Lume a Milano. Luigi Taglienti è un Sandro Chia della Transavanguardia in cucina

Lume a Milano. Luigi Taglienti è un Sandro Chia della Transavanguardia in cucina

di Leonardo Romanelli

La prima cosa che ti viene in mente arrivando, magari girovagando per la città è: solo a Milano! Sì, solo a Milano si può pensare e realizzare un ristorante di “alto livello” (si dice così vero?) in un capannone industriale dismesso, in quella che era una volta il vecchio stabilimento della Richard Ginori. Il tutto è inserito in un complesso denominato W37, dove si trovano anche loft e appartamenti. Ora, non che il nome Lume sia stato scelto perché ci troviamo in via Watt, o almeno non solo: è il gioco di luci che filtra da fuori dell’edificio, apprezzabile durante il giorno, che vuole e deve essere protagonista, o quello creato artificialmente la sera. Altrimenti non si spiega il perché del colore bianco che domina, ma questo lo sapranno bene gli architetti che hanno compiuto il recupero di questo sito di “archeologia industriale”.

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Due sale e la cucina a vista, dalla quale emerge senza nascondersi Lugi Taglienti, lo chef che potrebbe benissimo fare il modello, in altra situazione: due metri di altezza, fisico longilineo, quando arriva al tavolo e ti guarda dall’alto in basso (devo dire che lo farebbe con me anche se fossi in piedi) incute un certo timore. Si intuisce che è un tipo riservato, un po’ lo stereotipo del ligure e, dicendola tutta, è quello che riesce a trasferire alla sua cucina. Austera ma essenziale, semplice ma non banale, più che un Mario Merz dell’arte povera, un Sandro Chia della Transavanguardia.

Eh sì, perché qui non cerca di fare cucina con materiale di recupero, la materia prima è nobile, lo scopo è quello di esaltarla con pochi tocchi, cotture essenziale, ingredienti misurati. Qui non c’è il rischio di trovare troppi ingredienti nello stesso piatto, e un menu degustazione di 13 portate scorre che è una meraviglia. Il personale di sala lavora come un metronomo, regolare, preciso: la richiesta era di mangiare in poco più di un’ora e mezza causa partenza treno ed è stata rispettata senza fatica alcuna, nemmeno da parte mia.

Quindi, che fare, una volta varcata la soglia, se non ci si vuole accomodare un attimo all’ingresso per l’aperitivo? Affrontare un menu, scegliendo tra la degustazione a 150 euro, innovativa, quella a 130 di 8 portate, che strizza l’occhio più ai classici milanesi, opportunamente rivisitati o la carta, dove conviene fermarsi quando l’esperienza vuole essere di due piatti, breve ma intensa.

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Acqua, olio, limone e liquirizia serve a preparare la bocca con note acide al piatto successivo, che è dato dal  Bianco e nero di seppia, ardimentoso esempio di lavorazione degli elementi in diverse consistenze, più strano che buono.

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Mandorla e dragoncello, essenziale e diretta, Asparago bianco, nocciola e bergamotto geniale per croccantezza e gioco di profumi, Pompelmo rosa, cerfoglio e filoni di vitello dove il midollo spinale panato e croccante si alleggerisce con l’agrume, con bel retrogusto.

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Ostrica, borraggine e maggiorana è da mangiare ad occhi chiusi, per ricordarsi aromi e sapori ma la consistenza è stravolta. Astice e potage di lumache bianche è intrigante per la parte dei contrasti, ben riuscita, ed anche la Coda di rospo al sugo di vitello, con la salsa che ridà vita al pesce. Poi c’è lui, il Piccione al rosmarino: il petto nudo, cotto al sangue ma non grondante con un ristretto di rosmarino per accompagnare la carne.

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Troppo perfetto, troppo morbido, cede sotto i denti senza fatica, non ha rosolatura. Cedo anche io, non lo finisco, tende allo stucchevole, ma tecnicamente ineccepibile. Cipolla e oro, una sorta di pre-dessert invitante e infine Latte di scampi con crème caramel all’aneto, il dolce moderno che soddisfa i golosi e i non golosi. Poi si avvicina lo chef e guardandomi sempre dall’alto verso il basso (non può fare altrimenti, è vero!) chiede cosa non andava nel piccione. Faccio la mia spiegazione ma dalla sua espressione so già cosa penserà delle mie osservazioni. In tutto questo sono due i vini bevuti, lo Champagne Terre de Meunier di Dehours e il Fuori dal tempo… 2001 di Radikon, scelti in una carta ampia e non banale, con uno scambio interessante e utile con il sommelier.

Uscendo mi veniva in mente una bomboniera, ma forse mi sbagliavo.

 

LUME
Via G. Watt, 37
20143 Milano

t: +39 02 80888624
restaurant@lumemilano.com
ORARI DI APERTURA
Pranzo dalle 12.00 alle 14.00
Cena dalle 19.30 alle 22.00
Chiuso domenica a cena, lunedì tutto il giorno.

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Leonardo Romanelli

“Una vita con le gambe sotto al tavolo”: critico gastronomico in pianta stabile, lascia una promettente carriera di marciatore per darsi all’enogastronomia in tutte le sfaccettature. Insegnante alla scuola alberghiera e all’università, sommelier, scrittore, commediografo, attore, si diletta nell’organizzazione di eventi gastronomici. Mescolare i generi fino a confonderli è lo sport che preferisce.

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