Dialogo enoico con la mia coscienza

Dialogo enoico con la mia coscienza

di Pietro Stara

Io: Buongiorno e ben svegliata!
La mia coscienza: Buongiorno a te! Vedo che hai ancora gli occhi da sonno, ma riesco comunque a vedermi allo specchio. Sai, certe volte, capita che lo sguardo mi trapassi da parte a parte; oppure, di sbieco e stortignaccolo, si concentri sui dettagli, sugli ornamenti, sugli ammennicoli: le orecchie, il naso, le folte sopracciglia. Mai per dritto.

Io: lo so, lo so. Non rammentarmelo. E’ che ogni tanto ho paura a guardarmi, senza terzi, negli occhi. Potrei vedermi per intero, scovare la profondità dei sentimenti e questo, manco a dirlo, mi fa paura. Ma non era per questo che ti ho destata dal tuo lungo letargo. Vorrei chiederti qualcosa, se non ti scoccia di prima mattina, a proposito di un pensiero che mi svolazza da tempo e al quale non saprei che dare una risposta convenzionale, prettamente difensiva e saporosamente formale.
La mia coscienza: dimmi, ma fai attenzione a non beffarmi. Ti conosco piuttosto bene, ma non credo che questo accada al contrario.

Io: Va bene, ecco, questa è la domanda: secondo te è possibile recensire con una buona dose di imparzialità un vino di un amico o di un’amica o soltanto anche di un vignaiolo che, pur non essendo amico in senso stretto, arrivi a conoscere talmente bene che poi pure ti dispiacerebbe non parlarne almeno in termini di indulgente e appagata benevolenza?
La mia coscienza: lo sapevo che facevi il furbo! Pensi che quando qualcosa non corrisponda ad una visione archetipica, primordiale ed incontaminata di purezza, devi gettarla su di me come fossi la tua cloaca personale.

Io: stai calma, che poi ti vengono i sensi di colpa! Inizi a bere e a mangiare più del solito e, scusa se te lo ribadisco ancora, il tuo front-man sono io. E sono io che mi porto in giro tutta quella ciccia che, come mi disse un tipo una volta, serve a tenere basse le emozioni. E poi dici che ti trapasso! Ci credo, sei immersa in qualche litrozzo di vino e schiacciata dal peso di bolliti, paste, pasticcini… Insomma, la questione credo che stia nella distanza, nello spazio che tenga a bada, in maniera bastante, compromissioni, invischiamenti, coinvolgimenti, avvinghiamenti, ingarbugliamenti.
La mia coscienza: ho capito bene la tua domanda, che poi non è una sola domanda, ma almeno cento cinquantaquattro domande con il resto di tre e il riporto di due. Ma la cosa che non funziona tanto del tuo quesito è proprio l’interrogativo stesso. Intanto, chi te lo fa fare? Lo recensisci perché è un amico o perché ti piacciono i suoi vini? E poi cosa sarebbe dal punto di vista tecnico quella che chiami “una buona dose di imparzialità”? Ti pagano per la recensione o prendi i soldi dal tuo amico? Oppure niente e rimani un coglione come al solito? O hai timore degli eventuali giudizi di un eventuale qualsivoglia lettore che, comunque, non ti crederebbe mai neppure se giurassi il contrario in ginocchio sui ceci, e che penserebbe, comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni modo, che se scrivi bene di tizio o di sempronio un qualche tornaconto, anche minimo, dovresti pure averlo? Ma poi, può essere un’analisi basata su quanto mai di più fallace e condizionabile c’è nel mondo, i nostri sensi, in qualche modo oggettivabile?

Io: sto iniziando ad entrare nel panico e credo che ti preparerò un piatto di pasta aglio, olio e peperoncino. Ti ho svegliata perché mi aiutassi, perché mi semplificassi la vita e invece tu, ancora una volta, mi fai da coscienza sporca. Tanto te ne stai bella lì rintanata, al calduccio, tra le budella e le viscere. Ti rammento, qualora te lo fossi scordata, che stai parlando con un materialista storico parzialmente dialettico. So assai bene, o almeno penso di saperlo, che non parliamo mai soltanto per noi stessi: le nostre percezioni sensoriali, quelle che alcuni sapienti chiamarono “gusto” e che alcuni dopo di loro ardirono aggettivare in “buon gusto”, sono espressione, arroccamento, forma consolidata, rimandi e rimedi, in continua e permanente mutazione, di tempi, politiche, arti, saperi, culture, economie, storie, metafore, allegorie e metonimie. E in epoca contemporanea, simultanea sarebbe meglio dire, pure il “3 – 3 -4” spiega di più la composizione di un barbera tutta votata all’attacco che la formazione di una qualsivoglia squadretta del nostro campionato.
La mia coscienza: scusa, talvolta sono così scissa dalla tua bieca carnalità che dimentico persino che sei tu che mi porti a spasso. Ma allora ti pongo un’altra questione che parte dalle fine: in che misura le recensioni hanno la capacità di condizionare un consumatore?

Io: adesso sei tu che fai la furbetta! E’ una questione annosa su cui non credo ci siano dei dati precisi, ma solo delle tendenze, dei riverberi di mercato. Ho sempre pensato che le recensioni servano più a confermare presenze che a stimolare corrispondenze. E, a tutto questo, si aggiunge il mero dato quantitativo: siamo sommersi, letteralmente tappezzati, da sollecitazioni che pulsano compulsive sui neuroni votati all’acquisto di beni primari e secondari. Tempi che sovrastano tempi in un incessante andirivieni di informazioni che è più facile scordare che memorizzare. Se, infine, la tua domanda infingarda voleva rivolgersi al fenomeno psico-sociale degli influencer, beh!, allora torniamo al punto di partenza: penso che servano di più a rassicurare rabdomanti piccolo borghesi, ampliandone a dismisura la portata del già saputo, piuttosto che all’apertura di spaventevoli spazi mentali.
La mia coscienza: quindi vorresti dirmi che il successo su di un tale o talaltro vino non ha alcun riferimento con quello che scrivi tu o coloro che, più quotati, ammirati e venerati decani della critica enogastronomica scarabocchiano su siti patinati e riviste digitali?

Io: per una parte assolutamente minore, credimi. Non nulla, ma minore. Il vero successo di un vino è determinato da bevitori che non bevono, da coloro che entrano in enoteca una o due volte l’anno, per fare il regalo allo zio colto, quello che ha fatto tutti e tre i livelli della scuola per sommelier. Oppure da quelli che al ristorante hanno sentito la parola “arneis” e si gongolano del suo lussureggiante esotismo.
La mia coscienza: mi sembra che la tua risposta sia minimizzante e giustificativa. E’ come se dicessi, in questo modo: allora vale tutto, ma proprio tutto!

Io: non è così, affatto. Sto solo cercando di dire che se la recensione non muove concupiscenze e denari in maniera rilevante, se non è in grado di ripagare neppure la minima parte del lavoro necessario a comporla, allora, è per me evidente, che dovrebbe essere mediamente onesta. Dovrebbe essere mediamente. Quello che ti ho chiesto, però, all’inizio è un’altra cosa: non è la materialità di un processo di corruttela tanto evidente quanto autoreferenziale, detto in altre parole marketta, ciò di cui stiamo discutendo, ma dell’affettività, ovvero dell’immaterialità di una relazione che trasborda da tutte le parti nel vino.
La mia coscienza: bella questa, come se ciò che mangiamo e beviamo non fosse già relazione, istinto, memoria, convivialità, amore. Non fu forse un certo Montaigne a dire che “non dovremmo considerare tanto ciò che mangiamo quanto con chi mangiamo”? E non fu forse Grimod de la Reynière a ribadire che “la conversazione animata durante un pasto non è meno salutare di quanto sia piacevole. Facilita e accelera la digestione, riscalda il cuore e calma l’anima. E’ quindi moralmente e fisicamente una doppia benedizione. Il miglior pasto mangiato in silenzio non soddisfa né il corpo né la mente”?

Io: certo, lo so, lo sappiamo entrambi. Ma chi legge è assolutamente disinteressato al legame tra autore della recensione ed autore del vino o, al peggio, ne vede soltanto un aspetto: la potenziale ed inevitabile forma di collusione.
La mia coscienza: non vi è possibilità alcuna di uscita da questo labirinto ermetico. L’unico modo è forse quello di dare alla relazione il suo peso, la sua evidenza, la sua ineluttabile e fatale ingerenza, come ad altre intromissioni, meno evidenti ma non meno perniciose. E, dunque, spostare la degustazione dal suo verosimile quanto artefatto aspetto tecnico alla relazione indotta e dedotta, ai contorni climatici ed ambientali, al fruscio della sera, alle stelle candenti.

Io: o forse non scrivere affatto. O scrivere bendati. O continuare a scrivere così, tirandoti ogni tanto in ballo e chiedendoti: ma ti piace ancora questo vino?
La mia coscienza: fammi ballare moderatamente però. Altrimenti diventi astemio.
Io: bene, allora vado a versarmi un gotto e a vedere la partita. Non credo che tu mi serva ancora. Non ho mai visto una coscienza seguire una partita di pallone.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

2 Commenti

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Stefano Cinelli Colombini

circa 6 anni fa - Link

L'onestà intellettuale e l'amicizia sono due valori fondanti, e in questo caso l'una impone di non dire il falso, ma l'altra di non ferire in pubblico un amico. Preso nel conflitto tra la forza irresistibile e l'oggetto inamovibile, se il vino di un amico è men che buono non ne scriverei proprio. E così taglio il nodo di Gordio in piena correttezza.

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josè pellegrini

circa 6 anni fa - Link

Stefano parla sempre in piena coscienza, da vero uomo del vino. Pietro Stara riesce sempre a coinvolgermi con la sua "finta" leggerezza .In realtà colpisce sempre dove vuole . Quel che racconta in questo dialogo vale per chi di mestiere fa il giornalista , con o senza vino.

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