Se giochi una partita a carte con i vini di Francesco Annesanti, lui vince sicuro

Se giochi una partita a carte con i vini di Francesco Annesanti, lui vince sicuro

di Massimo Andreucci

Sono venuto a trovare Francesco Annesanti in cantina. Tempo fa avevo assaggiato due o tre cose al banchetto di una degustazione e mi ero ripromesso di farci un salto. Eccomi qui: ci ho messo un po’, ma in fin dei conti è stato meglio perché lui nel frattempo ha sperimentato nuove cose e direi che dal mazzo sono uscite delle buone carte.

È un martedì pomeriggio e fa molto caldo. Ho caricato in auto due amici minchioni a darmi manforte e ho imboccato la strada statale Valnerina. Abbiamo svoltato prima di Casteldilago lasciandoci il paese sulla sinistra, proseguendo fino ad incontrare una di quelle insegne in legno a forma di freccia. Ho stretto gli occhi per intravedere il calco di una vecchia scritta: ANNESANTI, puntava l’ingresso alberato di una bella villa ma due sopracciglia a forma di punto interrogativo c’hanno fatto salire ancora un paio di tornanti e la strada è finita tra sassi, gatti e polli. Si è affacciato un tizio uguale a Francesco con qualche anno in più. Lui invece è arrivato qualche minuto dopo sopra un furgone sgangherato. Scusate, ho accompagnato a casa n’amico che era armasto a piedi. Hai fatto bene, ‘n de preoccupa’.

Ci ha fatto strada tra gli attrezzi agricoli fino ad un punto in cui si gode di una bella vista sulla Valnerina. Qui ci farei una stanzetta per gli assaggi, ma poi papà s’incazza perché non sa dove tenere la roba. Non butta mai niente: che ce farà co’ tutti ‘sti ferri? Ad ogni modo, laggiù, dove sta la vigna, la notte le temperature scendono sotto i quindici gradi.

E siamo stati interrotti da due anziani saliti a riempire la damigiana con lo sfuso.

Li abbiamo seguiti in cantina per assaggiare dal rubinetto insieme a loro. Un sangiovese-merlot ben pressato: se fosse una carta da gioco sarebbe un onesto sei di fiori. – Sai che quando al ristorante gli propongono qualche mia bottiglia questi qui gli vanno a dire che da me lo stesso vino lo pagano solo tre euro sfuso? – E il ristoratore ci crede? – Bah. Abbiamo sciacquato il calice nel lavandino e siamo passati agli assaggi, quelli seri. Fossi stato a Montefalco avrei direttamente piantato il sagrantino, ma sono in Valnerina e posso sperimentare. Così ci ha versato Il Rosato 2016, da uve barbera, un vino smodatamente fresco il cui colore rosa lucente con riflessi di rame evoca già di suo un consumo irresponsabile all’ora dell’aperitivo. Un bel nove di picche.

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Di nuovo sotto la fontanella e via con Il Bianco 2016, da grechetto, malvasia e trebbiano. Dritto e sapido ma ancora un po’ contratto al naso, è un otto di fiori. Il Bianco 2015, invece, che già all’esame visivo esprime una maggiore propensione a concedersi, emana golosi profumi di mela gialla molto matura e accenni di resina di pino. È dotato di una freschezza che annienta i tredici gradi di alcol e di una sensazione tattile che ne allunga la persistenza. Ha lo stesso problema del rosato: ne finisci una bottiglia prima che te ne accorga. Sul serio, parlo per esperienza. È un nove di cuori: niente male per un vino base.

Il Fonte Farro 2015, grechetto in purezza, per il momento è un sette di quadri ma sarei davvero curioso di assaggiarlo quando le note minerali si faranno prepotenti. Il Rosso 2016, è un merlot col 20% di barbera sapido, digeribile e non impegnativo che trova il suo compendio naturale nel cibo. Un sette di cuori. Il Valnero 2015 è un Sangiovese in purezza che riposa ben cento giorni sulle bucce. Queste inizialmente cedono il colore per poi riprenderselo ed il vino ne esce snello e ed aggraziato ma tutt’altro che svuotato. È elegante e persistente. È una Regina di fiori.

A quel punto ci siamo fermati a scambiare due impressioni. Ci siamo detti che i vini di Francesco hanno una loro riconoscibilità: risultano estremamente puliti e restituiscono un frutto integro. L’affinamento in acciaio ne esalta la verticalità (per cui egli stravede). La permanenza di parte del mosto sulle bucce, nei bianchi, conferisce quell’accenno di ruvidezza ed una sensazione di spessore tattile che allunga la persistenza senza appesantire la bevibilità. Anche i rossi inseguono la godibilità a prescindere, persino se si tratta di sacrificare qualcosa in struttura e complessità. Se il suo lavoro fosse finito qui gli avrei detto: bravo, i tuoi vini sono diretti e affatto scontati. Fossi in te ora però tenterei il salto di qualità sporcandomi un po’ di più le mani.

Francesco mi anticipa e ci conduce nel lato buio della cantina, ove il suo alter ego sognatore conserva le spremiture migliori che un giorno prenderanno la via del vetro. Il Colle Fregiara 2016 è un Trebbiano spoletino macerato in anfora e la buona notizia è che, per quanto debba ancora scontare un periodo di affinamento in bottiglia, i profumi varietali stanno già avendo la meglio sul contenitore, che del resto non sembra stemperare più del dovuto la freschezza tipica del vitigno. Oggi è un Jack di fiori ma quando la rapa gialla eclisserà definitivamente il cotto, e, credetemi, succederà ben presto, reclamerà la corona. L’Acqua della Serpa 2016. Le uve provengono dalla vigna del nonno impiantata a filari misti. Il mosto affina per circa un anno insieme alle bucce ed alle fecce in un’anfora da quattrocento litri, prima di essere travasato in vetro (ove attualmente riposano, in attesa dell’etichetta, le poche bottiglie dell’annata 2015 sopravvissute all’assalto di amici e avventori insistenti). Questo 2016 pescato direttamente dalla terracotta è già opulento all’olfatto e assai carezzevole in bocca. Dire che è il vino che ci ha convinti di più è riduttivo: è una cosa che si vuole avere, e che Francesco dal canto suo quasi vorrebbe tenere per sé. Un Asso di picche. Barbera 2016. Gioioso e sconsiderato come un peccato di gioventù. Esprime vitalità al colore, al naso ed al palato. Godibile da subito, così com’è, magro e senza etichetta, privo del fardello di una maturità che ne accrescerà il corpo e le velleità. Un dieci di cuori. Il Piano della torre 2016, da uve sangiovese e pinot nero macerate in anfora, è un po’ chiuso all’inizio per poi evolvere in continuo, passando da sentori di cipria e mentolo a note di fiori e frutti rossi.

Se al naso è il sangiovese a dominare, al sorso emerge la grazia del pinot nero che insiste per via retronasale. È un dieci di picche, con buone speranze per il futuro. Clandestino 2016. È un vino dolce che Francesco produce per sé e fa assaggiare solo agli amici, dato che per legge non può venderlo (non con la dicitura vino, quantomeno). Ottenuto macerando in una piccola anfora due dosi di mosto fiore da uve bianche ed un a dose di mosto cotto. Di colore biondo cenere, quasi fosse un Pedro Ximenez, profuma di frutta secca e caramello in un contesto di note ossidative. È dolce ma non stanco, sapido. È la carta che ogni giocatore di poker vorrebbe pescare dal mazzo, non fosse che le regole impongono di scartarla prima di iniziare la partita. È un Joker.

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Massimo Andreucci

Bianchista. Compulsivo. Uno che per indole starebbe sempre a mangiare e bere ma non potendolo fare ci scrive sopra qualche riga nel vano tentativo di prolungare una gioia sempre troppo breve.

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