Italian Wine Unplugged, 430 vitigni italiani nel libro di Stevie Kim e Ian d’Agata

Italian Wine Unplugged, 430 vitigni italiani nel libro di Stevie Kim e Ian d’Agata

di Redazione

Ulrich Kohlmann, “fondatore e proprietario” di Tuscantasting.it, ci ha inviato questa recensione. La pubblichiamo con piacere.

Conoscere il proprio pubblico è uno dei requisiti fondamentali della comunicazione. Lo sanno bene Stevie Kim, direttrice di Vinitaly International, e Ian D’Agata, direttore scientifico di Vinitaly International Academy, che da molti anni comunicano il vino italiano all’estero, in particolare in Cina, Usa e Russia. Da queste esperienze nasce l’idea di un libro che presenta il vino italiano non partendo dalle denominazioni ma dai vitigni: Italian Wine Unplugged

C’è un perché. Provate, per esempio, a spiegare ad un cinese la differenza tra un Prosecco DOC e un Prosecco DOC Treviso o Prosecco DOC Trieste, le diversità di un Asolo Prosecco DOCG in confronto a un Conegliano Valdobbiadene Prosecco DOCG, un DOCG Conegliano Valdobbiadene Spumante Brut Rive di Solighetto e un Superiore di Cartizze. Si capisce subito: non funziona.

Ma funzionerebbe meglio focalizzando centinaia di vitigni? Incoraggiati dal successo di Ian D’Agata’s ‘Native Wine Grapes of Italy’ (Book of the Year 2015 del Louis Roederer International Wine Award), gli autori pensano di sì.

Il libro è diviso in tre parti. La prima offre una breve ma incisiva presentazione dei temi, storia, geologia e clima, e affronta il sistema delle classificazioni del vino italiano, la famosa piramide della qualità.

La seconda parte chiarisce alcuni termini essenziali come clone, biotipo o fenotipo e informa sulla scienza genetica applicata allo studio dei vitigni, prima di presentare oltre 430 varietà di vite iniziando da quelle fondamentali per poi passare a quelle meno conosciute e infine ai vitigni rari. Questa parte, che deve molto al libro di Ian D’Agata, è particolarmente riuscita in quanto dà una sintesi maneggevole per lo studio ed anche pratica per una consultazione rapida.

Schede grafiche che illustrano le caratteristiche e le parentele di cento vitigni chiave sono al centro della terza parte. Completano il libro una presentazione sintetica delle varie regioni vinicole e un elenco delle loro denominazioni. La grafica di questa parte è smart, sviluppata per chi vuole memorizzare più facilmente questa enorme mole di informazioni.

Scritto in un inglese moderno, con una terminologia sobria ma precisa, si rivolge ad un pubblico internazionale, alla comunità dei wine lovers ma soprattutto ai professionisti attivi nel commercio e nella ristorazione. Non a caso è anche il libro di testo ufficiale per il primo livello (Italian Wine Maestro) dei corsi della Vinitaly International Academy, un programma didattico ideato per formare i wine sellers di domani.

Accoglieranno il messaggio? Credo di sì. Nei tempi della globalizzazione un approccio comunicativo che focalizza i vitigni e non la sovrastruttura spesso bizantina delle denominazioni può essere la carta vincente. Per vari motivi.

Prima di tutto, profumi e aromi locali, specifici e irripetibili altrove, hanno oggi un appeal più forte del gusto unificato. L’eterno ritorno di chardonnay, cabernet sauvignon e merlot dozzinali che hanno inondato i mercati di tutto il mondo ha stancato molti consumatori, soprattuto i giovani. Diversamente, vini ottenuti da Nasco, Pecorino, Foglia Tonda, Magliocco Dolce ed altri vitigni autoctoni trasmettono un senso di autenticità e appartenenza che milioni di viaggiatori cercano ogni anno visitando il Bel Paese.

Non sarà facile creare un mercato stabile per questi prodotti, visto che la curiosità per il nuovo e il diverso è spesso volubile, ma il grandissimo patrimonio di questi vitigni è una risorsa unica. Non provare a sfruttarla sarebbe sciocco.

Secondo motivo, non meno importante, è che i vitigni d’Italia rappresentano una enorme biodiversità, un valore ecologico che in un periodo di cambi climatici comprensibilmente attira l’interesse del crescente mercato per i vini sostenibili.

Certo, tutto dipenderà dall’abilità di comunicare questa moltitudine. Presentarla tout court può anche spaventare un pubblico che fino a poco tempo fa beveva perlopiù vini ottenuti da tre o quattro vitigni internazionali. Bisogna illustrare non solo la pluralità del vino italiano ma anche l’unità nella diversità delle sue espressioni, cioè il filo rosso che lo attraversa e ne fa un tessuto storico-culturale unico. Altrimenti l’interesse dei mercati sarà molto selettivo o, ancor peggio, solo una moda.

Per fare questo non può mancare il racconto del legame col territorio, la cultura e la storia millenaria dell’Italia. E a questo punto le diverse denominazioni entrano di nuovo in gioco e sullo sfondo dei diversi vitigni diventano trasparenti, comprensibili e, perché no, anche affascinanti. Solo insieme creano uno stile inconfondibilmente italiano, avvincente quanto irripetibile altrove.

Da tempo vitigni come Sangiovese, Arneis e Fiano vengono sperimentati anche in California e tra poco la Cina seguirà. Gli autoctoni possono travalicare le frontiere e internazionalizzarsi. La cultura, la storia e i vignaioli di uno specifico territorio invece no.

In questa ottica il turismo del vino si dimostra un alleato naturale dei vitigni autoctoni. Chi beve un Nerello Mascalese in un bar di Hong Kong o New York potrà anche dimenticarlo, ma viaggiando nelle terre dell’Etna l’enoturista fa un’esperienza che si scolpisce nella sua memoria.

Anche per questo Italian Wine Unplugged dovrebbe essere letto non solo dagli studenti dei corsi di marketing del vino ma essere anche un vademecum delle aziende vinicole italiane con un pubblico internazionale, delle enoteche regionali e quelle delle città di grandi afflussi turistici.

Ulrich Kohlmann

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