“È un vino paesaggio”, il libro che racconta la storia di Vignai da Duline

“È un vino paesaggio”, il libro che racconta la storia di Vignai da Duline

di Emanuele Giannone

Federica Magrini e Lorenzo Mocchiutti sono i Vignai da Duline. Per loro Simonetta Lorigliola ha scritto “È un vino paesaggio”, un libro tanto bello e complesso, quanto a rischio di risultare ingenuo o straniante per gli enofili da parata e i produttori da stardom. Il libro non contiene palesi invettive contro pretese e orgasmi d’onniscienza, contro l’onnipresenza e l’angusta prospettiva del degustificio mediatico e metodico: semplicemente, ignora tutto questo e contempla molto altro, in primo luogo le vite di due persone che hanno scelto di deviare dalle pieghe attese degli eventi; e, insieme alle loro, quelle di molte altre ancora che vi si intrecciano.

Il racconto che ne scaturisce dà bella forma alla bellezza che Federica e Lorenzo hanno cercato e creato. Per nostro ulteriore piacere, insieme alle vite si tratta delle viti, di vecchie e di nuove. Vite e viti, quindi, conteste nella trama fitta e vibrante delle relazioni che il libro rappresenta, con la terra a fare da ordito. Citando un’altra opera dal titolo che ben si attaglia anche a questa, il testo rappresenta un’ecologia della vita ed è per questo vivo e dal finale naturalmente irrisolto, aperto alla suggestione che i lavori siano in corso continuo e pertanto ancora da scrivere.

Bellezza e semplicità sono già nella scelta dei passaggi fondamentali, resi con intensità ma senza ridondanti coloriture emozionali. A essi l’autrice informa, rinunciando a forzature moralistiche o didascaliche, le sue riflessioni sui fondamenti etici, epistemologici e spirituali del lavoro dei Vignai. A spiccare sono così caratteri, non caratterizzazioni, ciò che contribuisce a rendere agile la lettura: l’architettura del testo funziona, il racconto pare una variazione fantasiosa sul genere del romanzo di formazione, nella quale l’ordine cronologico è rotto ma l’articolazione interna conserva senso unitario. Quasi in ogni passo si intrecciano con efficacia il piano narrativo, quello del commento e quello aggiunto dalle digressioni storiche o tecniche. Dopo il capitolo programmatico – un’acclimatazione all’ambiente e alla sua temperie, tra la cura della terra e quella dello spirito – con il secondo arrivano i primi veri coups de coeur (nonché il coup de foudre) nel racconto degli anni giovanili, del retroterra familiare e culturale, delle scelte di deviare dall’ordine convenzionale, da mediazioni e convenienze. Il tutto passa per medicina olistica e antropologia, musica e cultura del mutuo scambio e via via molto altro ancora fino all’approdo all’agricoltura e alla vigna soprattutto.

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L’alternanza di timbri si conferma nel passaggio al terzo capitolo, che inizia con una retrospettiva sul pensiero di Veronelli e Soldati, cita la trasformazione del Friuli rurale in distretto manifatturiero e agroindustriale, e inquadra poi su questo sfondo le vicende delle due famiglie attraverso il secolo scorso. Nei capitoli centrali viene ripercorsa la storia dei due vigneti e della scelta di vita, storia di genio e genealogia, tradizione e dedizione: prima la Duline, piantata inizialmente dal nonno materno di Lorenzo e arrivata nelle mani di quest’ultimo quasi indenne da trattamenti invasivi, pesticidi e altri ritrovati della green revolution; di fatto è il campo-scuola dove Lorenzo osserva, apprende, elabora fin dall’adolescenza e infine si insedia, ancora studente di medicina, presto raggiunto da Federica, allora insegnante di lettere. Forti di una duplice certezza sul futuro lavoro: ottenere la massima qualità e mantenersi liberi dal legame con l’industria dei prodotti di sintesi e della tecnologia.

Nel 1999 piantano una siepe fitta e profonda «… in mezzo alla pianura appiattita e addomesticata, per riportarla dentro una natura in evoluzione…» e nel 2000 costruiscono secondo i criteri della bioedilizia la loro casa in legno; più esatto, in realtà, sarebbe dire che ricostruiscono la casa Rubner – quella in legno del tipo in dotazione ai terremotati del 1976 quale alloggio provvisorio – pagata a peso e a pezzi come legna da ardere. Rimessa su con l’aiuto di amici e compagni. Dopo la Duline, una digressione sugli aspetti contraddittori della organic revolution e su quelli originali del sistema bioecologico sviluppato dai Vignai, arriva il Ronco Pitotti: la prima vendemmia di Lorenzo è la 2001, le viti stentano nonostante vent’anni di conduzione biologica. Lui e Federica studiano, comprendono, risolvono rifuggendo da soluzioni già scritte, senza applicare tali e quali esperienze altrui (e altrove) o precetti: le scrivono loro con pratiche e strumenti nuovi. Così la terra del ronco storico torna a respirare, le viti recuperano vigoria, per quelle più logorate ma dall’apparato radicale sano si opta per il recêpage.

Passati vent’anni da quegli inizi, lo stato della vigna-anfiteatro è descritto così dall’autrice:
«Oggi, Ronco Pitotti è un opificio di biodiversità […] una catena biologica che ogni giorno si allunga e si modifica. Il suolo vive del suo humus e fa vivere i suoi ospiti. C’è posto per tutti, anche per l’uomo. Siamo in un vigneto planetario. Qui è tutto urgente. Tutto è mutevole. Un laboratorio a cielo aperto. Lorenzo è custode, lavorante, progettista. Un vignaiolo planetario che […] propone di guardare la diversità come una garanzia per l’umanità. […] Differenti tipologie di vitigni abitano questo anfiteatro naturale, questa vigna monumentale e fuggitiva che è il Ronco Pitotti. Un’isola. Un semicerchio naturale, coltivato a vite da chissà quale inizio. Le balze sono state realizzate nel Cinquecento, in continuità con il passato viticolo dell’antica Roma».

Una nuova, succosa digressione su selezione massale, portainnesto Rupestris e potature precede il fondamentale capitolo sulla critica dell’assaggio. Abituati come siamo a leggere ovunque di sensorialità, territorio e percezione dello stesso, conosciamo bene il sapore dello sformato rural-paesaggista servito in crosta new age con contorni di pro loco e carduccianesimo sbronzo. Qui, però, ci viene servito ben altro:
«Tutti fanno, o dicono di fare, vini di territorio. È un claim diffuso e in voga. In genere fa il paio con l’altro grande pilastro della comunicazione vitivinicola: la sostenibilità […] E così natura e territorio si prestano volentieri a fare da patina, con il richiamo vago di bellezza e conforto. La salute, la campagna, i colori vivi, l’erba, l’uva che brilla al sole. E poi i grappoli pestati magari coi piedi, il torchio manuale. La bottigllia raffinata. L’etichetta swank. Tutto questo non ci dirà nulla di quel vino. Nulla sulla vigna che l’ha prodotto e sulla sua conduzione. Nulla sulla gestione in cantina. Nulla sul territorio».
Nell’esperienza di Federica e Lorenzo, la consuetudine dell’assaggio proviene dalla gioventù e dall’ambiente familiare come passione avita – il papà che cerca il vino buono nell’enoteca storica – o abitudine – il vino da pasto – ed evolve a mano a mano in necessità evolutiva:

«L’incontro con i grandi vini, la loro conoscenza, la relazione con chi li ha prodotti. Sono questi gli elementi che ribaltano la prospettiva sensoriale e portano l’esperienza percettiva al centro di un discorso politico-agricolo […] Per i Vignai, e per tante altre persone sensibili, ha funzionato così. Non è stato lo studio accademico, né sono stati i propri interessi primari a fornire gli attrezzi corretti per assaggiare i vini: è stata la curiosità caparbia di voler sentire, capire e godere».

Con un preambolo così articolato e vivace, documentato e vissuto, non può risultare fine a se stesso il successivo passaggio “analitico” sui vini. Si badi: «Non, certo, l’idea di aride schede tecniche, utili agli amanti del metronomo del gusto, estranee a ogni felice concatenamento […] un’alchemica miscela di puri dati e irregolari deviazioni gustative e immaginative di ispirazione veronelliana». Seguono appunti di assaggio pieni di senso e di sensi, tra i più convincenti letti recentemente, per Morus Alba 2014 (60% malvasia istriana La Duline + 40% sauvignon bianco storico friulano Ronco Pitotti), Chardonnay 2014 (R.P.), Pinot Grigio 2016 (R.P.), Malvasia Chioma Integrale 2016 (L.D.), Friulano 2015 (L.D.), Gialloditocai 2015 (R.P., 100% tocai friulano, biotipo giallo), Morus Nigra 2013 (R.P. + L.D., 100% refosco dal peduncolo rosso), Pinot Nero 2012 (R.P.), Schioppettino 2012 (L.D.), Merlot 2015 (L.D., merlot storico friulano). Insieme a questi, note e storie sui due vini prodotti per festeggiare la nascita delle figlie Sofia (Rosso di Sofia, 2005, 100% refosco d.p.r.) e Rosa Tea (Malvatea, 2009, malvasia 100%).

Verso la chiusura si torna al bello e gli si aggiunge la ribellione, ovvero la creazione di bellezza nel rifiuto della sconcezza contro l’ambiente, la società o il vino. Nulla a che fare con la retorica abusata della ricerca del bello, niente callistenie da cantina-salotto e vigneti da golf. Il senso ambientale, sociale ed estetico di Federica e Lorenzo è nella creazione: «… atti e prassi che riportino o creino una dimensione di semplicità ed essenzialità, libera dagli orpelli di regole e tradizioni». Piace per onestà e argomentazioni anche il capitolo sulla valorizzazione del lavoro: per usare una metafora buffa, i Vignai decidono di rivelare le loro strategie di prezzo. Così, dopo la comunicazione, anche questa leva del marketing in versione Villanova del Judrio risulta trasparente e umana, non modaiola, né tantomeno predatoria.

Nessun cedimento nel ritmo e nel contenuto dei paragrafi finali e dell’epilogo, di cui anzi raccomando la lettura pur non commentandoli qui; preferisco, infatti, terminare traendo spunto dalla riflessione di Federica su una questione che mi appassiona: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva». In questo senso È un vino paesaggio è anche nemesi per i confinati, per chi parla (o straparla) il vino senza farlo, per chi lo fa intendendolo come accessoristica di pregio, per essere più à la page.

Tra i pretesti che cadono sotto i linguaggi diversi di Federica annoveriamo la lingua referenziale, la rappresentazione “oggettiva” del vino decontestualizzato e messo a tema dal verificazionismo (malattia senile dell’eno-scientismo) e dall’analisi organolettica; annoveriamo pure i latrati lirici dei nuovi impressionisti, gli scrivani dall’ego che non alligna senza bottiglia e vigna, i produttori di ricaduta dalla politica e dallo showbiz e quelli che il mio vino è un’opera d’arte. La lingua scritta dell’autrice è coerente con ispirazione ed emozione sincere: ricchezza e proprietà che non esondano in magniloquenza perché a dettarle non è la ricerca di effetti speciali, bensì uno speciale entusiasmo. Non c’è intento di fare impressione ma di esprimerne una, grande e partecipe, per un sistema sentito e praticato, ovvero per un’agricoltura diffusa, partecipata, sensata. Un libro scritto non da osservatrice ma da compartecipante.

Simonetta Lorigliola, È un vino paesaggio. DeriveApprodi 2017

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

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