Milano Whisky Day 2016 | Nel tempio dello spirito scozzese (passando per l’entrata principale)

Milano Whisky Day 2016 | Nel tempio dello spirito scozzese (passando per l’entrata principale)

di Thomas Pennazzi

Sabato 14 maggio a Milano si è tenuta nelle sale dell’hotel Marriott la seconda edizione del Milano Whisky Day, un format diverso dalle giornate autunnali del festival milanese, ma con le stesse scene e regia. Più raccolta e meno marketing-oriented, la manifestazione ha attratto un vasto pubblico di appassionati, tra cui molti under 30: il whisky è ormai giovane e hipster.

L’ambiente meno affollato, con ampi settori in cui sedersi a chiacchierare, ha permesso una degustazione più rilassata e meditativa. Le conferenze organizzate durante l’evento, tenute da personaggi di primo piano del whisky, hanno aggiunto valore alla giornata diffondendo la cultura di questo spirito tra i numerosi ascoltatori presenti.

Il mondo milanese del whisky si scopre ricco di iniziativa, di socialità e di condivisione: l’impressione che se ne ricava è di un ambiente in cui non si va solo per assaggiare o forse sbevazzare, ma per approfondire temi, singole distillerie, o incontrare persone che del whisky fanno la loro ragione di vita. E a Milano ce ne sono di fama mondiale.

Tra i motivi che mi hanno fatto tornare sui bicchieri dello spirito (non solo) scozzese, che finora non mi ha mai entusiasmato, uno era cercare di capire se ci fosse un qualche filo logico, meglio ancora: una parvenza di terroir, per orientarsi nella selva degli imbottigliamenti, che sono decine e decine di migliaia; una quantità strabocchevole di etichette che nulla hanno da invidiare al mondo del vino, e che richiedono uno studio meticoloso per districarsi tra le distillerie ed i loro prodotti sempre più vari. In realtà ho scoperto che una logica non c’è più da gran tempo, e se gli uomini degli uffici marketing vi fanno ancora credere al romanticismo di una tradizione, sappiate che vi hanno venduto delle favole. Il whisky ormai è industria, e come tale agisce. Se poi ci sono nel mucchio alcune bottiglie eccezionali, non è la norma: lo saranno anche nel prezzo.

Detto questo, mi sono lasciato guidare nella scoperta di qualche dram, e stavolta ne ho trovati di interessanti. In alcuni di questi ho incontrato acquaviti degne di tenere testa agli spiriti francesi di alto livello. Il problema è che, comprensibilmente, queste bottiglie non sono mainstream, e per arrivarci dovete fare una dura gavetta, oppure avere un portafogli profondo, più probabilmente entrambe le cose.

La mia fortuna è di conoscere alcuni personaggi che nel mondo del whisky nostrano possiamo considerare come Maestri Venerabili di non troppo oscure logge alcoliche. È grazie a loro che, saltando l’impegnativo percorso iniziatico, sono potuto entrare nel tempio dello spirito scozzese dallo scalone d’onore, e non da buie e muffose scalette a chiocciola per cui salgono gli apprendisti. Per magnanimo, mi hanno considerato degno di accedere ai misteri del loro alto grado, sotto lo sguardo benevolo del Gran Maestro Giorgio d’Ambrosio. E questi misteri mi si sono rivelati in tutto il loro accecante splendore.

Chiacchierando piacevolmente con Claudio Riva, anima del Whisky Club Italia, e Davide Romano, manager della Valinch&Mallet, neonata azienda che seleziona ed imbottiglia Single Cask whisky di alto lignaggio – dopo aver bevuto insieme un cognac Delamain trentacinquenne che avevo osato contrabbandare nel tempio di rito scozzese, profanandolo – mi è stato offerto un 17yo di questa Casa, dal frutto ampio ed aromatico. Note basse, maltate, rivestite di un intenso profumo di ananas: al palato era pastoso, rotondo e completo, mai gridato; una fine scoperta. Distilleria (Glentauchers) e selezionatore mai sentiti, ma ad un ignorante poco importa: il bicchiere si raccontava da solo, nobilmente.

Ecco poi un The Balvenie della serie Tun, blend di una decina di singole botti di razza, che nulla aveva da invidiare all’intricata complessità di un grande cognac: lunghezza, tannino, aromi scuri e stratificatissimi, un assaggio austero e profondo. Uno degli esempi in cui si sarebbe messi a dura prova in un confronto alla cieca, tanto era complesso ed appagante questo bicchiere. Finalmente un whisky con cui trascorrere in meditazione una lunga serata d’inverno! Se poco tempo prima un 25yo della stessa Casa mi aveva lasciato freddo, con questo è stato tutto il contrario.

Un altro assaggio, per cui ringrazio stupito il nume tutelare della rassegna milanese, Giuseppe G. Dolci, mi ha sorpreso notevolmente: uno spirito molto chiaro, velato solo da una delicata torbatura, che per il mio naso nulla aggiunge alla materia prima, mi ha regalato un quarto d’ora di felicità. La distilleria (giapponese) si chiama Chichibu: era una prova di botte non ancora in commercio, dal corpo opulento, e ricchezza ed aroma folli per i suoi neanche 4 giovanissimi anni. I 61° del cask strenght si nascondono piuttosto bene in questa materia luminosa, segno di una grande bottiglia. Questo master distiller dev’essere un mostro di bravura se in così poco tempo riesce a cavare dal grano qualcosa di affatto stupefacente. Si chiama Ichiro Akuto, nomen omen? Fossi un selezionatore, domattina stessa comprerei la botte en primeur per attenderne un’evoluzione radiosa.

A farla breve, anche nel whisky c’è roba eccelsa, eccome: ma si nasconde accuratamente nella foresta di bottiglie in commercio. Un bevitore senza adeguata istruzione potrebbe non incontrarla mai. A questo rimedia però la viva e condivisa socialità del mondo whisky: forum, blog, eventi, seminari, club, degustazioni sparse, scambio ed acquisto di campioni, che mettono l’appassionato in condizione di capire ed assaggiare una quantità di bottiglie che mai potrebbe permettersi, a doverle comprare intere.

C’è di che essere invidioso, da amante dei brandy.

[Immagine – Crediti]

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

4 Commenti

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Nelle Nuvole

circa 8 anni fa - Link

Bravo Thomas! Conoscendo il tuo forte penchant "cognaccoso" apprezzo ancora di più questo bello scritto relativo alla possibilità di grandezza del burbero scozzese.

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Gius

circa 8 anni fa - Link

Profonda Invidia!!!

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Leonardo Finch

circa 8 anni fa - Link

Il whisky è industria e probabilmente lo è sempre stato fin da quando è uscito dalle remote distillerie clandestine sulle rive del Livet. Forse fino a qualche anno fa era più facile districarsi fra le etichette per trovare quelle di qualità anche all'interno del range di produzione di una singola distilleria. Oggi è un fiorire di whisky senza indicazione di annata, spesso un modo per liberarsi a prezzi salatassimi dei giovani whisky da blend, più raramente grandi assemblaggi selezionati oculatamente. Il risultato è comunque che i prezzi si alzano mostruosamente e se prima bere un grandissimo whisky non comportava un esborso mostruoso, adesso è diventato quasi impossibile permettersi i top (anche se qualche selezionatore ogni tanto tira fuori roba interessante a prezzi ragionevoli). L'argomento terroir, poi, tira fuori i peggio istinti sia degli appassionati che degli addetti al marketing. A mio parere si tratta di qualcosa di quasi intangibile e difficilmente applicabile al mondo del whisky, se non in rarissimi casi... e non approfondisco oltre per non infilarmi in un ginepraio. Per quanto riguarda i giapponesi devo dire che sempre di più danno segno di essere abilissimi distillatori e i loro whisky sono caratterizzati sempre più spesso e con costanza da pulizia, finezza e dettaglio. Manca però quella "ruvidezza" scozzese che spesso aggiunge carattere e complessità e che è propria solo dei migliori whisky scozzesi (che sono pochi). Mi scuso per essermi dilungato e ringrazio Thomas per il resoconto ispirato e assolutamente realistico.

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thomas pennazzi

circa 8 anni fa - Link

Grazie del commento, signor Finch. Per quel che riguarda il terroir - relata refero - se ancora ha qualche senso in Scozia, se ne trovano scampoli su Islay ed a Campbeltown, non oltre. Ma ormai tutti fanno di tutto, ed i giapponesi anche. I distillatori del Sol Levante mostrano grande abilità ed eleganza, ma a loro manca "quel certo non so che di sporco" come ci racconta lei, che dona chiaroscuro alla grande opera (cfr. il mio articolo su Capovilla). E' il "difetto" dei perfezionisti, ma facciamocene una ragione. Da loro si beve quasi sempre molto bene.

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