Sotto a chi tocca. La gente del vino: Luca Santini (professione: direttore commerciale)

Sotto a chi tocca. La gente del vino: Luca Santini (professione: direttore commerciale)

di Alessandro Morichetti

Alcuni saranno famosi, altri lo sono già ma poco cambia: sono le persone che – a vario titolo: giornalisti, degustatori, blogger, sommelier, commercianti – ci aiutano a bere meglio, capire di vino, approfondire la nostra passione e divertirci. 
La gente del vino: sotto a chi tocca! Oggi è il turno di: Luca Santini.

 

Chi sei? Presentati.
Nasco bambino, poi cresco bambino grasso, amore per la lettura e per i “mattoni” vanno poco d’accordo con il peso regolare; poi adolescente dietetico; nel frattempo, le lingue mi vengono bene, sicché ho provato a studiarle – francese inglese e tedesco -; mi trastullo un po’ con l’idea di dedicarmi alla letteratura francese con regolare cursus accademico, idea che dura come un gatto sull’Aurelia, e tra una cosa e l’altra incontro il vino: quindi rallento il ritmo degli studi e mi ci butto a capofitto. Primo incarico: risistemare la cantina (proprio nel senso di: riordinare) di un piccolo ristorante di San Miniato, ridente provincia di Pisa. Ci vuole, prendere in mano le bottiglie, pulirle, accatastarle ammodino e ordinare il casino. Poi mi toccherà anche proporle e servirle in sala. Siamo al 1998. Nel 1999 esperienza importante: Gianfrancesco Cutelli, oggi Gelataio Sommo in Pisa e Lucca, compagno di corsi Slow Food, mi propone di affiancarlo nella gestione di sala di un piccolo ristorante che nasceva a Montecarlo di Lucca, l’Enoteca La Torre; nove mesi di eccitante contatto con “di là dalla barriera”, una carta dei vini ricca anche di bottiglie importanti, e un bello sguardo su problemi, ritmi, pensieri, realtà della ristorazione di buona qualità. Tutto molto bello, ma vita complicata per gli affetti. Decido allora di cercare un’azienda vinicola degna di questo nome, ritenendo che qualche anno di studio, assaggio, lettura, e degustazione sia già un bel viatico. Certo, come no.

Alessandro Nieri mi assume alla Fattoria Montellori, bontà sua; due anni di ottima gavetta, in una realtà con belle aspirazioni e problemi concreti, dove si deve gestire un registro di caricoescarico e un importatore tedesco, un assaggio con appassionati e la spedizione FOB verso gli States… accanto a straordinari consulenti, Colleen McKettrick, ex export manager Ornellaia e strepitosa donna del vino, in primis. Nel frattempo, l’Università di Firenze crea dal niente un Corso di Perfezionamento in Marketing e Management delle Aziende Vitivinicole, nel 2001, riesco ad entrare e mi si allarga la mente. Conosco un sacco di ragazzi e ragazze in gamba, che partiranno poi verso aziende importanti e soprattutto, fuor di metafora, esco dall’empirismo sano ma un po’ limitante dell’azienda con struttura padronale, per così dire. Mi prendo anche il Diploma di Sommelier A.I.S., entre temps.

A fine dicembre 2002, Cesare Turini mi assume alla Heres. Come prima cosa, incontro Gianluca Putzolu, neoassunto pure lui, con cui divideremo parecchi anni di fatiche, idee e una bella amicizia; come “addetto” ai mercati internazionali, lavoro con persone e aziende che fin lì avevo letto su guide, libri e riviste; niente male! È sempre un privilegio lavorare in realtà giovani e certo la Heres in quei momenti era una realtà innegabilmente vivacissima, una manna per chi doveva dare e imparare. Cesare mi ha dato l’opportunità di toccare con mano situazioni e progetti di rilievo, ci va tanta gratitudine in questo, anche quando le idee – e dunque le strade – divergono, dopo.

Nel 2006 metto a frutto anni di contatti e studio sulla Borgogna, trasformando e arricchendo un progetto già iniziato da Giancarlo Marino – eccolo -, e nasce la sezione Import della Heres, che gestirò fino al 2013, passando attraverso anche un periodo di direzione commerciale della distribuzione nazionale.

Da quasi tre anni ormai lavoro con Mario Galleni e Leonardo Stelloni, i soci di Teatro del Vino; li supporto nella gestione della rete vendita, delle vendite, ma anche nella selezione delle nuove aziende e dei nuovi progetti. Ruolo poco codificabile, ma non importa. Ho trovato una dimensione ideale, e lavoro per due persone di cui ammiro profondamente la sobrietà, l’eleganza di pensiero, l’onestà; il tatto e il tratto, si sarebbe detto in altri tempi. Un pochino anche grazie al mio lavoro, siamo cresciuti vertiginosamente, ma mi piace più pensare che Mario e Leo raccolgano i meritati frutti di anni di serissimo impegno, senza fronzoli ma con badilate di sostanza, guidati da quello che è un gusto impeccabile, per i vini, ma soprattutto per i vignaioli e le vignaiole che li producono.

Ah, siccome la cosa della sala mi era rimasta dentro, nel 2012 insieme ad Elisa, Paolo, Daniele e Salvo – cui vanno tutti i miei auguri per la ripresa dopo un gravissimo incidente di alcuni mesi fa – abbiamo aperto un’Enoteca con Cucina a San Miniato, Piazza del Popolo in piazza del Popolo (perché siamo genî del marketing); io ero addetto ai vini e volevo dimostrare che, anche in aree meno aperte alle proposte curiose e poco ordinarie, il ruolo di un “oste” che si espone, propone, stuzzica è una chiave imprescindibile per scardinare le carte pallose, piatte e appiattite su quello che tutti sanno chiedere. Esperimento, per così dire, molto ben riuscito, oggi il locale è gestito da Salvo e da Agnese.

 

Qual è stata la tua sveglia enoica?
Sono stato un bevitore tardivo, direi “culturale”. Un giorno – mi pare del 1993 o 1994 – mi trovai a leggere un articolo su La Nazione dove si parlava dei corsi del vino di Slow Food. Dopo tre righe, mi trovai a pensare che quelle cose lì, nel vino? Ma che daverodavero? Tocca che vado a vedere. E così feci. Mi sciroppavo il tragitto fino a Montescudaio, dove trovavo Ernesto Gentili e Stefano Ferrari, e da lì il recente passato di Galestro Capsula Viola, Lancers e Matheus ebbe, fortunatamente per me, fine.

 

E quale, da adolescente o giù di lì, il primo vino ad averti propriamente sedotto?
Nel contesto di cui sopra, due. Il primo fu il Chianti Classico Riserva Rancia 1988 della Fattoria di Felsina. Venivo da serate in cui mi piovevano addosso nomi che regolarmente riportavo storpiati sul taccuino, li leggo oggi e mi piscio addosso dalle risate; serate durante le quali combattevo con stimoli strani e anche contraddittori; durante le quali faticavo a ritrovare profumi, per mancanza di pratica e allenamento; in cui mi sentivo abbastanza un troiaio, ecco. Stavo forse per disperare, quando arriva questo bicchiere, con un sentore riconoscibilissimo di porcini disidratati e terriccio di bosco, dinanzi al quale suonò un gong. Epifania? Non lo so mica. Poi, alla cena conclusiva del corso, un altro incontro, di bocca, stavolta: Camartina 1991 di Querciabella. Appena si affacciò sulla lingua, fu come accarezzare una stoffa preziosa, a fronte dei pastrani o quasi di fustagno incontrati sin lì. Uno, due. Ciaone. Ero preso.

 

Ricordi il vino che ha rappresentato il cambio di passo?
Non so se sia un cambio di passo. Lo vedo piuttosto come uno spartiacque stile biblico genere Mosè che divide il Mar Rosso. Deus ex machina, Sandro Sangiorgi. Ai tempi (2001), si frequentava con assiduità il forum di Porthos, nacque l’idea di conoscersi e incontrarsi, non ricordo più se all’Enoteca Vino dal ’99. Noi partimmo in tre dalla Toscana, ciascuno con una bottiglia, alla quale Sandro ne avrebbe “contrapposta” un’altra. La mia era il Barolo Rocche dell’Annunziata Riserva 1996 di Scavino. Ne ero giustamente orgoglioso, un vino significativo, un grande cru, un produttore per me di riferimento al tempo ed i cui vini, specie il Bric del Fiasc, mi avevano molto sedotto in vari assaggi. Versiamo, e senza tanti discorsi mi si fece chiarezza. La differenza era netta, ma soprattutto, per me si aprì una strada di cui praticamente ignoravo tutto. Ho impresso ancor oggi il sentimento di – mi si perdoni – “verità” che usciva da uno dei bicchieri, e non era il mio. La “verità” di cui parlo nebulosamente è una sorta di immediata aderenza della cosa a se stessa, un’immagine non confusa di una cosa che è e si autoimpone, certo non senza una dose piccola di a-razionalità, in modo tale che la tua percezione di essa non ha bisogno di commento; la senti, la vedi, è. Tono austero, di asciutta eleganza, rigoroso; una florealità nascosta, spolverata di finissima polvere di cacao amaro, ecco cosa veniva fuori; un sorso dritto, dritto, ma infuocato, promettente, schiettamente gustoso, di nuovo asciuttamente elegante. Il mio vino, al confronto, si sbracciava come una matrona opulenta e contornata di belletto, e vi assicuro che non mancava davvero nulla, a quel vino lì; ma il contrasto tra quella florealità là e questo profumo da profumeria non poteva essere più clamoroso, e, soprattutto, la decisione di inseguire e volere vino che fosse sulla linea di quel bicchiere rivelatore fu automatica, senza possibilità di negoziazione. Quel vino era il Barolo Riserva 1996 di Borgogno.

 

I tuoi dieci vini della vita?

  • Vosne-romanée 1er cru Les Beaux Monts 1993 – Emanuel Rouget: enter Pinot Nero. Lampi di roccia chiara, processione di lamponi brinati, fascino, lo so che non ti avrò mai e nemmeno ti merito, ma grazie di lasciarmi comunque provare;
  • Chambertin 1996 – Armand Rousseau: la spada nella roccia, il cervello trafitto, il messaggio all’anima tua di te. Tutto men che perfetto, ma perfetto per me
  • Krug Clos du Mesnil 1988: alabarda spaziale, veleno e musica, furia e stupore
  • Mouton-Rothschild 1982: il cerchio
  • Fiorano bianco 1971: il lucore della lampada dietro l’alabastro nella tempesta.
  • Bianco Testalonga (forse 2010) – Nino Perrino: io non amo il Vermentino. Uomini e donne seduti, un grande albero, mura bianche, una vigna vicina; bicchieri scompaiati, improbabili; focaccia alle acciughe; la capra e fagioli; la mamma di Nino, e Nino: la regalità franca e umile di nobili persone, le cucchiaiate di sale in bocca, il movimento lieve ed imperfettibile di un vino imperfettissimo. Io amo il Vermentino
  • Brunello di Montalcino riserva 1999 – Gianfranco Soldera: quando il vino ti avvolge e zittisce, e diventa esso stesso la musica di fondo
  • 1986 l’annata, M di Montevertine, Sodaccio e Pergole i vini: quell’anno lì, a Montevertine, c’erano tutti a convito: il succo, il sapore, la leggiadria, la drittezza, il carattere, l’amichevolezza, il godimento
  • 40 annate di Volnay 1er cru Les Champans, Joseph Voillot: non l’assaggio, ma il riassaggio, a notte ; i vini erano magnifici e anche no, non vuol dire nulla, ma di certo l’umanità grande di chi li ha fatti e proposti hanno scaturito umanità;
  • Lambrusco Vigna del Cristo – Cavicchioli: gioia e spensieratezza, l’inaspettata carezza dell’acidità
  • Vernaccia di Oristano Antico Gregori – Contini (lotto chi lo sa è bravo)(ma poi è cambiato, badate); l’abbacinante riflesso del sale sul sasso, i fronzoli dell’universo annientati e risucchiati via, idea di essenza e sintesi
  • Cote-Rotie La Turque 1988 – Guigal: il sesso nel vino
  • Malvasia Selezione 2014 – Marko Fon: se il vino ha una chance di essere preghiera laica, ecco, questo per me lo è

 

Il tuo vino quotidiano?
Non ho un vino quotidiano, anzi, troverei molto difficile bere vino tutti i giorni. Il vino è un bisogno evoluto, per me; evoluto non vuol significare difficile, anzi; ma raramente mi viene in mente che se non bevo un bicchiere di vino sto male. Amo molto il sabato del villaggio di un bicchiere di vino, fosse anche un vino semplicissimo; senza questa rincorsa mentale e sensoriale, faccio volentieri a meno di bere. Detto questo, tre anni fa ti avrei risposto: pinot nero. Poco prima, Pian del Ciampolo; se ci penso un attimo qui e ora, ti dico Lambrusco. Approfitto e faccio un passaggio infiltrante all’ottimo Antonio Boco, perché metta mano ad una revisione critica della Sindrome da Pian del Ciampolo, i tempi son maturi; tanto so già che questa palla verrà calciata in piccionaia.

 

Il vino naturale.
La dimensione teorica del mio cervello è pari alla capacità che normalmente le donne ci attribuiscono nell’essere multitasking, come ho detto prima, e difatti mi pregio di essere il Sonasega Princeps. Rimando volentieri a tutti coloro che ne hanno parlato con intelligenza e sforzo critico, Giovanni Bietti in primis nei suoi due libri, ma anche ad altri. È un dibattito che mi lascia piuttosto tiepido, in verità e fuori dai denti. La scarsa capacità analitica mi porta pigramente verso la sintesi, e credo di apprezzare molto la naturalezza di un vino, più che il suo esser naturale. Ecco, la dimensione della naturalezza mi sembra un attribuito relativamente codificabile, ma riconoscibile. Mi fermo sulla soglia di uno spinoso dibattito, riaffermando le ragioni opinabili di un pensiero debole, debolissimo, ma è il mio, uno a zero, palla al centro.

 

Il vino che vorresti ardentemente ma che non hai ancora avuto?
Facile. Una bottiglia di Romanée-Conti 1999 o 2002, più 2002 che 1999, ecco. (Sì, lo so che quelli bravi avrebbero detto 1964.)

 

Tre persone del vino alle quali senti di dovere molto.
Rifiuto l’offerta di tre e vado avanti, perché tre ‘un son nulla.
Di Sandro Sangiorgi ha già scritto Giampiero Pulcini. Direi le stesse cose. Solo, aggiungo, per come sono fatto io, che quando la direzione diventa fideistica, ecco, io me ne vado da un’altra parte, piglio i miei noccioli e vo a gioca’ su’i’ mi’ uscio. A torto o a ragione. A me piace ricordare un’altra cosa. Gran parte del modo con cui mi accosto al vino oggi mi deriva da tanti incontri, quasi tutti avvenuti sul forum di Porthos. Nel 2001 e per alcuni anni a seguire, ci si affacciavano persone di clamorosa qualità culturale prima, degustativa poi. Cervelli di prima finezza, capaci di acchiappare al volo filosofia, economia, letteratura, musica, arte, cazzeggio, quasi sempre giocando ironicamente e ogni tanto schiaffeggiandosi con verve, in rarissimi casi con mancanza di equilibrio; un “posto” civile, non perfetto, dove si riusciva a mantenere un contatto urbano, un caffè vinicolo di fondamentale importanza per me in un momento in cui ripensavo le mie idee e di conseguenza i gusti, senza che fosse necessario compiacere nessuno, ma neanche offendere con la grevità urticante che leggo in giro da qualche anno. Da lì è nato il primo offline a casa di Giancarlo Marino, dove ho fisicamente conosciuto Armando Castagno, Giampiero Pulcini, Luca Mazzoleni, Luca Furlotti, Marco Manzoli, Luca Manzoni, Rossano Ferrazzano, Andrea d’Agostino, Matteo Farini, Giulio Perugini, Bruno Rosati – Bruno! – e anche altri che mi scordo.

Onestamente, rifuggo un po’ l’idea del Maestro Guida; mi piace immaginarmi seduto con, parlare insieme a coloro che hanno il talento di leggere quello che io non so leggere nei vini, e di restituirlo con la grazia, l’eleganza ed anche la gratuità che dovrebbero avere i grandissimi talenti. Adoro lo spirito con cui leggono i vini Paolo de Cristofaro, Antonio Boco, Fabio Pracchia, Mauro Erro, Francesco Falcone, ma anche Fabio Rizzari; sono grato a chi si innamora dei piccoli vini come dei grandi, a chi ha le scintille negli occhi, a chi agguanta ma senza stringere la bellezza di tutto questo. Resto sempre incantato dai coloro che sono in certo qual modo “scavati” dal vino, da certi vini: penso a Marco Durante, a Giampiero Lubino, l’assaggio che si fa intimità, che sprofonda dentro; questo, però, vale con colori diversi per molte delle persone di cui mi piace la compagnia.
In realtà, a ben pensarci, devo più al vino che alle persone. Ma senza il vino io non avrei conosciuto persone, né avrei visto nascere alcune amicizie inaspettate e profonde come quasi mai accade dopo i 30 anni e di certo come mai avrei sognato. Poi, anche il vino ci ha tenuto in contatto, sì. E comunque, il vino in sé, per me, non avrebbe tutto questo significato.

 

Hai un tuo vino/vitigno di riferimento?
Ahimé, sì. Sono un po’ tanto amareggiato, va detto, per cui potrei non essere troppo giusto. Ce ne ho messo un bel po’, di amore, su questo benedetto pinot nero. Certo, con Giancarlo Marino può sembrare facile, mica era Ciccino di Pontorme quello con cui “studiavo” per bottiglie e cantine. Vero. Però lasciatemi l’amarezza – mia e di tantissimi altri – che ormai sono destinati ad abbandonare il gioco già ben sanguinoso degli acquisti importanti, dei cru rarefatti, delle bottiglie che possono segnarti la vita ma anche, sempre più, di quelle che vorresti concederti non esattamente una volta all’anno. Sono impazziti, forse anche a ragione, là in Borgogna, ed io qui ad elaborare questa sorta di lutto.
Il pinot nero – rivendico, per una volta, di non essere vittima della moda – ha in sé la magia totale, non c’è nulla da fare; l’hanno detto in milioni, diamine, ma che altro dovevano dire? Credo sia in larga parte perché nessun altro vitigno sa accarezzare tutti i tasti insieme – sì, sì, quelle pochissime bottiglie stellari, ok -: raffinatezza, eleganza, sensualità, carnalità, sofisticatezza, grazia, birichineria, drammaticità, senso scenico, stimolo intellettuale, e una sfrenata voglia di bere, proprio bere, buttare giù per inesauribile golosità.

 

Cosa detesti nel mondo del vino?
L’arroganza e la prevaricazione; la comunicazione distorta che ha fatto nascere il:”Io però non me ne intendo”; la mania delle verticali a tutti i costi; chi beve solo le grandi bottiglie; gli enotecari ed i ristoratori che vanno avanti per inerzia sul vino.
Mi soffermo sul secondo punto. Trovo aberrante che qualcuno debba ritenere di doversi giustificare di non saperne niente o quasi sul vino, allorchè vieni presentato come “l’intenditore” di turno. Questa cosa mi fa schifo. Non solo è arrivato in giro un messaggio elitario – posso avvicinarmi e goderne se e solo se sono un “esperto” -, ma una cosa meravigliosa e vasta come il vino è diventata agli occhi di tanti un orizzonte lontano, improbabile, praticamente fuori portata.
Non sopporto chi non si mette in gioco ed ha già spento la curiosità, i giocatori tristi che non hanno vinto mai e che hanno attaccato la bottiglia a qualche tipo di muro, innamorati da dieci anni dello stesso vino che non hanno amato mai, chissà quanti ne ho veduti, chissà quanti ne vedrò. No, non ce la faccio. Se il vino finisse di stupirmi, rimarrebbe solo un po’ di alcool, no?

 

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Della stessa serie:
– Sotto a chi tocca | Francesco Annibali (ovvero: della densità di parola)
– Sotto a chi tocca | Giulio Bruni (uno di cui sentiremo parlare, a Roma e non solo)
– 
Sotto a chi tocca | Alessio Pietrobattista (uno che a degustare è bravo parecchio)
– Sotto a chi tocca | Giampiero Pulcini (la sensibilità che vorremmo)

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Alessandro Morichetti

Tra i fondatori di Intravino, enotecario su Doyouwine.com e ghost writer @ Les Caves de Pyrene. Nato sul mare a Civitanova Marche, vive ad Alba nelle Langhe: dai moscioli agli agnolotti, dal Verdicchio al Barbaresco passando per mortadella, Parmigiano e Lambruschi.

3 Commenti

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vinogodi

circa 8 anni fa - Link

.... una delle penne più ispirate di tutto il web. Quando leggi Luca , ogni sillaba diventa un divertimento unico. Amico di sventure enoiche, ci siamo frequentati troppo poco , e quando lo vedo scrivere, in qualsiasi consesso, ho una piccola strizza , perché è davvero bravo. E umile. PS: da Teatro del Vino faccio tanti acquisti : vuoi vedere che...

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vinogodi

circa 8 anni fa - Link

...PS: dimenticavo ... Romanée Conti 2002 aspetta te e Giancarlo Marino . Quando siete pronti , un fischio e .... ( Giancarlo, l'ultima volta che ci vedemmo , mi disse che quando aprirò questa bottiglia di avvertirlo perché sarà una delle poche volte che si sposterà dal suo buen retiro romano , perché fra le poche cose di Borgogna che non ha mai bevuto)

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Giampaolo Gravina

circa 8 anni fa - Link

che bel racconto, che bella persona: uno che avrei voluto frequentare di più ma forse siamo ancora in tempo... grazie Luca, un abbrazz

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