Piccola cronaca erratica sul salotto dei Vini naturali a Roma

Piccola cronaca erratica sul salotto dei Vini naturali a Roma

di Emanuele Giannone

Che male c’è nei consessi mondani? Nessuno, almeno per i cultori romani del vino naturale: ne hanno infatti a disposizione uno che, dopo gli esordi carbonari, si è via via mondanizzato fino a perfezionarsi in un vero salotto. Salotto: alla lettura di questa parola i probiviri dei probivini storceranno il naso e muoveranno accuse di snobismo, elitismo etilico, cospirazionismo vinnaturista etc. – accuse infondate, giacché un salotto non è il ricettacolo di bizze, trombonismi, platealità da presenzialisti compulsivi, narcisi glitterati, papi e papesse, dandy e sofisti de’ noantri; né tantomeno è il solido perimetro di mura altoborghesi entro il quale tracannare etichette à la page o a tre zeri.

Piuttosto è garbo, volume giusto, incontro e dialogo, riflessioni illuminate e riflettori spenti, vale a dire situazione atmosfericamente funzionale al buon bere. Vini Naturali a Roma è il salotto di Tiziana Gallo, ha una sede storica, ospita comodi cento e più produttori, parla a un volume che non degenera in industrial metal, non è teatro di enopedie o fallometrie, pullula di produttori che girano per banchi come allegri gitanti libando nei lieti calici, inebriandosi a voluttà. Et voilà: ecco la più ebbra e meno ubriaca, la più festosa e mondana, la mia preferita tra le manifestazioni del vino a Roma. Per chi l’ha vista e per chi non c’era, ecco un minimo resoconto salottiero. Piccola cronaca erratica, senza vademecum, ispirata da caso e saluti e chiacchiere. Priva di scene epiche, fatti memorabili o lirismi. Una serie di piccoli interludi.

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Tiziana Gallo con i produttori Marabino e Baricchi

Zidarich. Dopo la grandiosa serata con Beniamino Zidarich, Matej Skerlj e il Terrano a Roma, ecco di nuovo il Carso. La teoria dei luoghi naturali determina che io entri e finisca dritto a Prepotto. E dopo la sera in rosso, ecco il bianco: la Malvasia che è compendium mercatorum, c’è dentro Piazza delle Erbe con la Vucciria, Campo de’ Fiori e il Souq di Mutrah. Poi la Vitovska che spiffera indizi sulla ricetta della Chartreuse, seguita dalla Vitovska Collection che Beniamino Zidarich, plagiario, firma per sé in frode ai reali produttori: Stregatto, Bianconiglio, Brucaliffo e il Cappellaio Matto. Wonderwine.

Valcerasa. Poiché il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa, nulla è più ovvio che procedere nel paese delle meraviglie e imbattersi in Alice, che in questa versione della favola ha per cognome Bonaccorsi. Scopro subito le carte: il suo Etna Rosso è il più bel vino della festa, il più elegante, quello dalla beva più coinvolgente, una pietra miliare, un riferimento edonistico ed estetico (ed estatico, un potente generatore di immagini e metafore), una cosa da bere senza posa, qualcosa di paragonabile, che so, all’opera completa di Bartók su Decca. Disclaimer: lo so, Bartok su Decca non vuol dire nulla, quindi spiego che per me equivale a visibilio e wonderland, discografici ed enoici.

Rinaldi. Guadare il fiume in piena di ultrà e supporter non è stato facile – per soprammercato mi ha spiattellato sul grugno il fatto incontrovertibile che è finita, l’età della Curva e del pogo è passata, sfiorita, bella zi’, addio – ma alla fine e a fatica anche zio è arrivato al cospetto di questa Avvenente Alacre Ammirata e l’ha trovata distratta, o più probabilmente annoiata: c’est l’Ennui, lo credo bene, con tutte queste fiere e tutte queste folle in rapimento mistico e sensuale. Insomma, arrivo da questa Marta che decisamente non è quella di Vermeer, cionondimeno è venusta e luminosa; e questa Marta, aria trasognata, contracted to her own bright eyes, avverte che život je jinde e che tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, hypocrite lecteur e via dicendo, mesce sei gradi di separazione, dagli erborismi della Freisa agli ermetismi del Barolo, senza batter ciglio, facendo battere sei volte il cuore.

Giovanna Morganti e Corrado Dottori. Che ardire metterli allo stesso banco, due così. Russell e Wittgenstein. Frege, il terzo ideale, era in Sala Giardino. Più di che cosa si bevve, ricordo di che cosa si parlò: di tutto, anche di gusto, non di degustazione. E quando il vino è carburante, notazione e sottofondo di uno, due, enne discorsi di tutta partecipazione e nulla convenienza, allora vuol dire che c’è ed eccelle. Vino eccellente, eccellenti conversari, eccellentissime persone. Uh, quasi dimenticavo: l’analisi, l’organolessi! Orbene pare che da tutto quel tourbillon di pensieri e parole si sia sentita avulsa, discriminata e offesa. Dicono di averla vista fumare di nascosto. Al guardaroba. O al posteggio dei tassì. Visibilmente annoiata.

Gottlob Frege. Vive a Zegla sotto pseudonimo (G.B.), al banco non c’era, avrei voluto chiedergli della distinzione tra Senso e Significato. Per lui mi ha risposto un suo messo a colpi di Alture e Braide, bianche e rosse, così ho capito e riconosciuto tutto. Meglio che in una tra le migliori spiegazioni dell’Ideografia.

Praesidium. Ottaviano non c’è, Antonia sì. È stanca ma basta un saluto perché si rianimi e ravvivi nel colorito, nel lume degli occhi, nella naturale compostezza: gentilezza e forza, quiete e slancio, adequatio effectus et effectoris. Già, perché gentilezza e forza è anche il loro vino, quello dei praedia vinearia, Prezza e Bugnara, in particolare il Montepulciano Riserva perché il Cerasuolo, come Ottaviano, era già andato via. Restava Antonia, persona giusta al posto giusto col vino giusto.

La Visciola. A Piero Macciocca mi legano solo bei ricordi, tranne uno che è amaro: quella volta che telefonò per invitarmi a una verticale domestica e io, scemo viaggiante, destinato a un qualche cantiere navale, dovetti declinare. Da allora, quando mi ritrovo a gustare il suo Cesanese provo sempre piacere e stupore per come lui, ernico eroico, figlio di Pan, figlio del dio silvestre (cit.), continui a imbroccare annate e selezioni. Resta l’amaro per quella volta che non potei andare a gustarle tutte insieme. Vini generalmente buoni, specialmente Mozzatta e Vignali, con quest’ultimo finito difilato tra i vini didattici di uno strambo corso dallo strambo titolo nientemeno che all’UNISG; e così commentato da una studentessa che non aveva mai gustato un Cesanese: “This is the wine I want to drink”.

Az. Vitivinicola Carlo Noro. C’è del magico a Labico: lo si sa sempre meglio, tra chi nella magia fidò subito e gli scettici positivisti che un tempo borbottavano e schernivano e poi, assaggiando le fragole o gli ortaggi dei Noro, esterrefatti gridarono al miracolo. Io sono un fedele-assaporante da anni, eppure non sapevo del Collefurno, un Cesanese di vaglia e spessore, tutto succo e slancio, materia e tensione: un’innodia dell’energia. Evviva. Evviva un corno: solo mille bottiglie.

Calcabrina. Sono un ingenuo mosso da preconcetti. Ad esempio: mi chiedi perché si va dai Calcabrina? Rispondo: per il Sagrantino e i formaggi. Poi succede che Mirco Calcabrina mesca sorridente un – udite, udite la parolaccia – Merlot profumato e vivace, titillante, spiritoso, non banale, ritmato e gioviale; e poi aggiunga un Sangiovese signorile, elegante e complesso, strutturato, ma senza che la struttura tolga nulla ad agilità e partecipazione. E il Sagrantino? Era finito. Per questa volta poco male, quindi molto bene.

Vittorio Graziano. Di lui parlano e scrivono in tanti e tutti bene, oramai anche i fior-fior-di-professionisti resipiscenti, oltre agli amatori della prima ora. Se, pure al netto delle sviolinate, la frequenza delle citazioni è proporzionale alla bontà dei vini, ogni citazione è meritata. Io, tuttavia, di questa giornata conserverò un ricordo oltre il vino: lui solo, nel vuoto in mezzo alla sala, lui serio, al centro della scena, mentre brandisce un calice vuoto. Lui, sguardo linceo e panoramico. Ruota, guarda intorno, infine punta qualcosa e si ferma, spiega un sorriso grandangolare, parte verso un banco, attacca bottone e beve. Intanto, al suo banco si crea prima la fila e a seguire la festa per l’inatteso, improvvisato self-service.

Franco Terpin. Fittezza di trama, densità, materia, rilievo tattile: come un vino con caratteristiche siffatte doni piacere risultando facile alla beva, partecipe, potente, appagante per ventaglio aromatico, non è un arcano per chi conosce e apprezza le macerazioni ben gestite. Qui si vince facile e l’avverbio bene può essere sostituito con magistralmente: più sferzante e salina la Ribolla, più rotondo il Friulano che sa di fiori e frutta da guscio, magnifico già dal colore il Pinot Grigio, pieno nel corpo e negli aromi, elegante per tocco e trama. E per i più vaghi di spensieratezza c’è sempre il Quinto Quarto.

Andrea Occhipinti. Ovvero dell’Aleatico non aleatorio e neanche a programma. I vini di Andrea Occhipinti sono, citando una felice intuizione sangiorgiana sulla naturalità, atti al divenire e non a divenire un determinato vino. La cura di Andrea e dei suoi è tecnica, zelo, passione e audacia. I vini riflettono tutto questo e sono per ciò stesso semplicemente perfetti. Siamo in una regione tra le più perfettibili per tipicità, cultura territoriale e naturalità dell’approccio. Per questo mi concedo una punta d’orgoglio regionale nel fare i miei complimenti a uno tra i migliori e ai suoi imperfettibili vini.

Santa Caterina. Quello con Andrea Kihlgren è l’incontro da augurarsi a ogni fiera. Tempo ritrovato. Condensare in poche righe mezz’ora di dialogo spigliato e impegnato, o anche solo elencare gli spunti e le conoscenze che suggerisce, non è possibile. Ringraziarlo è dovuto: per il dialogo, sì, ma anche per come fa parlare Vermentino, Sangiovese, Merla e Merlot della Valle del Magra.

Weingut Molitor Rosenkreuz. Altra felice intuizione di Tiziana Gallo: è grazie a lei se questo caleido-enoscopio allieta da qualche anno gli scaffali di un numero crescente di enoteche romane. I vini proposti sono molti e in molte annate, il loro bagaglio aromatico copre in un pugno di assaggi il campo di variazione tra mango e iodio, spezia e candito, fumi e agrumi, fiori e vapori – dalla natura alla saldatura il passo è incerto e ardito ma il lavoro nei cantieri navali, ahimè, ha fatto di me un mutante con naso diversamente abile.

Donna Elvira e il cioccolato modicano. Le curve più sensuali e irresistibili sono quelle glicemiche. Queste, che per me hanno chiuso la fiera, non avevano nulla di morbido, burroso o discinto, al contrario: corpo snello, abito sobrio, eleganza come dote naturale. Bandite stucchevolezze e sdolcinature perché l’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare. Io ricordo bontà, misurata dolcezza, persistenza e sensualità di quattro assaggi più un quinto “sbagliato”, un errore di lavorazione. Nessuno dei cinque, difetto incluso, si è fatto notare. Tutti sono entrati nel ricordo.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

4 Commenti

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amadio ruggeri

circa 6 anni fa - Link

Come sempre Emanuele, sei "er mejo fico del bigonzo", scrittura luminosa ed evocativa, in barba ai teso-agile-salino-lungo-e-persistente. Sono d'accordo, è senza dubbio la più interessante degustazione della capitale insieme a quella della Fivi (da quest'anno anche a Roma finalmente). Ricordo, tra i vari assaggi, i vini buonissimi di Marilena Barbera (ormai una certezza), Garlider, Fattoria di Caspri...e poi sì, l'incanto dei vini di Giovanna Morganti, tanto per smentire chi ormai si è assuefatto al "mai 'na gioia".

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Emanuele

circa 6 anni fa - Link

"Er mejo fico der bigonzo"... Che bellezza. Un modo di dire che usava mia nonna, emigrata ragazza e inurbata a Trastevere dalle Marche... Grazie.

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Alessandro

circa 6 anni fa - Link

Un occhio di riguardo da parte dell'organizzazione nei confronti degli operatori del settore sarebbe stato ben gradito. Evitando cosi di richiedere il pagamento per l'ingresso nel caso di mancato o tardivo accredito. Peccato.

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Emanuele

circa 6 anni fa - Link

Credo che in realtà la questione sia virtualmente risolta negli stessi termini nei quali è posta: un tardivo accredito è un non-accredito, un mancato accredito anche. Sui criteri di selezione delle richieste di accredito, infine, non potrei pronunciarmi perché non li conosco. Tuttavia, quando mi è toccato un diniego non ho sollevato obiezioni. Se l'organizzazione "... si riserva il diritto di valutare..." etc. etc., tocca starci. Il diritto d'ingresso si acquista. Può non piacere, ma è così.

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