Quel Salento che si appiccica all’anima. E la terra rossa
di Gianluca RossettiLa prima cosa che ricordo di aver visto è la terra. Rosso rappreso, per le ferite delle stoppie. In Germania, dove avevo vissuto fino ad allora, la terra non si vede mai, perennemente sospesa tra fondamenta rocciose e solai verdi. Devi scavare per vederla, anche in estate. Perché lì piove sempre. Ed è tutto coperto da prati, anche in estate. E quando scavi, la terra appare grigia, giallo ocra, o nera perfino. Mai rossa. Almeno dove vivevo io.
Dove vivevo io alzavi il sedere e uscivi di casa con due metri di neve ma chiudevano le scuole se il termometro superava i 20 gradi.
L’estate del 1978, in Salento, scorreva invece come lava: un caldo infernale, l’odore di paglia bruciata, le notti torturate dallo scirocco. Ho odiato per mesi quella terra. Mia ma non mia; perché imposta; diversa; cotta dal sole; accesa di luce per tre quarti dell’anno. Facce di mogano, occhi scuri, parlata a denti stretti, veloce come una mitraglia.
Le foglie di tabacco erano stese a seccare ovunque, mica solo nelle masserie, avamposti fortificati di un tempo contro il brigantaggio. I contadini si portavano quei fazzoletti verdi anche a casa, in città, violandoli con ago e filo, proprio sotto il picciolo, per poi sospenderli in righe ordinate dove capitava – sottotetti, pergolati, rimesse, voliere – finché diventavano scuri come corteccia. L’odore delle foglie si aggrappava al quartiere, intonacandone i muri. Un lavoratore di tabacco lo riconoscevi da trenta metri. Dita ossute e faccia coi solchi, annunciate dai profumi pungenti di scatola di sigari.
Poi alla fine, lentamente, anche quel posto, come tanti, è diventato posto mio.
Familiare, piatto, dritto. Gli unici dislivelli nei gradini del portico. Violento nei colori, negli intarsi scavati dentro il burro del barocco leccese, nei sapori ancora vivi di una cucina antica, nella storia di conquiste e resistenze interminabili, nei riti delle Tarantate. In mezzo a tutto questo, alcune piante in particolare ricordo come quinte perenni della mia infanzia: ulivi, fichi d’india, palme e viti.
Nel consumo familiare il vino, anche d’estate, era rosso o lacrima. E d’inverno pure. Unica differenza, a seconda della stagione, la temperatura di servizio. Parlerò prima o poi del vino lacrima che nulla ha a che vedere con il ben noto vitigno. È un procedimento che, impiegando le medesime uve del rosso (negroamaro) dona vini diafani, di un rosa appena percettibile. Un vino piantato nel mezzo tra bianchi e rosati, ottenuto dalla “lacrimazione” del mosto fiore dagli acini per lieve pigiatura (in origine determinata dal peso stesso dei grappoli collocati nel palmento), senza prolungato contatto con le bucce.
Ne dirò di più ma oggi penso ad altro. La terra rossa chiama e rosso, adesso, deve essere il vino.
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