Val di Buri, il vino da tavola nato quasi per caso

Val di Buri, il vino da tavola nato quasi per caso

di Sabrina Somigli

Beviamo vino, non beviamo storie, né bei progetti. Bottiglia alla mano, il racconto serve a contestualizzare, divertire, appassionare il potenziale cliente. Poi il momento arriva, quello in cui il vino entra in bocca, ma non a parole. È li che si svela, e può dare significato e sapore a quelle storie oppure palesarne l’inconsistenza in cumulo di fesserie necessariamente alternative.

Senza bottiglia alla mano, davanti allo schermo di un computer, può avvenire il contrario, le parole contano più dell’assaggio descritto.

Perciò vino o storia? Geografia e taglio la testa al toro.

Siamo nella provincia di Pistoia, che non è certo conosciuta per la produzione vinicola. Capitale Italiana della Cultura tre anni or sono, Pistoia è nota per il vivaismo, settore nel quale è leader in Europa. E il vivaio, attività assai redditizia, ingloba e avanza, soprattutto verso la Valle di Bure di Baggio, a suon di teli neri pacciamanti, filari di vasetti allineati con piante ornamentali d’ogni provenienza, fitofarmaci e minacce dal punto di vista idrogeologico.
Nella provincia pistoiese la viticoltura non ha attecchito come nel resto della Toscana. Conifere nane e Lagerstroemia per giardini e vialetti battono sangiovese e compagni, colonizzando il territorio in lunghi filari fioriti, naturali quanto le spiagge bianche di Rosignano Solvay.

In questo territorio ci sono solo delle vigne qua e là, piccole, vigne “casalinghe”, che facevano parte di una economia familiare, al pari dell’orto. E proprio perché ad uso e consumo personale, risultano esenti da sempre da trattamenti chimici.
Oggi possono dirsi vigne vecchie a tutti gli effetti, miste delle varietà tradizionali toscane, bianche e rosse. Vigne del tutto incontaminate anche da viti straniere; adesso per lo più abbandonate, o addirittura destinate all’espianto.

È qui che Marina Ciancaglini e Giacomo Lippi, entrambi provenienti dal settore vinicolo, lato agronomico Giacomo, di marketing e comunicazione per varie aziende Marina; dicevo, è qui che vivono, a Baggio, nella Valle della Bure, appena fuori Pistoia in direzione nord est. Ed è qui che cercano una vigna, casalinga appunto, per farsi un trebbiano e berselo. Iniziano a chiedere in giro, e quasi per disegno del destino la trovano.

La voce si sparge velocemente e si presentano in molti a proporre la gestione delle loro piccole vigne di casa. In due anni, mettono insieme circa due ettari di vigneti sparsi tra la Valdibure, Casalguidi e Quarrata. Fazzoletti di terra che erano in attesa di qualcuno che si prendesse cura di loro.
Da due ettari si ottiene una quantità di vino difficile da assorbire in autoconsumo, da un nucleo familiare bimembre e pur assetato, da cui la naturale decisione di imbottigliare.

Bure Bianca, Bure Chiara (rosso) e Eco della Valle (rosato) sono i 3 vini di Val di Buri: nomi dalla forte connotazione territoriale, richiamata anche in etichetta. Il disegno raffigura stilizzato l’andamento della Bure, dei due rami del torrente che si incontrano a Candeglia, per poi attraversare la piana pistoiese fino a congiungersi con l’Ombrone.
La 2018 è stata la prima annata di produzione, circa 800 bottiglie in totale. Ormai finite da tempo, tutte. Sono riuscita ad acquistare di recente una delle ultime bottiglie di Bure Bianca per il rotto della cuffia dopo aver setacciato vari siti di vendita on line.
Tranquilli, sta per uscire la 2019, con una produzione raddoppiata, quindi Val di Buri non per tutti, ma per qualcuno in più si.

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La Bure Bianca è il vino su cui Marina e Giacomo puntano di più, ed anche il loro primogenito, quello da cui tutto è iniziato. Trebbiano, diraspato a mano, grappolo per grappolo. Un primo contatto uomo-uva fuori pianta molto delicato, cui non segue pigiatura. La fermentazione avviene a chicco intero in acciaio con una sosta sulle bucce di 7 mesi. La svinatura per tradizione a Val di Buri si fa il giorno di Pasqua. L’affinamento è in damigiane di vetro e i travasi fatti per caduta.

Bure Bianca 2018 è trebbiano bello e riconoscibile, articolato al naso e composito al palato, cui vien da dire buona la prima.
E se viene bene davvero alla prima può venire il sospetto che un po’ di fortuna c’entri. Ma è un sospetto sciocco da ottusi, (e questa me la prendo e zitta), serenamente spazzato via dalle parole di Marina: “La fortuna c’entra e non c’entra. Ne abbiamo avuta nel trovare le vigne, con una facilità quasi impensabile a priori, ma in cantina siamo molto attenti. Attenti a non fare niente. A lasciare il vino alla sua naturale evoluzione. Paradossalmente per intervenire il meno possibile gli devi stare sempre addosso”.

Sono parole che mi hanno colpito sul serio. Se lo ami lascialo libero senza mai lasciarlo solo.

Per poter bere ancora Bure Bianca dovremo aspettare un paio di anni, perché Giacomo e Marina hanno deciso per un affinamento più lungo. Uscirà comunque un bianco, il Forabuja, figlio della Bure Bianca, in versione più pronta già disponibile dal prossimo mese.
Bure Bianca, Bure Chiara e Eco della Valle si presentano come vini da tavola, così recita l’etichetta.

“Vino da tavola è una dicitura che mi piace parecchio perché lo ricontestualizza a quella che è la sua primaria funzione: stare a tavola” . Sante parole Marina.

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Sabrina Somigli

Chiantigiana di nascita, microbiologa di formazione, poi sommelier e ristoratrice per vocazione. Raccolgo erbe spontanee e non è colpa della laurea in scienze agrarie; amo il vermouth liscio e il brodo caldo ma non per questo so sferruzzare a maglia. Mi sono appassionata al vino più o meno vent'anni fa, quando lavoravo in Tasmania; ci rido ancora pure io, tranquilli. Credo nel bevi e lascia bere e raccontane se vuoi, ma sii breve.

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