È possibile valutare un vino liberi da pregiudizi?

È possibile valutare un vino liberi da pregiudizi?

di Alberto Muscolino

Quanto siamo condizionati dai pregiudizi nella degustazione di un vino? Quanto influiscono le sovrastrutture sulle stesse percezioni sensoriali? Qual è il reale fondamento delle nostre valutazioni?

Il tema è affascinante e abbraccia tutta l’attività cognitiva di elaborazione degli stimoli: consideriamo ad esempio che, di base, il sistema percettivo tende a correggere i valori della percezione per fare in modo che le cose quadrino secondo le nostre esigenze e, di conseguenza, nessuno stimolo possiede in sé un significato immutabile e costante, e il significato che di volta in volta assume dipende dal contesto.

Percepire è, infatti, stabilire dei rapporti, giudicare, ossia identificare, riconoscere, valutare prima di strutturare e di mettere in ordine. In breve, percepire è conoscere meglio ciò che si è precedentemente sentito.

Fatta questa premessa, torniamo alla degustazione del vino e all’elaborazione di quel tipo di stimoli sensoriali, e cerchiamo di uscirne vivi. Nella maggior parte dei casi l’esperienza è a carte scoperte, alla luce di un solido bagaglio (quando c’è) di conoscenze pregresse, perché il fine è quello di comparare, cercare conferme, valutare differenze e catalogare. Il pane quotidiano insomma, con cui ci si mette in gioco per approfondire il nostro personale viaggio nel mondo eno e dare un contributo. Il punto è che la stratificazione delle conoscenze, su un prodotto o sul suo produttore, può generare aspettative e giudizi preventivi così consolidati da impedirne un possibile capovolgimento, giustificando ogni incongruenza in tutti i modi: bottiglia fallata, temperatura di servizio non ottimale, complotto internazionale, congiuntura astrale negativa, eccetera.

Tutto ciò viene addirittura amplificato quando ci troviamo di fronte a un vino che gode di grande considerazione: sappiamo già tutto, vita morte e miracoli e andiamo a cercare quello che ci aspettiamo di trovare. Non c’è spazio per i dubbi cartesiani, le incertezze e le intuizioni che si discostano dalla vulgata vengono censurate dal nostro apparato mentale, prima ancora di trovare la benché minima espressione. Questo processo in fin dei conti è naturale, ma condiziona significativamente la valutazione finale che diventa sempre meno attendibile e più allineata verso la media. A questo punto verrebbe da pensare che il problema si risolve semplicemente degustando alla cieca, ma anche in quel caso le insidie sono dietro l’angolo.

Qualche anno fa l’Università di Bordeaux condusse un esperimento che consisteva nel somministrare un vino bianco – artificialmente tinto di rosso – a un gruppo di cinquantaquattro studenti di enologia. Durante la degustazione, gli studenti attribuirono al vino sentori gusto-olfattivi comuni ai vini rossi, come prugna, cioccolato e tabacco. Stesso espediente architettato da Charles Spence, professore di psicologia a Oxford, ai danni del più noto sommelier spagnolo, con un risultato simile: fragola e lampone. La conclusione, suggerita da uno studio molto interessante del semiologo Gianfranco Marrone (1), sembra essere di quelle spiazzanti: “non viene prima la sensazione e poi la cognizione, ma è il contrario: la cognizione c’è già e detta gli schemi semantici e culturali della percezione; la sensazione emerge se e quando riesce a schivare questi schemi”.

Alla fine non ne usciamo del tutto vivi, e ci sarebbe ancora da approfondire, ma una cosa è certa: nonostante tutte le imboscate e gli insidiosi tranelli a cui siamo sottoposti, in qualità di esploratori (e narratori) del vino, dovremmo essere sempre schifosamente onesti nelle nostre valutazioni.

1. Gianfranco Marrone, Semiotica del gusto. Linguaggi della cucina, del cibo, della tavola

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Alberto Muscolino

Classe '86, di origini sicule dell’entroterra, dove il mare non c’è, le montagne sono alte più di mille metri e dio solo sa come sono fatte le strade. Emigrato a Bologna ho fatto tutto ciò che andava fatto (negli anni Ottanta però!): teatro, canto, semiotica, vino, un paio di corsi al DAMS, vino, incontrare Umberto Eco, vino, lavoro, vino. Dato il numero di occorrenze della parola “vino” alla fine ho deciso di diventare sommelier.

5 Commenti

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Stefano

circa 6 anni fa - Link

Bella la conclusione "semiotica", ma vedi che i più recenti studi di neurofisiologia ci dicono che sono proprio aree X del cervello ad attivarsi se ci attendiamo sensazioni X. Il cervello stesso ci inganna dunque, e sembra sia impossibile degustare partendo da una tabula rasa

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Salvo

circa 6 anni fa - Link

Il punto dunque è giudicare il vino per ciò che dovrebbe essere e non per ciò che rappresenta. Bisognerebbe partire da una scala di valori che individuano le caratteristiche principali del vino e successivamente, vedere quale si avvicina di più, rimandando i giudizi di tipo soggettivo solo ad un secondo momento. Es. il Chianti Classico X annata Y non coincide con quello che dovrebbe essere, tuttavia mi è personalmente piaciuto e lo consiglio perché..... Io lo faccio spesso.

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amadio ruggeri

circa 6 anni fa - Link

Giudicare un vino da ciò che dovrebbe essere, è la morte del vino. Prendo in prestito le parole di Nicola Perullo dal suo saggio Epistenologia II: "non c'è nulla dentro il bicchiere, perché quel che è dentro è sempre anche fuori. Nemmeno dal rigoroso punto di vista delle ricerche sul percepire: perché gustare, come ormai sanno tutti, è multi e cross-sensoriale. (...) Con il vino tutto è connesso, cioè il vino vale in quanto legame". In definitiva, credo ci sia la necessità di abbandonare per sempre vecchi schemi mentali, che ci portiamo dietro come una inutile zavorra.

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Giorgio

circa 6 anni fa - Link

Le degustazioni alla cieca sono sempre le migliori e le piú soggettive. Io ho partecipato a diverse degustazioni dove c’erano vini molto blasonati (sassicaia, solaia, amarone) e MAI ha vinto il vino piú costoso

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Stefano Cinelli Colombini

circa 6 anni fa - Link

Permettete un commento eretico, e schifosamente elitista? Seguendo quello scritto dal buon Piero, la percezione è un intreccio tra molteplici funzioni del corpo e della mente. Cultura inclusa, dunque. Nozioni incluse, dunque. Perché mai dovremmo ridurre il godimento, scegliendo di essere aperti solo ad alcune sensazioni? Ovvero solo a quelle di bocca, naso ed occhio. Perché escludere il cervello? Non è godimento bere un bicchiere di champagne con una bella amica e sentirci Edith Piaf, mille idee romantiche e via cantando? Non è godimento bere un Sassica proprio perché è un Sassicaia? Castrarci a una parte dell’esperie sensoriale non mi sembra un tocco di genio, è come mangiare un piatto di alta cucina ingrediente per ingrediente; ma era stato concepito proprio per essere mangiato (e goduto) tutto insieme! Pezzo per pezzo non può funzionare.

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