Un algoritmo, vi prego, anche per classificare i generi vinicoli

Un algoritmo, vi prego, anche per classificare i generi vinicoli

di Pietro Stara

Non sto a farla lunga perché dalla regia mi dicono che qui siamo un blog. Sia che siate figli e figlie impure della Grammatica Universale e della separazione tra la sintassi e la semantica, sia che siate eternamente riconoscenti alla linguistica cognitiva e sociale di Burrhus Skinner e Jean Piaget, avete sempre avuto un fottutissimo bisogno di classificare le cose perché, pur non a Dio piacendo e, pur non a voi piacendo del tutto, vi ha aiutato ad inquadrare il mondo.

Inquadrare il mondo che è rotondo già la racconta lunga e indicherebbe, per la precisione, un nostro limite interno e la nostra pochezza almeno su questa Terra.

Ora immagino, ma posso solo immaginarlo, che chiunque di voi, al 100%, nessuno escluso, ami la musica, la ami in modo diverso e si riconosca in essa per quel tanto o per quel poco che l’ascolta o che l’abbia ascoltata: concerti, sotto la doccia, sopra la doccia, sopra la panca e a fianco della panca. Ovunque, dovunque, con chiunque e, soprattutto, comunque. La musica e con essa. Il vino e con esso.

Ebbene, quale musica?

Qualcuno mi dichiarerebbe l’autore, il musicista o i musicisti, l’ensemble, il compositore, ma poi, alla fine, andrebbe a finire sui generi: da ragazzo questi generi erano piuttosto fissi, irreggimentati, segmentati, non comunicanti e soprattutto divisivi (a calci negli stinchi per capirci). Io iniziai con i l punk (nella variante hardcore dei primi anni ‘80) perché suonavo la batteria e la suonavo talmente male che non fui tanto io a cercare il punk quanto lui me e, poi, il mio gruppo: la carriera finì assai presto e più precisamente quando un tale ci staccò la spina durante un concerto.

Poi iniziai a vagheggiare in altri generi, fino a confonderli, ad apprezzarne le vere o apparenti commistioni, gli interstizi, le indifferenze. Ma questa cosa dei generi ricadeva implacabile e impietosa sulle nostre vite sabaude: i punk a zonzo, i mods in piazza Statuto, i metallari davanti al negozio di dischi “Rock and Folk”, i dark in Galleria Subalpina e i paninari davanti alla prime timide e lerce hamburgherie torinesi. E così fu e così sia.

Adesso è tutto più complicato: vuoi la post-verità, vuoi la post-prodigalità, vuoi le lasagne scotte di mia zia, ma si fatica un pochino a identificarsi in qualche genere musicale soprattutto perché si fa un sacco di fatica a riconoscerli. Ma non mi sono perso d’animo ed ho scoperto che un vero genio del male, un tal Glenn McDonald, virtuosista dell’algoritmo musicale, ha tracciato una cifra di tutti, dico tutti, i generi musicali esistenti al mondo: 1264.

Ebbene sì sono 1264. Che vi piaccia o meno.

Il sito rockit.it ci spiega che “la mappa è stata generata con degli algoritmi che utilizzano le etichette usate dalla società The Echo Nest per catalogare la musica mondiale, e si naviga con questo criterio: la parte bassa è quella dedicata alla musica più “organica” e naturale, la parte alta a quella più elettronica, a sinistra c’è quella più “densa” e atmosferica, mentre a destra quella più “appuntita” e dinamica. Ovviamente sono dei criteri molto discutibili, ma proprio per questo è possibile visualizzare il tutto anche in un semplice formato lista”. Così possiamo saggiare alcune note dalla meravigliosa japanese jazztronica, fare due salti in padella con lo deep swedish hip hop e schizzare come delle trottolone impazzite dell’amore con la deep darkpsy.

Ma, se vi va, potete gustare, a piacimento, tutto qui.

Poi ho pensato al vino e a quella parte bassa dedicata alla musica organica e naturale; quindi alla parte alta, elettronica, chimica e talvolta un po’ sintetica; dunque alla sinistra, alla struttura, al corpo, all’artigianalità; e, infine, alla destra dinamica, appuntita, talvolta fresca, talaltra in fresco.

E’ che a noi, per dirla tutta, piacciono i generi.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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