La grappa piacentina è buona: si chiama Distina

La grappa piacentina è buona: si chiama Distina

di Thomas Pennazzi

Ci si lascia alle spalle Castell’Arquato, medievale borgo turrito a picco sulla Val d’Arda, per arrampicarsi sulle sue colline, qui dove l’Appennino le riversa a valle senza dolcezza, come fossero lame conficcate nella vastità della pianura padana: coste larghe giusto lo spazio di uno stradello e qualche braccio di terra su cui appoggiano, diresti malferme, le case, per poi precipitare in un nuovo vallone tappezzato di vigne.

C’era un tempo in cui in queste conche v’era un florido andirivieni di pazienti: l’antico mare, intrappolato tra i colli, emerge ancora negli abbondanti fossili della zona e nelle fonti termali di Bacedasco, Tabiano e Salsomaggiore. Oggi nelle benefiche virtù delle acque salsoiodiche e sulfuree la gente confida – a torto – sempre meno, ma al vino della zona il credito non manca mai. Possono ben testimoniarlo il generoso gutturnio, le briose malvasie, l’autoctono ortrugo, e la gloria dell’enologia piacentina: il vin Santo di Vigoleno, minuscola, amena rocca merlata a guardia dello Stirone; varcato il quale si entra nelle terre parmensi del già duplice ducato farnesiano.

Panorama

In questo scenario agreste tra terme e castelli il giovane Claudio Campaner, lasciato un grigio impiego d’ufficio nella metropoli lombarda, ha trovato la sua realizzazione nel diventare contadino, vignaiolo e distillatore, battezzando la sua azienda di Bacedasco col nome Distina. Un piccolo e felicemente esposto vigneto di proprietà, un altro in affitto, e alcuni progetti in via di realizzazione gli hanno permesso di sviluppare queste sue passioni, la prima delle quali è l’alambicco, facendole diventare una professione.

Già, l’alambicco: bisogna essere insieme sognatori ed avere fegato per avventurarsi nel mondo della distillazione in un paese come l’Italia, che fa di tutto per scoraggiare – unico in Europa – lo sviluppo di questa nobile arte. Ma Campaner era determinato: dopo i corsi a Conegliano e l’alta scuola con un maestro d’eccezione, non ha esitato ad impiantare sui suoi colli la piccola distilleria, ed a cominciare a lambiccare le sue vinacce: in Francia verrebbe chiamato a giusto titolo un bouilleur de cru.

L’ho visitato l’anno scorso, a cotte appena concluse, per conoscerlo e capirne il progetto; l’impressione è stata vivida. Un vignaiolo serio, preciso, competente, appassionato, e con il vantaggio di essere ancora nel fiore dei suoi anni. Claudio potrà permettersi di sperimentare, ed anche il lusso di imboccare magari strade sbagliate, per ritornare poi agevolmente sui suoi passi, una volta cresciuto in esperienza. Sono tornato da lui pochi giorni fa, ad assaggiare le sue prime grappe, finalmente imbottigliate e pronte per il battesimo del mercato ed il giudizio del pubblico. E non sono rimasto deluso, tutt’altro.

Accanto a due vini dei suoi vigneti, bianco e rosso, coltivati col metodo biodinamico e vinificati secondo lo stile neo-piacentino di Armani, di Croci, e degli altri, Campaner ha prodotto tre acquaviti assai eloquenti e territoriali, nonostante fossero la sua opera prima. Innanzitutto, la grappa da vinacce di ortrugo, la più particolare: timida al naso, ci mette del tempo a farsi capire, ma si rivela avere profumi del tutto propri ed originali tra la moltitudine delle vinacce bianche. Degustandola, dapprima appare erbacea, si fa poi più ampia col riposo nel bicchiere, e vorresti chiamarla perfino semi-aromatica sebbene non lo sia affatto; il finale secco e armonioso svela l’anima appagante di questo vitigno, a buon diritto il protagonista della viticoltura piacentina.

La seconda, da vinacce di malvasia di Candia e moscato, ha gioco facile: invogliante, ricca, profumata, seduce in scioltezza tutti i nasi, anche i più schizzinosi, quelli che «a me la grappa non piace». Gli aromi eterei rosati e fruttati dei due vitigni si ritrovano ben distinti anche al palato, e senza l’onta dello zucchero aggiunto. La morbidezza, qui, è frutto di natura.

L’ultima è la grappa maschia, quella da vinaccia nera. Come da tradizione del luogo, nasce dalla barbera e dalla bonarda maritate, l’uvaggio che produce l’altra classica bottiglia della zona, il gutturnio. Il bel naso deciso e vinoso, con parecchio fruttato, invoglia subito all’assaggio: ne avverti in bocca la pienezza, pensi subito al tannino ed al gusto della buccia, reminiscenze di vino e di uva. Ma sono solo la loro quintessenza.

Capovilla

Minimali le etichette, di bella mano, e di parecchia soddisfazione il contenuto, quindi. I fili conduttori della piccola produzione eco‑consapevole di Distina sono la chiarezza espressiva e la valorizzazione della tipicità del territorio, unite alla filiera corta: dalla vigna fino al nostro bicchiere, passando per l’alambicco dell’unica micro‑distilleria artigianale piacentina.

A voler cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe obiettare che queste grappe si avvicinano organoletticamente a delle acquaviti di frutta, mancando del mordente di una grappa tradizionalmente intesa: tendono infatti a mettere in luce le note più aeree e pure del distillato. Non ci stupisce, essendo Campaner uno dei figli in spirito del maestro Capovilla. Ma Claudio ha tutto il tempo davanti a sé per conseguire il proprio personalissimo stile. Tenetelo d’occhio: sono sicuro che saprà sorprenderci, e anche molto presto.

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto non può ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito, e da qualche anno ne scrive in rete sotto pseudonimo.

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