Cos’è (e cosa non è) il vino artigianale

Cos’è (e cosa non è) il vino artigianale

di Emanuele Giannone

“Artigianale” è uno di quei lemmi evocativi e dal notevole portato eidetico (piccolo, manuale, meticoloso, morigerato etc.) tipicamente abusati nel mainstream e da soggetti la cui artigianalità si limita forse all’esercizio della masturbazione. In questo senso, gli sbandieratori di artigianato sono una sottospecie di noto-attore-iberico che sforna biscotti in un noto-mulino-felice.

Ciò premesso: Io ammetto la fondatezza dell’attributo di artigianalità nella sua opposizione classica ai processi e ai cicli della produzione seriale. Un vino prodotto in serie (normato, progettato, ovvero prodotto con uniformità di processi, cicli, tempi, tecniche,controlli parametrici di qualità distribuiti lungo l’intero processo etc.) non è artigianale – né tampoco naturale ma, con buona pace dei fisiocratici enoici, non per questo meno vino – se non nella percezione comune, indotta da stratagemmi comunicativi o da argumenta ab auctoritate (“se lo dico io che ci capisco, allora è artigianale”).

Un vino artigianale è prodotto secondo processi, cicli, tempi etc. non uniformi e distinti da bassa o nulla automazione, limitata meccanizzazione (salvo per la variante nobile, tutta arte e mestiere, della Buscemizzazione, ovvero “progettati le macchine da solo, falle funzionare, fatti il vino e sappilo far buono”) ed elevata manualità.

NOTE: giusto tre, da vecchio aziendalista:

1. il prodotto artigianale ha senso se e solo se incorpora un valore aggiunto superiore a quello medio del prodotto seriale;

2. stante l’indeterminatezza del saggio di valore – è quello reale? Quello percepito? Come si misura? – è decisiva per l’attributo di artigianalità l’attitudine del prodotto a soddisfare esigenze e aspettative emozionali;

3. altrettanto decisiva sarebbe la “rispondenza a tradizioni e materiali dei luoghi di radicamento” (cit.).

Fin qui, il vecchio.

Poi c’è il moderno, per me altrettanto ammissibile: sgonfiamo lo spauracchio della tecnologia e ammettiamo che l’artigianato moderno è “alta tecnologia e manualità colta”. Qui il confine con la piccola impresa sfuma, ma personalmente nummenefuttennènti.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

19 Commenti

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Viviana Malafarina

circa 5 anni fa - Link

EUREKA!

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Capex

circa 5 anni fa - Link

Ohi, ohi, dopo i naturali gli artigianali. Ora si riscatena il putiferio.

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Emanuele

circa 5 anni fa - Link

OT: ma perché capital expenditure?

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Francesco Annibali

circa 5 anni fa - Link

Emanuele te vojo ve’, ma il punto 2 è mktg. Nummenevole’(te)

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Emanuele

circa 5 anni fa - Link

Ma no che non te ne voglio. Anzi, è proprio come dici tu. Anzi, peggio, è paleo-marketing. Infatti avevp premesso l'attributo di senectus (est natura loquacior), decrepitudo etc.

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Francesco Annibali

circa 5 anni fa - Link

- Ad ogni modo è interessante la categoria seriale/non seriale. Però un bianco sulle bucce senza controllo di temperatura in che senso non sarebbe seriale? - Forse è più solido l'argomento delle due concezioni diverse di tempo (ne scrivesti anno scorso mi pare). Anche se lì si porrebbe un problema di diritto degli acquirenti, che hanno il diritto di sapere cosa hanno comprato e dunque di sapere cosa combinerà il vino nel vetro. - (Tutto sempre meglio dell'etica delle buone intenzioni, che resta purtroppo l'argomento più frequentato.) --- Ma il punto è un altro. In un settore dove convivono le cozze marce e il caviale beluga, perché chi fa caviale beluga (e sono parecchi) se ne sta a braccia aperte?

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Emanuele

circa 5 anni fa - Link

Seriale è qui usato nel suo significato economico-industriale, quindi riferito alla produzione di massa, o per flussi, o, appunto, seriale. Nulla toglie che un bianco vinificato sulle bucce senza controllo di temperatura possa essere prodotto in serie: se la vinificazione come ciclo di lavorazione fosse segmentata in attività elementari e sequenziali, se ciascuna fosse demandata a un diverso operatore, se le tecnologie da applicare al ciclo produttivo fossero scelte così da abbattere il rischio di scostamenti dal risultato finale desiderato, allora il bianco del tuo esempio sarebbe certamente un prodotto seriale. Ora che mi ci hai fatto pensare, una caratteristica della produzione artigianale che avevo omesso di citare e che mi pare abbastanza rilevante è quella dell'unico operatore a presidio delle varie fasi del processo, opposta alla pluralità di operatori e all'attribuzione di una fase/operazione a ciascuno. Grazie.

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Michele Antonio Fino

circa 5 anni fa - Link

- Suddivisione del processo produttivo con responsabili diversi che non si rispondono vicendevolmente; - variabilità del risultato annata dopo annata: ciò che si connette alla prevedibilità del risultato che considero intrinseca della serialità e della stessa parola "serie"; - ampiezza della produzione: all'aumentare dei numeri di una produzione diminuisce la probabilità dell'artigianalità, per effetto dei meccanismi che regolano il commercio del vino. Mi sembra che questi tre aspetti possano integrare quanto ottimamente scritto da Emanuele. Grazie della condivisione!

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MARCO

circa 5 anni fa - Link

una domanda precisa: rispetto a quel che sapevo circa il significato del termine "naturale", la tua descrizione non mi avrebbe portato a definire "tampoco naturale" una produzione basata su una stretta metodologia come l'hai descritta sopra.....insomma se una produzione è effettuata con rigidi metodi, controlli e processi , non potrebbe comunque produrre del vino naturale ugualmente?

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Emanuele

circa 5 anni fa - Link

Anche in questo caso il termine - metodo - andrebbe letto nella sua accezione economico-industriale. Se un viticoltore studia i criteri utili alla fabbricazione del suo prodotto secondo requisiti finali preordinati e con l'obiettivo dell'efficienza economica (minimo costo possibile). cioè se lo progetta e se programma la produzione, forse non produce vino naturale. Questo non esclude che un produttore di vino naturale adotti metodi, processi e controlli - escluderei o, quanto meno, qualificherei in tal caso l'attributo della rigidità - per ottenere un risultato soddisfacente. Tentiamo un esempio: l'assaggio a scopo di controllo della maturazione e, successivamente, della fermentazione è un controllo diffuso e riconosciuto. La scelta del tempo di permanenza sulle bucce può essere assimilata a un metodo; ma i produttori naturali aderenti a un protocollo rigido - 30 giorni, 6 settimane etc. - sono, almeno tra le mie conoscenze, oramai assai pochi rispetto a quelli che lo applicano "flessibilmente".

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MARCO

circa 5 anni fa - Link

da profano sembra che questo perimetro, tra naturale e il resto del mondo, non sia così netto e che venga d disegnato sia da metodi che da sostanze adottati nella produzione insomma. Normativamente parlando esiste qualche indicazione almeno?

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Marco

circa 5 anni fa - Link

"Se un viticoltore studia i criteri utili alla fabbricazione del suo prodotto secondo requisiti finali preordinati e con l’obiettivo dell’efficienza economica (minimo costo possibile) cioè se lo progetta e se programma la produzione, forse non produce vino naturale." Il senso di questa frase è che per produrre vino naturale bisogna lavorare a caso?

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Emanuele Giannone

circa 5 anni fa - Link

Assolutamente no.

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amadio ruggeri

circa 5 anni fa - Link

Scusa Francesco Annibali, ma non ho ben capito l'apologhetto delle cozze marce e del caviale beluga.

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Emanuele

circa 5 anni fa - Link

Pro bono disputationis pubblico volentieri un'osservazione formulatami in privato circa la proprietà della definizione di vino artigianale. Non la condivido in toto ma è dotata di grande forza argomentativa e - spoiler - azzuffatina finale: "Mi sembra l'ennesimo artificio lessicale per cercare di definire una categoria. Trovo non abbia alcuna relazione reale con la definizione originale (...) è retorica applicata ad un termine che provano a ridefinire. Personalmente credo varrebbe la pena di smettere di cercarla questa definizione, ma questo è oggetto di discussione... ... la mia critica è puramente semiotica e formale. l'artigianato è riferito ad attività di bottega per la produzione di oggetti, l'estensione del termine ai prodotti agricoli è una forzatura che la stessa normativa in vigore esclude: [...]“svolge un’attività avente ad oggetto la produzione di beni, anche semilavorati, la prestazione di servizi escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione di beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali all’esercizio dell’impresa”. [...] l'industrializzazione ha portato il concetto di lavorazione seriale introducendo una ulteriore attributo alla categoria, prima sconosciuto, quello a cui ti riferisci (...) , ma l'agricoltura e la trasformazione in prodotti alimentari non era e non è un'attività artigianale, anche se il legislatore ha utilizzato in seguito il termine per qualificare alcuni prodotti. vero, la lingua si muove, ma in epoca di troppo relativismo ed opinioni scambiate per fatti, mi vengono attacchi di orticaria quando le parole vengono piegate di volta in volta ad un uso strumentale per assecondare temporanee necessità di classificazione. Tenderei a non essere accondiscendente. Si parla di vino industriale a sproposito e di artigianale come reazione al concetto improprio di industriale. Ecco, su queste cose un poco molli io mi diverto all'azzuffatina, in particolare con chi la lingua la infiocchetta.

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Piero Careddu

circa 5 anni fa - Link

Hai tralasciato un dettaglio che non mi pare molto trascurabile: chi produce vino artigianale solitamente lo fa in un'ottica di rispetto dell'ambiente e della salute dei propri clienti. Ridurre il tutto alla contrapposizione manuale/tecnologico mi pare assai riduttivo.

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Emanuele Giannone

circa 5 anni fa - Link

Quanto da me scritto non aveva pretese onnicomprensive. Ho trattato l'aspetto che conosco meglio, senza alcun intento di ridurre il tutto a tale aspetto. Sono un vecchio aziendalista, non un vecchio ambientalista.

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Angelo bertacchini

circa 5 anni fa - Link

Credo che ci sia confusione. Il prodotto artigianale é tale se prodotto da un artigiano, ovvero indipendentemente dalla caratteristica del prodotto finito, ma dalla tecnica utilizzata per produrlo. Per estensione all'enologia, l'applicazione di attrezzature complesse o volte a modificare profondamente la qualità o a standardizzarne gli esiti, fanno si che indipendentemente dalla dimensione della produzione, non si possa parlare di artigianalita. Artigianalita é quindi un valore oggettivo e misurabile analizzando la struttura produttiva di una casa vitivinicola. Che sia giustificata l'esistenza o meno di un vino o un produttore, con buona pace di tutti lo stabilisce, per fortuna, il mercato.

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Emanuele Giannone

circa 5 anni fa - Link

Oggettivo e misurabile. Prendo atto ma resto di parere fermamente contrario. "Come nel cibo e nel vino ci sono industria e artigianato, così ci sono il pensiero industriale e quello artigianale. Il primo si produce seguendo standard prefissati, procedendo per strade collaudate affinché il risultato sia riconoscibile. Il secondo si produce a misura, prosegue passo a passo senza essere testato. Non ne avrebbe nemmeno la possibilità, d’altronde. Non è che manchi di abilità e capacità apprese, solo che queste si immettono nell’esperienza del processo, di un fare che è di per sé la prova della sua riuscita. Il pensare artigiano non è replica passiva, imitazione pura. Proprio perché non delega a nessuno, ha margini di indeterminatezza, aperture e libertà di deviazione. Il nuovo si è sempre creato dal pensare artigiano. Il pensiero industriale, invece, si esprime in quella che, appunto, è definita “industria culturale”: come nel vino e nel cibo, così anche nella “cultura” – letteratura, filosofia, musica, cinema, arti varie e cotillon – ci si mette a tavolino e si studia la correttezza del “prodotto”. Così, molti libri e molto “pensiero” che credete frutto di libertà e ingegno sono invece esito di operazioni che mirano a creare consenso intellettuale/commerciale. Anche le idee cosiddette “alte” possono infatti essere commerciali: si pensa a un tema “che va” in un determinato contesto (anche critico!), ci si incontra con l’editore e si cerca di capire come dargli forma secondo standard di apprezzamento. Comfort thought. Standard del processo produttivo e conseguenti standard di apprezzamento da parte del “pubblico” sono così, esattamente come nel cibo e nel vino e nelle arti, inestricabilmente legati. Non c’è nulla di male in sé, ovviamente, nel pensiero industriale, così come nel cibo industriale: basterebbe però riconoscerli e sapere che, appunto, sono un’altra cosa. Mainstream che non crea nulla di nuovo. Spesso l’industria culturale – nell’editoria nel cinema nella musica come nel vino e nel cibo – non è disposta a rischiare esplorando e assecondando urgenze ed emergenze reali; preferisce rinserrarsi nel facile, sicuro e confortevole del prodotto-prodotto: “tengo famiglia” è alla base di tutto. Raro, dunque, che si incoraggi il pensare artigiano il quale, infatti, viene relegato al piccolo e all’indipendente che produce cose di cui non si sa la fine, la collocazione, cose che non sono frutto di un progetto deliberato ma di urgenze ed emergenze: l’ho fatto perché non potevo, non avrei potuto e non potrei non farlo. (Lo diceva già Sgalambro: la verità va necessariamente dagli editori piccoli; più sconosciuti sono, più è facile imbattervisi.) Dunque, la morale è che, così come nel vino, se cercate libertà nel pensare e artigianalità delle idee, è più facile trovarle nel piccolo che nel grande. Questo, naturalmente, non significa dire che piccolo è per forza libero e artigiano; la cosa più patetica è, infatti, il frequente caso del piccolo che imita il grande, l’industriale, preso dal complesso dell’inferiorità culturale. Il senso di inferiorità culturale è davvero un morbo terrificante, e chi ce l’ha merita di essere dimenticato. D’altra parte: può esserci qualcosa di vitale e decisivo nell’industriale, nel seriale, nel prodotto? Può esserci logica della cura nella tecnologia? Penso di sì: intanto, la vita è dura a morire ed emerge ovunque, anche contro intenzione. Inoltre, bisogna sempre pensare nell’esperienza concreta, singolare, specifica, di ambito: possono succedere cose che non prevedevamo, oltre al fatto che la tecnologia nella cura del diabete, per esempio, ha una funzione e un’utilità diverse dalla tecnologia nella produzione del vino o dei film di Hollywood. Nel primo caso è positiva e bella, nella seconda di solito no. Però tutte le eccezioni possibili non smentiscono questa tendenza." Nicola Perullo, Ecologia della Vita come Corrispondenza, pag. 49.

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