Il nuovo libro di Tiziano Gaia vale almeno tre bicchieri

Il nuovo libro di Tiziano Gaia vale almeno tre bicchieri

di Tommaso Ciuffoletti

“Verso le tre del pomeriggio, dall’ufficio di presidenza, telefonò Fabrizio. Mi informava che Matteo Correggia aveva avuto un incidente in vigna […] Di lui mi aveva colpito subito la statuaria bellezza. All’epoca aveva 38 anni, ma non era solo la giovane età a favorirlo. A forza di plasmare la terra e modellarne i frutti, penso avesse cesellato anche se stesso, in armonia con la natura e le sue plastiche fattezze. Al di là dell’aspetto, Matteo Correggia era senza dubbio il più grande vigneron del Roero. Un talento formidabile, uno di quei doni che non tutte le generazioni fanno a se stesse”.

Le pagine più belle del libro di Tiziano Gaia “Stappato – Un astemio alla corte di Re Carlo” (appena uscito per Baldini e Castoldi), sono proprio quelle dedicate alla vicenda e al ricordo di Matteo Correggia. Io, che non ne conoscevo la storia, leggendola sono rimasto toccato. E non è un merito da poco averla saputa raccontare come l’ha raccontata Gaia.

Era giusto e necessario dirlo subito. Perché in questo libro c’è tanto (anche solo per il fatto che si tratta di oltre 300 pagine) e attentamente raccontato. C’è la storia del Barolo, o meglio dei Baroli, e delle Langhe, dei suoi abitanti e dei suoi vini. C’è un bel po’ di storia dell’enocritica italiana e in particolare della Guida Vini d’Italia. C’è soprattutto la storia di un ragazzo, senz’arte, né parte si direbbe, che arriva alla corte di Carlo Petrini e che sull’onda di una frenesia travolgente si trova a scoprire che la lumaca di Slowfood, in realtà, corre come un treno tra le rischiose rotaie del successo. E lui ormai è a bordo.

Vi rimarrà da quell’esordio del 2001, fino al 2008, avendo ruoli e incarichi diversi e via via più importanti. Riporto da bio in bandella: Tiziano Gaia, nato a Torino nel 1975, è stato a lungo responsabile delle pubblicazioni enologiche del movimento Slow Food, è direttore del WiMu, il Museo del Vino, a Barolo, e collabora con Decanter. Suo il documentario “Barolo Boys. Storia di una rivoluzione”.
L’inizio però, non fu dei più agevoli.

“Gigi (Piumatti) aveva deciso di forzare la mano con me, e per mettere alla prova le mie capacità organizzative, mi affidò la gestione dell’evento più atteso, vale a dire la presentazione di Vini d’Italia 2001 e relativa degustazione.[…] Un teatro sotto sequestro, il mio capo che si salva la pelle intonando Cielito Lindo insieme a Carlos (operaio dominicano che voleva bere invece di lavorare), il sovrintendente Vergnano con le mani nei capelli di fronte a ciò che restava del suo bel foyer, sono le immagini indelebili di quella serata.
SlowFood non solo non mi licenziò, ma mi promosse sul campo per aver dato l’anima”.

Forse anche per via d’episodi come questo, si potrebbe prendere il libro di Gaia come un romanzo. Ma a ben pensarci, se la sua vicenda personale a Slow Food Editore, rocambolesca e avventurosa, può sembrare lo svolgersi di un piccolo romanzo, a sembrarlo ancora di più è la vicenda del vino italiano (piemontese in particolare) e dei suoi creatori, ove per creatori s’intendon tanto i produttori, quanto i narratori/giornalisti/critici e last,but not least, assegnatori-di-3-bicchieri (che a quei tempi valevano e valevano tanto). Un romanzo d’amore e mezzi tradimenti, in un matrimonio fatto di buona e cattiva sorte, salute e malattia, ricchezza e ricchezza (tanta e tutta insieme). Col ritmo incalzante di vigne che diventano care come giacimenti di petrolio, etichette che si trasformano in oggetto di feticismo e guide enoiche che si fanno arbitri di innumerevoli destini.

Tiziano Gaia ha potuto vivere tra le pagine che andavano scrivendo quel romanzo ed il suo ricordo di oggi è dettato da uno sguardo distante ancor più del tempo, pure non poco, che è passato da quegli anni. Come se i conti con quel momento, così vitale e inevitabilmente contraddittorio siano stati ormai fatti. Emblematico il rapporto proprio con Re Carlo, figura che attraversa i ricordi dell’autore coi tratti del condottiero asceta (leggendone mi ha ricordato il fascino che provavo da giovane al cospetto di Marco Pannella), ma su cui non si manca di notare che “la storia di Slow Food non racconta di dirigenti, quadri o capi ufficio, ma del Lider Maximo, Carlin, e della sua corte, formata da una quantità spropositata di capetti” (ed anche qui si riaffaccia il mio ricordo di Pannella).

Le battute iniziali del libro ricordano quelle di Open, l’autobiografia di Agassi (libro moderno, perfettamente costruito) che si apre prendendoti in controtempo con il campione di tennis che confessa di odiare il tennis. Allo stesso modo – facendo le dovute proporzioni con uno che ha vinto 8 Slam – il libro di Tiziano Gaia  si apre con una confessione che suona più o meno come: io odio, e in fondo ho sempre odiato, degustare a raffica. Ed è solo il primo sfilarsi dal rotolo di pensieri intorno ai limiti della degustazione, del giudizio che vi s’accompagna, fino a riflettere sui mille rivoli che la critica enoica ha preso oggi (e c’è spazio anche per una rapida menzione di Intravino).

Si tratta di un libro scritto bene e costruito meglio, capace di tenere il ritmo fino alla fine, aprire scorci su vicende di una storia recente, ma già in buona parte dimenticata, e metterle a fuoco nella giusta prospettiva. Fila dritto e leggero anche quando fa riflessioni altrettanto dritte, ma un po’ meno leggere. Perché sembra una confessione così personale, da non poter non essere sincera. E lo è soprattutto quando guarda alle inevitabili limitatezze della realtà al cospetto del sogno, senza farne motivo per giudizi moraleggianti. E anche solo questo vale a Gaia il pieno perdono per l’abuso reiterato di giochi di parole che si susseguono per tutto il libro (menzione speciale per il calembour “non c’è niente di malico”).

Dopo aver letto “Stappato” non sono più tanto sicuro di poter dare un giudizio affidabile. Nemmeno su questo libro. Ma dovessi dire, per me un 3 Bicchieri li vale.

Il resto sono quelle pagine su Matteo Correggia, che ancora rileggo.

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Tommaso Ciuffoletti

Ha fatto la sua prima vendemmia a 8 anni nella vigna di famiglia, ha scritto di mercato agricolo per un quotidiano economico nazionale, fatto l'editorialista per la spalla toscana del Corriere della Sera, curato per anni la comunicazione di un importante gruppo vinicolo, superato il terzo livello del Wset e scritto qualcos'altro qua e là. Oggi è content manager di una società che pianta alberi in giro per il mondo, scrive per alcune riviste, insegna alla Syracuse University e produce vino in una zona bellissima e sperduta della Toscana.

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