Levante, Ponente e area del Genovesato nella storia del vino ligure. Parte 1, a Levante

Levante, Ponente e area del Genovesato nella storia del vino ligure. Parte 1, a Levante

di Pietro Stara

La coltivazione della vite nella mia regione è un fatto storico risalente. Qui ho raccolto estratti da molti testi a mia disposizione, e provo ora a raccontare come questa storia si è sviluppata, divisa nelle tre aree essenziali, cominciando dall’estremo Levante.

I due autori più rilevanti che hanno scritto sui vini delle Cinque Terre sono Giacomo Bracelli, cancelliere della Repubblica di Genova e suo storiografo, morto intorno al 1466, e Flavio Biondo da Fori, contemporaneo del Bracelli, con il quale egli è in corrispondenza nel 1448. Nel 1418 il Bracelli accenna alle Cinque Terre nella sua prima descrizione della Liguria, chiarendo che ivi si producono i vina vernacia noncupata, rocesi et amabilia: «Riomazorium quidem post Portumveneris situm est iuxta mare, cingitur muro; solum adeo creatum quod vina, vernacia noncupata, rocesi et amabilia, gignit (1)».

Un secolo più avanti, Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, pontefice romano (1534 – 1559), che ci ha lasciato gli appunti in cui descrive i 53 vini “giudicati da Papa Paolo III e dal suo bottigliere Sante Lancerio”, tratteggia in maniera chiara ed inequivocabile il vino levantino delle Cinque Terre: «Vino Razzese: Viene dalla Riviera di Genova et il meglio è di una terra detta Monterosso, et è vino assai buono. Et è stimato assai in Roma fra li Genovesi, come fra li Venetiani la Malvagìa. Ne vengono in Roma piccioli caratelli. A volere conoscere la sua perfetta bontà, bisogna che sia fumoso e di grande odore, di colore dorato, amabile e non dolce. Tali vini non sono da bere a tutto pasto, perché sono troppo fumosi e sottili. Di tale vino S. S. (il cardinale Ascanio Sforza cui la lettera è dedicata) non bevevo, ma alcuna volta alle gran tramontane faceva la zuppa, ovvero alla stagione del fico buono, mangiatolo mondo et inzuccherato, gli bevevo sopra di tale vino, massime del dolce et amabile e diceva essere gran nodrimento alli vecchi. In questo luogo dove fa tale vino, usano farlo dolce sopra la vite, quando l’uva è matura, col pigiare il racemolo e poi lo lasciano attaccano alla vite per otto giorni, e còltolo fanno vino buono e perfetto».

Così pure Andrea Bacci, nominato nel 1587 archiatra (medico personale) di papa Sisto V, ricorda il vino ligure di Levante, le squisite vernacce e il razzese delle Cinque Terre, un bianco liquoroso che, sotto il calore del sole matura sin dai primi giorni di luglio. Allo stesso tempo e modo, il Bacci cerca di fornire un etimo al nome “Razzese” operando una conversione fonetica nascosta, da doppia “zz” a doppia “ss”, e lo associa al Monte Roseo da cui avrebbe tratto un colore “rosato” in tarda maturazione (2).

Un altro noto agronomo fiorentino del Cinquecento, Giovan Vittorio Soderini, nel suo “Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se ne può cavare”, racconta i metodi in uso al suo tempo per produrre l’amabile e il razzese: «Quegli, che nella riviera della Spezia fanno il razzese e l’amabile, fanno l’uno e l’altro vitigno medesimo, percioché, volendo fare l’amabile, quando l’uva è matura storcono il picciuolo là dove egli sta attaccato alle viti a tutti i grappoli, havendoli spampanati bene che il sole vi batta sopra, lasciandoli così per quindici giorni; dippoi li coggono a far l’amabile. E volendo fare il razzese, quando è pur matura, la spiccano dalle viti senz’altro, e così si può fare a chiunque tu vogli vitigno per fare il vin dolce, senz’altra manifattura».

In un testo di Giovanni Sforza, introduzione al volume Ennio Quirino Visconti e la sua famiglia, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria» del 1923, l’autore fa riferimento allo Statuto della Gabella di Sarzana, alle rubriche 12 e 13, in cui si menzionano i preziosissimi vini di Vernazza che gli abitanti chiamano Vernaccie e altrimenti Rocesi. Nello Statuto della Gabella delle Vicarie lucchesi dell’anno 1372, quando la città di Massa appartiene al territorio di Lucca, si parla invece del “vini vernaccie” e del dazio di entrata e di uscita pari a dieci lire, mentre nello stesso statuto, a margine e d’altra mano, viene scritto «excepto vino razese, de quo solvatur ut de vino corso». Da ciò si può desumere che il vino razzese fosse uno dei vini vernaccie, ovvero provenienti da Vernazza e che quindi indicasse un vino piuttosto che un vitigno e che solamente più tardi sia stata creata una sostanziale interscambiabilità dei nomi per indicare lo stesso vitigno e lo stesso vino.

Quella stessa vernaccia che spunta dalla penna del Boccaccio nella seconda novella della decima giornata del Decameron (1350-53), in cui Corniglia emerge come la migliore produttrice del famoso vino rispetto a zone contermini: «Allora in una tovagliola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Coniglia». Come il Boccaccio, anche Franco Sacchetti nelle sue Trecentonovelle (1390), parla ancora della vernaccia di Coniglia. Tanto nota che Sacchetti fa addirittura riferimento all’importazione dei magliouli del prezioso vino in terra di Toscana: «Tanto è grande lo studio di vino che da un gran tempo in qua gran parte dell’Italiani hanno si usato ogni odo d’avere perfettis­simi vini che non si sono curati di mandare, non che per lo vino, ma per li magliuoli d’ogni parte; acciocché ognora se li abbino veduti e usufruttati nella loro posses­sione, e perché siano stati chierici, non hanno auto il becco torto. Fu, non è molti anni, un cavaliere ricco e savio nella città di Firenze, che ebbe nome messer Vieri de’ Bardi, il quale era vicino al piovano all’Antella, là dove un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande stato, per onore di sé e per vaghezza nel suo alcuno nobile vino straniero, pensò di trovare modo di far venire magliuoli da Portovene­re della vernaccia di Coniglia. Così finisce il Sacchetti: «Questa novella mi fu narrata a Portovenere, là dove io scrittore nel 1383 arrivari, andando a Genova”».

Quella nobile vernaccia di cui narra, poco più in là, Giacomo Bracelli nella sua De bel­lo hispaniensi orae ligusticae descripti (1448): «sul litorale (ci sono) cinque castelli quasi alla stessa distanza tra di loro: Monterosso, Vulnetia, che ora il volgo sul litorale chiama Vernazza; Corniglia; Manarola; Riomaggiore; non solamente in Italia, ma presso i Galli ed i Britannici celebri per la nobiltà del vino. Cosa degna a vedersi come spettacolo, i monti, non solamente in pendenza dolce, ma tanto ripidi che nel sorvolarli affaticano anche gli uccelli, sassosi, non trattengono l’acqua, cosparsi di vigna così scarna e gracile che sembra più simile all’edera che alla vite: da qui viene un vino per la tavola del re».

[Crediti immagine: Wikipedia]

1. G. Andriani, Giacomo Bracelli nella storia della geografia, in « Atti della Società ligure di storia patria », LII, 1924, p. 245.
2. Andrea Bacci, De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de conuiuijs antiquorum libri septem, Niccolò Muzi, Roma 1596, pp. 308 – 310

Bibliografia necessaria
Alessandro Carassale, Il Rossese di Dolceacqua. Il vino, il territorio di produzione, la storia, Atene Edizioni, Taggia (Im) 2004;
Alessandro Carassale e Alessandro Giacobbe, Atlante di vitigni del Ponente Ligure. Provincia di Imperia e Valli Ingaune, Atene Edizioni, Taggia (Im) 2008.
In terra vineata, La vite e il vino in Liguria e nelle Alpi Marittime dal Medioevo ai nostri giorni. Studi in memoria di Giovanni Rebora, Philobiblon, Ventimiglia (IM) 2014
Laura Balletto, Vini tipici della Liguria tra Medioevo e Età Moderna, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medievale e Moderna, Quaderni della Rivista di Storia dell’agricoltura, Accademia economico-agraria dei Georgofili, Firenze 1989;
Laura Balletto, Il vino a Ventimiglia alla metà del Duecento, in Studi in memoria di Federigo Melis, Giannini Editore, Napoli 1978;
Laura Balletto, Quando Ventimiglia era nota soprattutto per il suo vino, in “Liguria”, Rivista mensile di attualità e cultura, Anno 62°, N. 9 -10 Settembre/Ottobre 1995

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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