Doganieri-Miyazaki, una storia d’amore in 42 filari misti

Doganieri-Miyazaki, una storia d’amore in 42 filari misti

di Massimo Andreucci

Che ci faccio dentro un’automobile sotto lo scoppio del sole delle prime ore pomeridiane nel giorno più caldo da quando esistono le rilevazioni meteo? Qualcuno a pranzo mi ha parlato di questo tizio che fa pochissime bottiglie, che le invecchia a lungo, che salta le cattive annate, che nessuno conosce, e tanto mi è bastato per alzare il telefono e imboccare la via per Castiglione in Teverina. In fondo al tragitto mi aspetta un piccolo casolare con alcuni olivi, l’orto e la vigna, un cane amichevole, ed un signore alto e magro dall’espressione pacifica. Sono arrivato nella cantina Doganieri-Miyazaki.

Mi chiede come ho saputo di lui e quasi si scusa delle poche viti che ha da mostrarmi: “è tutto qui, quarantadue filari misti. Quest’anno, poi, ci si è messa anche la grandine a decimare la produzione”. Così dicendo mi accoglie in casa. Sediamo al tavolo degli ospiti mentre dalla cucina giungono rumori di mani indaffarate e poco dopo si affaccia una signora orientale con alcune pietanze e del pane caldo di forno. Lui si alza per andare a prendere il vino dal frigo ed io, destato dalla quotidianità di quei gesti, finalmente realizzo di aver fatto irruzione nella loro vita familiare in un giorno di vacanza, sebbene l’ospitalità gli imponga di non farmelo pesare. Per ristabilire in qualche maniera la parità mi viene spontaneo lasciare che anche loro entrino nella mia dimensione privata ed inizio a dirgli di me. Il resto del lavoro lo fa il vino e così, pian piano s’innesca un piacevole scambio in cui ciascuno di noi, a turno, depone sopra il tavolo un ricordo.

Al tramonto le stoviglie giacciono vuote e così i calici e le bottiglie. Me ne torno via leggero ed appagato, in tasca ho la storia di Maurizio e Madoka, nel bagagliaio i loro vini.

La storia di un vignaiolo
 La prima immagine che si è posata sul tavolo è quella di Maurizio bambino. Il padre sta per spiantare la vigna di famiglia a Sovana, un paese al confine tra Toscana e Lazio. Tiene moltissimo a quei filari ma sta per trasferirsi a Roma per lavoro e deve sacrificarli se vuole preservare almeno gli olivi ad essi consociati. È affranto. Maurizio gli batte la mano sulla spalla promettendogli che un giorno avranno un vigneto più grande e più bello. L’ultima immagine non è un ricordo, sebbene sia avvolta da un alone quasi onirico, ma sta lì fuori dalla finestra. È l’attuale vigna che si affaccia sui calanchi di Vaiano, il simbolo di un uomo che ha realizzato i suoi sogni. Tra i due vigneti, si snoda il percorso in salita di un ragazzo nato vignaiolo, ostinato, coraggioso e mai pago. Rigoroso e critico verso il proprio lavoro, quanto invece curioso e generoso con quello degli altri. Agronomo di studi, formatosi al Castello di Scansano, poi in forza a Jacopo Biondi Santi ed infine al Castello di Potentino, ove si è innamorato di una splendida stagista orientale, tanto da mollare tutto e fuggire via con lei ad inseguire il proprio destino.

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La vigna e la cantina di Vaiano
Maurizio
ricorda un po’ quegli scienziati dei cartoni animati giapponesi votati anima e corpo alla propria missione e capaci di imprese impossibili con scarsità di mezzi. Il suo laboratorio è una vigna bonsai in cui ha piantato di tutto, dal vermentino al sirah, al montepulciano, al petit manseng. Risulta difficile credere che da un unico fazzoletto di terra esca fuori una produzione così variegata, la spinta propulsiva, manco a dirlo, viene dal suo lavoro incessante e puntiglioso.

Giostrandosi coi differenti tempi di maturazione delle uve, di fatto riesce a vendemmiare e vinificare tutto con le proprie forze (sì, avete capito bene: da solo) e l’ausilio di una dotazione tecnica essenziale, consistente in una piccola pigiadiraspatrice, una vasca coibentata per le fermentazioni, qualche botte in acciaio ed alcune botti piccole per l’affinamento del rosso di punta. La differenza la fa la sua ostinazione a discriminare tra un acino e l’altro e, quando è il caso, il coraggio di saltare la vendemmia.

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I vini Doganieri e Miyazaki
Tutti i vini sono impeccabili, rendono la sensazione di un frutto integro e maturo, ma soprattutto sono carnosi. Ogni bottiglia è una rarità dato che la produzione non eccede mai i millecinquecento esemplari. Le etichette le disegna Madoka, appassionata di calligrafia nipponica (Shodo), e riproducono i simboli di famiglia, quasi fosse una casata di samurai. I bianchi in gioventù potrebbero rischiare di passare inosservati a un palato poco attento per via della loro compostezza quasi austera ed il naso a volte un po’ contratto. Ma giudicarli frettolosamente sarebbe appunto un errore, l’assaggio tradisce già da subito una profondità inusuale, una traccia nascosta destinata ad emergere nel tempo. È il caso del Fixus, da uve viognier: se il 2016 se ne sta lì placido e silente, per quanto lungo e sostanzioso al palato, il 2014 è già esploso in un dedalo di profumi: metallo e polvere, poi ananas, ginestra, finocchio e albicocche disidratate, mentre in sordina si muovono i primi accenni di una futura evoluzione nel segno della mineralità. La bocca è fresca e pur morbida, glicerica. Mi piace davvero.

Lo stesso destino attende il vermentino 2016, la prima annata sul mercato, che ho assaggiato in anteprima. Polposo ed attendista come il Fixus coevo, ma più improntato alla sapidità. Si chiamerà Airi (lett. “fiore di pero”) che è anche il nome di battesimo della figlia di Maurizio e Madoka. Se i bianchi richiedono un po’ di pazienza per esprimersi al meglio, i rossi escono invece sugli scaffali già pronti e godibili, accesi al colore, ampli, opulenti.

Il Confiè, da uve montepulciano, viene prodotto solo nelle grandi annate e, dopo aver fermentato in acciaio resta in botte piccola per almeno due anni prima di essere trasferito in bottiglia a scontare un ulteriore affinamento. Attualmente in commercio c’è il 2012, un vino potente e raffinato, intenso al naso e dal tannino levigato, decisamente una delle massime vette mai raggiunte da un rosso a queste latitudini. Il prossimo ad uscire sarà il 2015, attualmente in barrique. L’annata 2016 invece riposa ancora in acciaio: con mille cautele Maurizio (ve l’ho mai detto che ha il pallino della pulizia ed il terrore delle ossidazioni?) applica un rubinetto al contenitore e me ne spilla un assaggio molto ricco e ben promettente per il futuro.

A breve completeranno la gamma un rosso giovane e speziato da uve principalmente sirah, tutto acciaio e vetro, ed una vendemmia tardiva da petit manseng assai fresca e persistente. Entrambi ricalcano lo stile pulito sostanzioso di Maurizio e sembrerebbero destinati a confermarne il livello qualitativo.

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Massimo Andreucci

Bianchista. Compulsivo. Uno che per indole starebbe sempre a mangiare e bere ma non potendolo fare ci scrive sopra qualche riga nel vano tentativo di prolungare una gioia sempre troppo breve.

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