarde, resine e albicocche, mango e senape. Pastosità e complessità normanno-sicule, o partenopee, di dolcezze salate. Goloso e fine, un’albicocca disidratata stentorea, poi erbe, champignon, resina, semi di finocchio, pancetta. Esordio barocco, dolce e vanigliato, poi sviluppo animato in crescendo e spettro aromatico in progressiva espansione, connotato da richiami alla frutta candita e in conserva, alle erbe e al caramello.

Triplice fischio. Decide l’arbitro, mica tu che sei giocatore. Con il conto l’arbitro porta il caffè, come richiesto, e a sorpresa un triplice fischio finale, una pera williams sublimata in aroma e trasparenza, o, per meglio dire, la denotazione di una pera williams. La fa Günther Rochelt. La Schnapskarte è splendida, conta oltre venti pagine, il caffè era molto buono, grazie, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia…

  1. La targa reca l’iscrizione di seguito tradotta (liberamente): “Kiddush HaSchem” significa “santificazione di Dio“. Consci di questo, gli ebrei viennesi si diedero la morte nella sinagoga qui a Judenplatz al tempo della persecuzione nel 1420/21 per sfuggire al battesimo forzato. Altri 200 furono arsi vivi su un rogo a Erdberg. I predicatori cristiani di allora propagavano odio e superstizione antisemiti e quindi perseguitavano gli ebrei e la loro fede. Soggetti a questa propagando, i cristiani di Vienna la accettarono senza resistenza e divennero così corresponsabili. Lo smantellamento della città ebraica viennese nel 1421 fu un segnale minaccioso di quanto accadde in Europa nel nostro secolo durante la dittatura nazionalsocialista. I papi medievali si ribellarono senza successo alla superstizione antiebraica e i singoli credenti combatterono senza successo contro l’odio razziale dei nazionalsocialisti. Ma erano troppo pochi. Oggi la cristianità si pente della sua complicità nella persecuzione degli ebrei e riconosce il suo fallimento. La “santificazione di Dio” non può che significare per i cristiani di oggi: “Richiesta di perdono e speranza per la salvezza di Dio”.
  2. Nei pochi giorni di stesura e revisione di questo testo ho stilato una rassegna dei fatti seguenti: le minacce e la scorta a Liliana Segre, i dinieghi opposti da qualche sindaco di un buco nero alla concessione a lei, sopravvissuta al campo di sterminio, della cittadinanza onoraria perché non ha fatto niente per la città, la simpatica riduzione del Viaggio della Memoria a iniziativa di parte, la profanazione del più antico cimitero ebraico in Danimarca, la manifestazione dei razzisti e suprematisti a Varsavia con invettive di migliaia di simpatici patrioti contro i gretti ebrei affamatori.
  3. Se avete in programma un nuovo viaggio a Vienna e non la visitate da un po’, non fate come me: prendetevi del tempo per rivisitare il Belvedere, il Kunsthistorisches, il Leopold e il Mumok. E l’Albertina? Beh, per quello ho trovato il tempo: sappiate che la Collezione Batliner è da qualche mese tornata a casa ed è ora esposizione permanente con il titolo “Da Monet a Picasso”. 210 opere esposte sulle circa 500 della collezione, supporti informativi abbondanti e ineccepibili, una visione d’insieme che abbraccia con dovizia di opere e notizie il secolo di Impressionismo e Post-impressionismo, Espressionismo, Fauvismo, Bauhaus e Avanguardia Russa. Immancabile per noi bibaci: c’è un caratello a firma Gauguin.
  4. Titoli e frasi rubate e inserite nel testo senza citazione esplicita: grazie per la pazienza a G. Caproni, Procol Harum, H. Bӧll, L.-F. Céline, P. Prodi, J. Verne, L. Sterne, J. L. Borges, A. Palazzeschi, T. Moore, L. v. Beethoven, F. v. Schiller, W. A. Mozart,

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

9 Commenti

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Massimiliano

circa 4 anni fa - Link

Pezzo bellissimo. Echi di viennesità in ogni riga, sembra di sentire un leggero valzer di Strauss che accompagna lieve la lettura. Schnitzler e Karl Kraus vanno a braccetto in una nuvola soffusa che sa di Mitteleuropa ormai scomparsa. Se Arbasino avesse scritto qualcosa su Vienna lo avrebbe scritto così.

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Emanuele

circa 4 anni fa - Link

Ti ringrazio. Vienna mi è cara. Forse sono riuscito a farlo intendere.

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JERMOL GROPPI ANDREA

circa 4 anni fa - Link

Ci mancavi così.

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Roberto Cerbino

circa 4 anni fa - Link

Molto divertente. E mi è venuta una gran voglia di provare tutto. Grazie.

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Endamb

circa 4 anni fa - Link

Sei un gigante.

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Giampiero Pulcini

circa 4 anni fa - Link

Pezzo assurdo. Montagne russe senza cinture con valzer negli auricolari a placare le vertigini. Grazie Emanuele.

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Emanuele

circa 4 anni fa - Link

E allora vediamoci al Prater: le montagne russe le mettono loro, il valzer io e tu porti da béve.

Grazie, Giampiero. Grazie davvero.

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Silvia

circa 4 anni fa - Link

Gratitudine per ogni singola riga.

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Emanuele

circa 4 anni fa - Link

Ma io, mi sa che io la conosco!

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