Into the wild, Liguria. Derive enogeografiche con Rocche del Gatto e Deperi (video)

Into the wild, Liguria. Derive enogeografiche con Rocche del Gatto e Deperi (video)

di Redazione

Riceviamo questi appunti molto estivi di Leone Zot, che altre cose qui ha già prodotto. Ecco quindi a voi.

Evitare le piogge di metà agosto è stata la geometria che ha disegnato questa traiettoria, casuale, senza decisioni definite. Ho preso la moto e sono partito, dormendo nei boschi e lavandomi nei torrenti, rincorrendo l’orizzonte per sfuggire dai fronti nuvolosi. Da Genova verso Albenga attraverso la Riviera ligure di ponente.

L’antica Albium Ingaunum, città dei Liguri Ingauni, sorge su una piana alluvionale alimentata dal fiume Cento. Qui incontro Fausto de Andreis della cantina Rocche del Gatto. Un uomo alto, con gli occhi dolci, la parlata lenta e distesa che cela, dietro la formazione da tecnico elettronico un rabdomante che con l’antica arte individua le direzioni della vita. Chiacchieriamo e beviamo tutto il pomeriggio. Fausto sa che le sue scelte di vignaiolo non sono allineate con il resto del panorama delle cantine locali. Il suo è un viaggio solitario che trova estimatori ma spesso si scontra con una visione standardizzata del gusto e delle pratiche enologiche. La sua idea del vino è inclusiva non esclusiva, il campo delle possibilità non si esaurisce con i disciplinari e le commissioni delle Doc. La sperimentazione è la via che apre queste possibilità, con le radici piantate nella storia di famiglia e uno sguardo alle innovazioni tecniche. Le sue viti vegetano nella Piana di Albenga dove strati antichi di detriti rendono la terra adatta alla coltivazione del Pigato, del Vermentino, del Rossese e dell’Ormeasco. La fermentazione avviene ad opera di lieviti autoctoni, espressione della nicchia ecologica della cantina, con lunghe macerazioni sulle bucce che con il tempo sono diventate sempre più lunghe, circa tre settimane. Il vino riposa poi pazientemente sulle fecce fini e si ammorbidisce ad opera dei batteri lattici che operano la malolattica. Questo consente di produrre un Pigato ed un Vermentino inaspettati, con grandi estrazioni ed una complessità organolettica che è il timbro di questa cantina. Questa ricchezza di materia consente processi di invecchiamento e di maturazione ritenuti impossibili per questi vini bianchi. In cantina abbiamo bevuto uno Spigau 1999 (!) opulento, ancora in equilibrio, in cui gli aromi terziari di legno balsamico e cuoio sono il dono del mistero del Tempo. Pigau è termine dialettale che identifica il Pigato, cioè uva che fa le pighe, macchie nere che emergono sulla bacca a maturazione avvenuta. La S privativa è anteposta ad indicare la sua storia anarchica e solitaria, poiché è un vino bocciato dalle commissioni della Doc, i suoi parametri organolettici non rientrano negli standard identificati dal disciplinare. Proprio qui sta la sua ricchezza e la sua solitudine.

Salgo in moto e ripieno di spirito sfreccio lungo la Valle Arroscia attraverso uliveti, aglio di Vessalico con le Alpi Francesi all’orizzonte e un preoccupante fronte nuvoloso in vista. Con la guida del mio navigatore, Domenico Rossi che mi manda indicazioni sulle cantine, approdo a Ranzo direttamente nella Azienda Agricola di Luca Deperi, senza annunciarmi. Alla porta mi aprono i suoi bellissimi figli e poi arriva il padre un po’ sorpreso di trovarmi lì. Temperamento asciutto, teso, accogliente, le sue parole sono veloci, taglienti, la sua mente razionale, rapida nel calcolo. L’atmosfera è agreste e familiare. Vive lì da sempre, e da sempre produce olio e vino. Ma il vino era per il consumo familiare: solo da qualche anno, con un ettaro di vigna, ha deciso di etichettare rimanendo ancorato alla pratica vitivinicola di famiglia. Lieviti autoctoni che hanno il loro habitat in cantina, nessuna filtratura, nessun uso di diserbanti, vendemmia manuale fatta in più passaggi per selezionare solo i grappoli giunti alla giusta maturazione, fermentazione spontanea in tini di castagno, lunghe maturazioni sulle fecce fini con frequenti batonnage, ma soprattutto il rispetto dell’annata e del terroir specifico di questa area. Ranzo è un insieme di piccoli agglomerati di case disseminati su un costone di collina intorno ai 400 metri di altitudine, in origine villaggi separati poi unificati sotto un’unica amministrazione. L’esposizione è a sud, perfetta per le vigne e per gli uliveti. La terra è rossa, ricca di roccia e ossidi metallici che le viti estraggono per vegetare e fruttificare. I vini sono sinceri, diretti, tesi come la personalità del viticoltore, specchio di un territorio in altitudine con forti pendenza. Secagna 2017 è un Pigato intenso, con una bella elevazione acida su cui si innalzano aromi floreali e di erbe con una nota leggera di mandorla sul finale. Vinifica anche l’Ormeasco, uva difficile originata dal dolcetto. Mi racconta che nel 1300 i Marchesi di Clavesana, signori locali, imposero con un editto la coltivazione del dolcetto in tutta l’area. Nel tempo il dolcetto ha attuato un mutazione genetica adattandosi alle caratteristiche ambientali della zona dando origine all’Ormeasco, riconoscibile per il raspo rosso e le foglie con striature rosse. Il Rivierasco è il suo Ormeasco, affinato in botti di castagno che conserva il carattere selvatico ed prepotente di questo vitigno.

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È tempo di ripartire, la strada per Barolo è bloccata da un fronte di piogge, inverto la rotta e torno verso il mare. Anche qui il giorno dopo si avvicina il maltempo per cui rientro a Genova, in attesa della prossima deriva.

Leone Zot

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