Sono stata 9 giorni a New York e sono dimagrita – Parte prima

Sono stata 9 giorni a New York e sono dimagrita – Parte prima

di Lisa Foletti

Quanto siamo legati all’immaginario del cibo americano tutto grassi idrogenati e zuccheri raffinati? Quanto siamo abituati a pensare che gli americani ingurgitino solo hamburger, donut, ali di pollo e hot dog innaffiati da fiumi di cola e milkshake? Sotto sotto lo credevo anch’io, complice un discreto numero di input televisivi e cinematografici (“Super Size Me” su tutti).

Sbarcando per la prima volta a New York City, qualche settimana fa, ho appurato che tutte quelle cose esistono davvero: chioschi, furgoncini, fast food, pizzerie, pasticcerie et similia imperversano straripanti di gente, 24 ore su 24.

Ma NYC è una megalopoli, un melting pot culturale e sociale davvero impressionante, e la gastronomia segue fisiologicamente il trend. La maggiore concentrazione di street food e junk food si trova nelle zone ad alta densità popolare e turistica, mentre nei quartieri residenziali della “upper class” si contano per lo più locali e negozi eleganti, ricercati. La sensazione è che a New York la vera miscellanea gastro-socio-culturale tocchi gli snodi di grande traffico (umano, veicolare, economico) come ad esempio il Midtown, dove effettivamente si incontra ogni tipo di etnia, condizione e status; ma se ci si sposta verso altri settori della città, il mélange e la pluralità si riducono vistosamente.

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Passare da un quartiere all’altro, anche all’interno dello stesso distretto di Manhattan, è come muoversi da una città a un’altra, a volte persino da un continente a un altro: cambia l’ambientazione, cambia l’aspetto degli edifici, cambiano le facce, e cambiano di pari passo le proposte gastronomiche. Poche centinaia di metri separano Greenwich Village e SoHo da Chinatown e Little Italy, eppure sembra di fiondarsi da un capo all’altro del mondo. Se nei pressi di Times Square, emblema della metropoli “che non dorme mai” – luci, rumori, colori, odori, fattezze, ricchezze e povertà di ogni tipo – trionfano catene di fast food h24 e caffetterie internazionali, baracchine di hot dog e insegne italiche, a Chinatown e Harlem, abitati prevalentemente da cinesi e afroamericani, è normale trovare quasi solo negozi e ristoranti “local” che offrono autentica (così pare) gastronomia cinese e soul food. Dirigendosi verso Greenwich Village o Brooklyn Heights, poi, l’atmosfera si fa più rarefatta e silenziosa, i viali alberati, le vetrine glamour, i molti passeggini sospinti dalle nanny, le persone elegantemente vestite e le proposte gastronomiche più raffinate e “fusion”.

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Insomma, NYC non è una città, è una moltitudine di città (già solo il distretto di Manhattan lo è), per cui “andare a New York” non significa nulla: ci sono infiniti modi per viverla e altrettante esperienze da fare, anche per quanto concerne la gastronomia, che è sempre manifestazione dei fenomeni sociali, culturali e storici di un luogo. Mi pare, dunque, che il concetto di “cibo americano” sia piuttosto indefinibile, a meno che non lo si voglia identificare con lo street food, con gli spaghetti with meatballs, col burro di arachidi, con i vari pancake, cupcake e cheesecake, che pure fanno parte della cultura americana, ma che a mio parere non ne esprimono in toto l’essenza. Di certo a NYC si può trovare di tutto, per tutti i gusti, per tutte le esigenze e per tutte le tasche: dipende solo da come ci si vuole (o ci si può) alimentare, e cosa si sceglie di sperimentare.

Personalmente ho voluto vivere la New York “gourmet”, quella delle insegne gastronomiche (dal piccolo bistrot al ristorante stellato) e delle enoteche, magari con qualche piccola divagazione. E diciamo che non ho fatto la scelta più economica, poiché mangiare e bere bene a NYC risulta piuttosto oneroso, soprattutto per noi italiani. È lapalissiano che prodotti e servizi di qualità si paghino ovunque, ma il costo della vita a NYC non è paragonabile a quello delle nostre città italiane (ad esclusione forse di certe località turistiche “di grido”). Basta conoscere l’ammontare di un affitto medio a Manhattan per individuare una delle ragioni principali dei prezzi così elevati.

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Malgrado questa consapevolezza, però, non ho potuto evitare lo stupore (e il rammarico) di fronte al costo del vino nei ristoranti e nei wine bar newyorchesi: un calice non di pregio oscilla tra i 12$ e i 25$, ed è rarissimo trovare bottiglie a meno di 50-60$, senza contare le tasse (8,9% circa) e la mancia obbligatoria (20% circa) da aggiungere al conto finale. Un ricarico medio del 500-700% sul prezzo pagato dall’operatore.

Le cose vanno meglio nei wine shop, spesso ben assortiti (molte le etichette italiane, francesi e tedesche, non solo blasonate – bello trovare alcuni vini emiliano romagnoli di piccoli produttori artigiani!) e con prezzi abbordabili, ma poi si pone il problema di trovare locali dove è consentito portarsi il vino da casa: se abitassi a NYC lo farei di certo, ma da turista ho preferito scegliere i ristoranti in base ad altri criteri. Ecco perché nella mia breve esperienza newyorkese sono stata piuttosto morigerata con il bere, fonte insuperabile di piacere ma anche di calorie (e, nel caso specifico, di emorragie finanziarie).

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Chiudo questo mastodontico cappello introduttivo con un’altra considerazione di tipo calorico, nonché culturale: i newyorkesi non usano pasteggiare con il pane. Non so se la questione riguardi tutti gli Stati Uniti, ma di certo è peculiare a NYC. Qui si mangia pane a colazione e nei vari sandwich, ma pochissimo durante il pranzo o la cena, quantomeno al ristorante. L’abitudine tutta italiana di accompagnare l’intero pasto con svariati cestini di pane (a volte di grande qualità, altre volte molto meno) è quasi del tutto assente a NYC, dove il pane spunta di tanto in tanto insieme a una specifica portata, magari un paté, un salume o un formaggio, oppure facendosi esso stesso portata. In nessuno dei bistrot o ristoranti dove sono stata mi hanno servito un cestino di pane, se non qualche sporadica fetta, e ammetto che non ho mai patito la fame, né ho avvertito la viscerale mancanza dell’amato farinaceo: il senso di sazietà, a fine pasto, è sempre stato supportato dalla piacevolezza di non sentirsi appesantiti per l’eccesso di alcool (sigh!) e/o per i chili di lievitato ingurgitati compulsivamente.

Se a tutto questo si sommano i chilometri percorsi a piedi su e giù per la città, penso sia facile intuire il motivo per cui sono dimagrita a NYC. Non era una battuta.

Ecco i locali che ho visitato:
1° giorno: Grand Central Oyster Bar & Restaurant – Grand Central Terminal, 89 East 42nd Street (Midtown East);
2° giorno: Babu Ji – 22 East 13th Street (East Village);
3° giorno: Chelsea Market – 75 9th Avenue (Chelsea);  Cosme – 35 East 21st Street (Gramercy Park);
4° giorno: Racines – 94 Chambers Street (Financial District);
5° giorno: Bubby’s –  120 Hudson Street (Tribeca);  Blanca** – 261 Moore Street (Brooklyn);
6° giorno: Olmsted – 659 Vanderbilt Avenue (Brooklyn);
7° giorno : La Compagnie des Vins Surnaturels – 249 Centre Street (SoHo);
8° giorno: NoMad – 78 2nd Avenue (East Village).

TO BE CONTINUED…

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Lisa Foletti

Classe 1978, ingegnere civile, teatrante, musicista e ballerina di tango, si avvicina al mondo del vino da adulta, per pura passione. Dopo il diploma da sommelier, entusiasmo e curiosità per l’enogastronomia iniziano a tirarla per il bavero della giacca, portandola ad accettare la proposta di un apprendistato al Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), dove è sedotta dall’Arte del Servizio al punto tale da abbandonare il lavoro di ingegnere per dedicarsi professionalmente al vino e alla ristorazione, dapprima a Milano, poi di nuovo a Bologna, la sua città. Oggi alterna i panni di sommelier, reporter, oste e cantastorie.

3 Commenti

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Matteo Azzolini

circa 6 anni fa - Link

Interessante introduzione... ma... Detto da grande appassionato degli Stati Uniti (della loro storia, cultura, musica) NY “non è gli USA” un po’ come Londra è Inghilterra solo fino a un certo punto... insomma, per esperienza, mi vien da dire che il “cibo americano” (inteso come abitudine alimentare ed esperienza gastronomica) risieda un po’ altrove (o in una delle sfaccettature di quella babele moderna ed affascinante che è NY). Ah... e sicuramente è in esperienza meno onerosa $ ma più calorica

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abi

circa 6 anni fa - Link

Nel mio caso è più facile dimagrire nel resto degli USA per noia del cibo. Dopo i primi giorni di T-Bone riduco a mera sopravvivenza,

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zzzz

circa 6 anni fa - Link

...e ci si trova a mangiare una pizza da Pizza Hut per pura disperazione papillare...

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