Io e l’infanta tra alici del Cantabrico e txacoli

Io e l’infanta tra alici del Cantabrico e txacoli

di Samantha Vitaletti

“Santander la marinera es la que más quiero yo.
La que tiene azul el alma y al viento en su corazón”

Torno a Santander dopo più di dieci anni e la ritrovo esattamente come la ricordavo: luminosa, ventosa, elegante coi suoi lungomare ampi e spaziosi, distinta e pensierosa nell’abito quasi sabaudo dei palazzi bianchi che guardano il mare, signorile nelle piazze incorniciate dai portici; autentica e popolare, ma sempre naturalmente ordinata, nei vicoli che si rincorrono un po’ più all’interno. Come dice la canzone che i suoi abitanti vorrebbero come inno della Cantabria: Santander dall’anima azzurra e il vento nel cuore.

Quando viaggio con l’infante al seguito non parto più col taccuino pieno di annotazioni sugli indirizzi giusti dove mangiare e bere, per stare con l’anima leggera ed eliminare possibili ansie ho scelto di non programmare e di affidarmi al caso, perché spesso è sinonimo di fortuna. E devo ammettere che quest’incoscienza eno-gastronomica fino adesso è stata spesso ripagata dalla scoperta di inaspettati rifugi del buongustaio e tane del bevitore in cui forse per le solite vie non sarei capitata.

Come quando l’ora della pappa (sua) è magicamente coincisa con l’ora del cicchetto (nostro), ed è scattata dietro il maestoso palazzo del Banco Santander, sotto un’impalcatura, davanti all’insegna di un posto chiamato Cata Vinos che accoglie gli avventori offrendo la vista di un beneaugurante soffitto completamente rivestito di tappi di sughero e di una lavagna piena zeppa di vini provenienti da ogni regione spagnola. Un asterisco accanto al nome indica quelli che richiedono l’ordinazione di almeno tre bicchieri. Noi eravamo in due ma questo, naturalmente, non è stato un problema.

Lo spiego alla signora al banco che mi domanda premurosa: ma sei sicura che ti convenga? Rompiamo gli indugi e superiamo l’imbarazzo della scelta ordinando una certezza a cui siamo affezionate da sempre: Viña Tondonia 2005. Per me è vino del cuore e dei ricordi di tanto tempo fa, è in assoluto il primo vino spagnolo che ho assaggiato. Anche stavolta non mi delude: setoso, dritto e puntuto ma insieme profondo, avvolgente e sfaccettato seppur tanto serio nel suo aprirsi lentamente e concedendosi poco alla volta. Meno male che lo vendono a tre bicchieri a giro! Dopo Tondonia la cosa si fa più difficile, c’è tantissima roba alla mescita tra cui scegliere, dal Vega Sicilia al “rosso della casa” e per lo più si tratta di cose mai sentite e quindi tutte potenzialmente interessanti.

Senza millantare conoscenze inesistenti, mi affido alla signora al bancone. La quale mi domanda: “Lo conoces al “Muga”?”. Al sincero no sgrana gli occhi e quasi rimane male. “No conoces al Muga! Pues te lo doy”. E versa questo rosso prevalentemente di tempranillo (80%), garnacha, mazuelo e graciano, è una riserva 2014 e proviene da terreni posti alle altitudini maggiori della Rioja Alta. E’ un vino scenografico, un tenore che si affaccia sul palco a grandi passi rumorosi sotto il peso della sua stazza intonando un infinito do di petto. È spesso, concentrato, di sostanza, non è il mio genere perché troppo segnato dal legno, vanigliato e, appunto, tenorile laddove preferisco Farinelli, ma ne riconosco la “presenza scenica”.

Finiamo il giro aperitivo con un altro consiglio della signora del bancone: Marqués de Murrieta reserva 2014, ancora Rioja. Nonostante l’affinamento di due anni in botti nuove e seminuove americane il sorso non contiene burro di arachidi e creme di vaniglia, il tempranillo squilla e punta spilli e il bicchiere si svuota nel proverbiale tempo delle gioie brevi ma intense. Cata Vinos nel frattempo si è riempito di gente festosa che mangia e beve con gusto, un ritratto a colori della sana gozzoviglia a cui cediamo volentieri l’ambìto tavolino vista tapas. Nel frattempo si è fatta ora di cena e la fortuna ci assiste ancora una volta: a meno di cento metri da dove eravamo, troviamo riparo dall’improvviso scroscio di pioggia alla “Bodega Cigaleña”, sottotitolata “Museo del Vino”. Luci calde, pietra a vista, miriadi di bottiglie vuote e piene esposte in ogni dove. Dai DRC custoditi dietro grate di ferro a una mescita che cambia sempre divertente e ben assortita. Qui ricominciamo da capo e mentre scegliamo cosa mangiare sorseggiamo una mezzina di Boulard, Les Murgiers. Un albariño anonimo, perché l’ambo non esce mica sempre, accompagnerà coda di polpo e baccalà.

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A Bilbao arriviamo, guarda caso, a ora di pranzo. È sabato e la città è bella, viva e vociante, trabocca di quell’energia del sabato che è ancora tutta una promessa e una speranza piena di aspettative, è vita in divenire ancora tanto lontana dalle malinconie domenicali. I bar, i caffè e i ristoranti sono pieni sia dentro che fuori e non c’è chi non goda del primo caldo sole primaverile. In questa atmosfera vivace e rilassata facciamo la conoscenza del txakoli. In effetti è un vino anche se per i baschi è molto di più, è simbolo ed è storia. Comunque sì, in effetti è un vino: prevalentemente bianco (ma ne esiste anche di rosato e di rosso) con leggera presenza di carbonica, prodotto nei Paesi Baschi, in Cantabria e a Burgos. Se ne hanno tracce documentate fin dal XVI secolo. Ha una bassa gradazione alcolica, non supera i 12° ma se ne trovano molti a 10,5°-11°, viene prodotto con uve verdi per preservare la freschezza che lo caratterizza e a partire da varietà quali hondarribi zuri, hondarribi beltza e munematsa.

Le viti non sono piantate a filari paralleli e la raccolta continua ad essere esclusivamente manuale. Un tempo il vino era prodotto in casa ed era considerato di pessima qualità, noto per essere un vino “cabezòn”, che dava subito alla testa. I baschi ci tengono molto e lo hanno salvato dall’estinzione e dall’oblio ottenendo il riconoscimento della denominazione nel 1989. Il txakoli oggi è sinonimo di “vino che va bene a tutte le ore”, è perfetto come aperitivo, si accosta felicemente ai vari pintxos e soprattutto è di buona compagnia nelle lunghe ore trascorse ai tavoli del bar. Un prosecchino, in un certo senso, con dignità. La bassa gradazione alcolica lo rende oggi un vino tutt’altro che “cabezòn”, fa sì che se ne possano ordinare rabbocchi e bis senza grandi problemi legati all’ordine pubblico o alla morale. Effettivamente è onnipresente, simbolo di una tradizione profondamente radicata che i produttori tramandano di generazione in generazione da secoli.

Rientriamo a Santander per l’ultima cena prima del ritorno a casa. Scegliamo La Casa del Indiano nel Mercado del Este dove alle immancabili alici del Cantabrico abbiniamo senza alcuno studio scientifico preparatorio e spingendoci fuori zona, un albariño delle Rias Baixas, Vionta, di Bodegas Vionta, 2017, macerazione sulle bucce. La retroetichetta merita da sola una menzione, almeno per noi romantici fresconi. Vi si legge infatti:

Vionta è l’isola dei sognatori. Se cerchi la perfezione, se sogni il sapore inconfondibile del raggiungere luoghi che nessuno ha raggiunto, segui quella strada. Lanciamo al mondo questo messaggio in bottiglia dalla nostra isola galiziana dove un giorno abbiamo sognato di creare l’albarino perfetto e adesso lo hai nelle tue mani.

Ah, il genio del marketing sentimentale, quello da cui mi faccio volentieri imbambolare e che su di me ha sempre effetto! E infatti non mi importa che dietro quest’azienda ci sia la famiglia Ferrer, quella del Freixenet! Ma in questo caso, senza scomodare la perfezione, che nessuno in fondo sa cosa sia e che, seppure esistesse, sarebbe quantomeno noiosa, noiosa come un 100 centesimi.

Vionta è un’isoletta di fronte alla Galizia, boscosa e ammantata di quell’aura leggendaria che hanno le isole nordiche, l’azienda è sulla terraferma, di fronte, e guarda il mare, le vigne ne respirano l’aria. Ma soprattutto, e in fondo è quello che conta, questo vino è buono veramente: spigoloso senza ferire, fruttato con misura, verde senza screpolature, gustoso con la sua salinità in trasparenza, appagante nel ricordo, a bottiglia finita, luci spente e sipario calato.

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Samantha Vitaletti

Nascere a Jesi è nascere a un bivio: fioretto o verdicchio? Sport è salute, per questo, con sacrifici e fatica, coltiva da anni le discipline dello stappo carpiato e del sollevamento magnum. Indecisa fra Borgogna e Champagne, dovesse portare una sola bottiglia sull'isola deserta, azzarderebbe un blend. Nel tempo libero colleziona multe, legge sudamericani e fa volontariato in una comunità di recupero per astemi-vegani. Infrange quotidianamente l'articolo del codice penale sulla modica quantità: di carbonara.

1 Commento

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Salvo

circa 5 anni fa - Link

Mi è piaciuto molto il tuo articolo. Ho provato molti dei vini che hai citato. La txakoli si versa anche in un modo tutto particolare; è necessario alzare in alto il braccio dove si ha il vino e abbassare quello con il bicchiere, coordinandosi. Non è facile ma l'ho imparato.

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