Chablis, lo chardonnay che venne dal freddo

Chablis, lo chardonnay che venne dal freddo

di Simone Di Vito

Nel mondo del vino è facile imbattersi nello chardonnay, l’alloctona francese infatti è tra le uve a bacca bianca più coltivate del globo. Una varietà che troviamo nei classici blend di Champagne, Franciacorta, e spesso in tanti altri monologhi bollicinosi, presenza diffusa nei rifermentati al pari del glutine negli alimenti, al punto che in alcuni casi, se assente dall’uvaggio, in etichetta andrebbe riportato “senza chardonnay” o “chardon free“. Nel caso di vini fermi poi non ne parliamo proprio, infatti a tutte le latitudini chi non produce chardonnay? Molti, come si dice, per portare a casa la pagnotta, vista la sua adattabilità a tutte le latitudini e la forte richiesta dall’estero, altri per tentare di emulare i grandi vini borgognoni, con risultati spesso pessimi da succo di vaniglia style (o succo di barrique, fate voi insomma).

Nessuno a parer mio, può invece scopiazzare quello prodotto a Chablis: lo chardonnay che viene dal freddo. Sarà forse per gli strati del suolo kimmeridge (giurassico superiore 150/155 mln di anni fa), che troviamo in poche altre parti del mondo come a Sancerre, nel basso Aube di Champagne, in qualche punto del Jura; magari per la presenza di marne e calcari con fossili di ostrica exogyra virgula, non proprio quella che alcuni pensano di abbinare allo Champagne. Il freddo del 48°parallelo può essere un ulteriore indizio che ci porta l’ennesima prova, una prova di forza viste le gelate e il clima freddo che ogni anno attanagliano la zona e i vigneron locali. Tutte le componenti sopracitate in accoppiata con lo chardonnay regalano, in molti casi, un vino unico, che non solo rilascia aromi e sapori classici del vitigno, ma che fa di mineralità e freschezza le fondamenta di questa Aoc, tipicità indossate quasi sempre con stile ed eleganza. Nello Chablisien lo chardonnay si veste da interprete del suo territorio, traducendo in sensazioni tutto quello che rende speciale una zona come questa.

Ultimamente ho deciso di approfondire la questione, in primis perché mi affascinava come zona, poi perché con un discreto esborso economico porti a casa gran belle bottiglie. Per chi mi conosce come al solito esagero, e così dopo una colletta tra amici e l’acquisto di 19 Chablis, ho buttato giù al pc una sessantina di slide che hanno partorito poi tre serate homemade. Dopo i temi di carattere generale della prima serata (storia, geologia, produzione, ecc) e con assaggio di alcuni vini tra Petit e Chablis, si è passati ai sei della seconda, dove ho capito che mi trovavo di fronte ad una sorta di Codice da Vinci, in cui la parcellizzazione di 783 ettari di premier cru, i 40 climat, divisi poi in 86 lieu dit (località) iniziava seriamente a provarmi; differenze tra riva destra e sinistra del fiume Serein, che attraversa la cittadina di Chablis dividendo in due sottozone i premier cru, altitudini e pendenze, storie ed aneddoti di ogni climat, per non parlare poi di matrici del suolo simili ma mai uguali, un papier di informazioni e dettagli impegnativi come una maratona del trono di spade, mi sono sentito un po’ come Castagno nella sua splendida quanto interminabile bibbia sulla Borgogna.

Fortunatamente da lì in poi ho cominciato ad esaltarmi. In termini di qualità già con i premier cru si percepisce un netto stacco dai vini base della denominazione assaggiati in precedenza, dove ad eccessive acidità e sapidità mancava un’adeguata struttura, anche per via degli infami millesimi in degustazione (2016 e 2017), immaginate un uomo con braccia e gambe da culturista ma dal corpo esile. Nei premier invece la struttura non manca, le spiccate sensazioni quindi risultano meno marcate e più digeribili. La complessità aumenta a dismisura e in alcuni vini era nettamente superiore alla media, una percezione piuttosto evidente riscontrata da parte di tutti i commensali, specialmente nei cru Vaillons e Montee de Tonnerre, quest’ultimo conosciuto a Chablis come il grand cru mancato; come dargli torto? Un vino con una mineralità di pietra focaia dominante sia al naso che in bocca con piccoli accenni agrumati a farne da contorno, al palato risulta freschissimo ma soprattutto con un sacchetto di sale marino al suo interno mai troppo invasivo.

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Proprio per comparare solo differenze di terreni, tutti i premier della serata erano prodotti dal domaine Luis Michel et fils, pionieri in zona della vinificazione e maturazione in acciaio (lo usano dagli anni 60’), inoltre fermentazioni spontanee, lieviti indigeni e stabilizzazione a freddo fanno da corollario ad un gran bel prodotto con un rapporto qualità prezzo eccellente. La nota dolente nei premier è legata alla superficialità con cui è stilata la parcellizzazione da parte dell’aoc Chablis, sopratutto per via delle enormi aree che rientrano nel singolo lieu-dit. Non sarebbe il caso di fare un ampliamento o una revisione massiccia?

Mi spiego meglio.

Esempio: il climat Montmain porta al suo interno tre lieu dit, (il suo omonimo, il Forêt e il Butteaux), in tre si dividono una torta di 98 ettari, immaginate quindi nei 40 ettari del Butteaux come possono cambiare le caratteristiche del suolo già ad una distanza di pochi ettari, anche per via delle altezze dei climat che in molti casi arrivano anche a 100 metri e costringono le viti ad esposizioni diverse tra un punto e l’altro, il risultato sarà quindi che due vini con lo stesso lieu dit, a parità di annata potrebbero essere addirittura opposti.

La stessa problematica, anche se meno evidente l’abbiamo ritrovata nella terza ed ultima serata, quella del gran finale, con tutti e sette i grand cru con pari millesimo, il 2015, una bella annata con un solo giorno di apocalisse (la grandinata del 1 settembre). Nel caso dei grand cru le superfici scendono a circa 1/8 dei premier (solo 102 ettari), suddivisi per 7 climat, con Les Clos a fare la voce grossa (circa 27 ettari di cui 25 vitati), un problema parcelle qui parzialmente contenuto dai produttori che, su richiesta via mail, sono tutti più o meno disponibili nell’indicare in che punto del climat hanno i filari, inoltre alcuni come william fevre, producono cuvée da punti diversi dello stesso climat in modo da permettere un eventuale confronto tra le due aree imbottigliate.

La scoperta sensazionale durante la preparazione dell’ultima serata è stata l’ottavo ma sfigato grand cru, il Moutonne (monopole di Albert Bichot), il quale per un errore di stampa della gazzetta ufficiale francese, nel 1950, non fu annunciato e quindi perse l’occasione di ufficializzarsi. Ad oggi sono in attesa di conferma da parte dell’INAO, ma al produttore è stato concesso comunque di etichettarlo come grand cru. Una vigna di poco più di 2 ettari all’interno del Vaudesir, ma che vista la reperibilità e il costo online (circa 90 euro) si preannuncia come una vera chicca.

I restanti grand cru fortunati, oltre a facilitare l’apprendimento (solo sette climat), hanno mostrato il perché del loro valore massimo, un apice qualitativo riscontrato in tutte le bottiglie in assaggio; ognuno di noi aveva il suo preferito, vi segnalo su tutti l’estrema finezza del “valle dei desideri” il Vaudésir, che insieme al Les Clos, è spesso chiamato a rappresentare la qualità della propria aoc , al punto che gli viene attribuito l’appellativo di Montrachet di Chablis data la sua eleganza; nel nostro caso avevamo una bottiglia prodotta dal domaine Louis Moreau, azienda che per anni ha vinificato e maturato le sue parcelle grand col solo utilizzo di barrique, dal 2014 però, accantonato il legno, anche qui si utilizza acciaio inox, una linea guida sposata ormai dalla maggior parte dei produttori della zona, secondo loro il modo migliore per preservare la mineralità nel vino. Rispetto a gli altri grand cru della serata, nei quali riscontravo alcune sensazioni troppo dominanti, il Vaudesir aveva tutto nel suo calderone, ma lo rilasciava pian piano. Il fruttato di banana matura del Bougros? C’era. La masticabilità del Les Clos? C’era eccome. Struttura e persistenza del Valmur? C’era con una completezza che senti solo negli album Panini appena incollata l’ultima figurina. Essendo ancora relativamente giovane, mostrava margini di ulteriore miglioramento, che per molti bianchi sono circa 5 anni…gli esperti di questo vino dicono che da il meglio di se dai 15 ai 30 anni dalla vendemmia.

Menzione speciale per un altro grand cru, il Grenoilles di Louis Michel et fils, al naso un bel fruttato di pesca gialla ed un friccicorio speziato di zenzero, con una mineralità spiccata percepita in bocca, come se ci fossero bollicine di anidrite carbonica, un vino estremamente bevibile al punto di sembrare un metodo classico di ottima fattura, sicuramente quasi al pieno della sua maturità.

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Concludo dicendovi che, vista la mole di informazioni reperite, sicuramente avrei potuto scrivere altre cento pagine su questa realtà. Di Chablis a mio avviso se ne parla fin troppo poco qui da noi, specie nei testi o nei corsi da sommelier italiani. Purtroppo, dati ufficiali alla mano, in Italia ne importiamo solo 1,2 %, una miseria, ma il nostro mercato interno vanta grandi bianchi locali come Greco, Fiano, Verdicchio e tanti altri, forse sarebbe buona cosa di lasciar fare lo chardonnay a chi se lo può permettere, concentrandoci sulle nostre varietà autoctone che non hanno nulla da invidiare al cugino francese. Ma questo è un altro discorso…

I migliori vini delle tre serate:

  • Petit Chablis sur le Clos 2017 di Samuel Billaud,
  • Chablis Premier cru 2015 Vaillons e Montée di Tonnerre di Louis Michel et fils
  • Chablis Grand Cru 2015 Vaudesir Louis Moreau
  • Menzione speciale  : Chablis Grand Cru 2015 Grenoilles di Louis Michel et fils

 

Informazioni reperite su Monocepage.com e Degustateurs.pro

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Simone Di Vito

Cresciuto a pane e corse automobilistiche (per via del papà pilota), sceglie la sostenibilità di bacchette, tamburi e corde grosse, tra batteria e basso elettrico. Si approccia al vino grazie a una breve carriera da scaffalista al supermercato, decidendo dopo anni di iscriversi ad un corso AIS. Enostrippato a tempo pieno, operaio a tempo perso. Entra in Intravino dalla porta di servizio ma si ritrova quasi per sbaglio nella stanza dei bottoni. Coltiva il sogno di parcellizzare tutto quel che lo circonda, quartieri di Roma compresi.

18 Commenti

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Lanegano

circa 4 anni fa - Link

Bell'esordio. Bravo.

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie mille...

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Alessandro Gabbia

circa 4 anni fa - Link

Complimenti molto curioso di degustare quei vini e di poter leggere un altrettanto interessantissimo suo post ottimo lavoro grazie

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie Alessandro, come ho scritto, sono aziende che magari non sono top in fatto di prezzo e fama... Ma che a mio avviso mostrano tutti, più o meno, le caratteristiche che ci si aspetta da questa zona...

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Giancarlo DELLA FRERA

circa 4 anni fa - Link

Buongiorno sono stato a Chablis proprio da Luis Michel nel 1992 leggendo un articolo sulla rivista dove e da allora acquisto tutti gli anni qualche bottiglia Articolo molto bello non ho in verità una conoscenza approfondita di premier e grand cru ma spesso mi son capitati petit chablis decisamente più bevibili della maggior parte dei Chardonnay prodotti in Italia inoltre lo Chablisienne è un territorio bellissimo vivissimi complimenti

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie mille, Louis michel è un produttore che definirei coerente con la tipicità di Chablis...

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vinogodi

circa 4 anni fa - Link

...bravo ( e grazie) Simone. Bell'articolo interessantissimo...

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie vinogodi...

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Davide Bruni

circa 4 anni fa - Link

Speriamo che Montèe de Tonnere non diventi mai grand CRU ... Così resta accessibile a molti portafogli ... Ciao a tutti ✋✋

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Calcolando che hanno impiegato circa 90 anni per accordarsi con classificazione e area dell'aoc...difficilmente lo diventerà a breve... O forse mai...

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Nicolò Seminara

circa 4 anni fa - Link

... forse sarebbe buona cosa di lasciar fare lo chardonnay a chi se lo può permettere, concentrandoci sulle nostre varietà autoctone che non hanno nulla da invidiare al cugino francese... Grazie per l'ottimo excursus sullo Yonne e i suoi vini, che adoro. Ho riportato la tua frase per intero perche credo che mai parole scritte furono più sante!

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie Nicolò, veramente troppo gentile...

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marcow

circa 4 anni fa - Link

L'ottimo articolo si sofferma sulla MINERALITÀ. "Un vino con una MINERALITÀ di PIETRA FOCAIA dominante sia al naso che in bocca" "ma che fa di MINERALITÀ e freschezza le fondamenta di questa Aoc" "secondo loro il modo migliore per preservare la mineralità nel vino" "con una mineralità spiccata percepita in bocca" Sulla mineralità 2 considerazioni: 1 In FRANCIA danno rilievo alla mineralità del vino, anche se non nascondono le difficoltà dell'argomento. Tra i molti articoli in francese questo mi è sembra molto interessante. https://www.le-vin-pas-a-pas.com/connaitre-et-reconnaitre-la-mineralite-dans-le-vin-en-5-etapes/ Questa è la definizione di "PIERRE À FUSIL" di un altro blog francese, usato per descrivere la mineralità del vino Chablis. "Pierre à fusil" (arôme du vin) : cet arôme associé à la minéralité (silex chauffé), au fumé (poudre brûlée) est classé dans la famille empyreumatique. À Chablis, avant que le mot minéralité ne soit inventé, on parlait déjà de goût de pierre à fusil, cette odeur très caractéristique que dégageaient les mousquets des fantassins du XVIIe siècle, lorsque les deux silex de mise à feu s’entrechoquaient". 2 La seconda considerazione nasce dal confronto con un recente articolo di Intravino sulla mineralità, che veniva fortemente criticata dall'autore mentre alcuni commenti, invece, ne riconoscevano l'importanza per descrivere alcuni vini. 3 Lo scopo di questo commento non è di trarre delle conclusioni definitive su questo specifico argomento(non ho le competenze per farlo) ma di stimolare delle ulteriori riflessioni (anche proponendo un link fracese).

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marcow

circa 4 anni fa - Link

Questo bell'articolo sul vino francese Chablis contiene una modalità di degustazione e valutazione interessante. Mi è venuto in mente un commento recente di Sisto contenuto nel dibattito sulle recensioni dell'Espresso. Ne riporto il pezzo più significativo: Sisto: "Se a qualcuno interessa il giudizio di altri, l'unico minimamente affidabile è quello che proviene 1 da almeno 15 persone, qualificate, 2 che assaggiano, separati e non comunicanti tra loro, 3 alla cieca 4 campioni anonimizzati e 5 con sequenza di assaggio diversa, e 6 metodica di assaggio validata e, possibilmente, accreditata. 7 Ovviamente, dati elaborati da persone diverse da coloro i quali hanno scelto e somministrato i campioni (doppio cieco). 8 Test supervisionato da terzo indipendente, che rilascia relazione di prova. È un fatto scientificamente acquisito e pacifico, sfido chiunque a fornirmi fonte autorevole che dica il contrario" (Sisto) Conclusione. Spero che l'autore perfezioni la metodica di degustazione secondo le indicazioni di Sisto(anche se non proprio tutte) e che ci proponga nuove degustazioni di vini italiani. Per me una degustazione "alla Sisto" ha una CREDIBILITÀ superiore a tutte quelle che attualmente si possono leggere sui media e sui media specializzati.

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Antonio Tomacelli

circa 4 anni fa - Link

Io non sono così d'accordo con la degustazione TOTALMENTE alla cieca tipo concorso Vinitaly. Ti faccio un esempio: in commissione mi arriva un campione completamente anonimo, lo assaggio e mi accorgo che è un ottimo taglio bordolese, diciamo da 90 punti. In etichetta però è dichiarato Brunello di Montalcino. Come la mettiamo?

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Simone Di Vito

circa 4 anni fa - Link

Grazie mille per la considerazione, provo a rispondere ai due commenti; per quanto riguarda la mineralità, secondo me se evidente, come nel caso di molti vini Chablis qui bevuti, è impossibile non parlarne, per me è un aspetto intrigante del vino, magari per altri meno. Comunque è una discussione non banale che mi è già capitato di affrontare in passato, anche con sommelier molto più esperti del sottoscritto ed ognuno la vede a modo suo. Per quanto riguarda la modalità di degustazione. Le tre serate da me organizzate, di cui parlo nell'articolo, erano composte da soli sommelier ais, ben 8, i vini delle prime due serate erano inizialmente coperti con stagnola, quindi alla cieca anche per il sottoscritto che presidiava, versati nei 6 bicchieri in ordine sparso e mai uguale persona per persona proprio per non dare punti di riferimento e concentrarci solo sul vino nel calice. Dopodiché, a fine chiacchierata, spogliavo i vini dalla stagnola e li versavo tutti nello stesso ordine. Ad alcuni è sembrata una pazzia, ma provarla fa capire il senso e tutto sommato posso dire che sull'assaggio, cieco e non, eravamo spesso d accordo.

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marcow

circa 4 anni fa - Link

Come ho già detto ho un approccio alla degustazione del vino che il prof Nicola Perullo ha descritto in un suo libro. Questo non significa che chi "RECENSISCE" i vini per consumatori, clienti, lettori, ecc.. non debba adottare il metodo analitico. Non sono molto competente in queste problematiche(e l'ho detto nei miei commenti) perché non ho mai fatto un serio approfondimento sull'argomento (perché non mi interessava molto). Da quel poco che so, il dibattito tra "esperti" (che degustano per "recensire" vini per il pubblico e non per quattro amici) è variegato: non tutti hanno le stesse opinioni. Io penso che al pubblico che legge delle recensioni bisogna dare il "massimo" delle "garanzie" che la degustazione e valutazione si svolga secondo alcuni CRITERI. Sulle recensioni dei ristoranti(non di vini) che ho approfondito di più è chiaro, per me, che l'ANONIMATO è una condizione basilare di una SERIA RECENSIONE. La maggior parte delle recensioni sui food blog italiani non fa recensioni anonime di ristoranti, trattorie ecc... Questo non significa che una recensione NON ANONIMA non sia sincera e veritiera. O che il menù di un ristorante sia effettivamente buono come la recensione "non anomica" racconta. Ma, attenzione, come lettore, come cliente, ecc... non mi sento di dare alle recensioni "non anonime" il massimo della CREDIBILITÀ. Sul VINO, penso che sia altrettanto importante l'anonimato (che riguarda più aspetti, rispetto alle recensioni dei ristoranti) Non ho risposto in modo preciso alla sua domanda(e penso di aver spiegato i motivi) ma non ho rinunciato a chiarire meglio la mia posizione sul delicato argomento dell'ANONIMATO nell'ambito delle RECENSIONI ENO-GRASTRONOMICHE. PS Invito l'autore Simone Di Vito e Sisto a intervenire.

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Sisto

circa 4 anni fa - Link

Per puro caso leggo solo ora. Intanto, all'autore un plauso ed un augurio. Ma, ahimè, anche una severa reprimenda: basta con questa abominevole e totalmente inventata mineralità, falsa sia per gli aspetti organolettici, sia per l'aspetto semantico, per non parlare delle ridicole congetture sulla provenienza del suolo/terreno. Usata solo da chi si definisce sommelier, in aggiunta, cioè quelli che devono servire il vino. Non sono nessuno per autocitarmi ma si legga come ho concluso in un recente intervento https://www.intravino.com/primo-piano/sulla-mineralita-nel-vino-e-altre-gioie-del-marketing/ In quel post ho anche parlato di un'altra stra-pompata diceria, il cosiddetto "terroir", tra parentesi, visto che parliamo di Chablis (che ho visitato, che bevo, che mi piace, ma che se bevessi alla cieca insieme ad altri 50 chardonnay di tutto il mondo, so già che non lo riconoscerei mai...). Si ma io e tutti gli altri "esperti" che invece credono che potrebbero, alla cieca, riconoscere una varietà o un blend di un determinata zona (datemi un merlot coltivato dove volete voi che ve lo farò sembrare della zona che volete...) Per quanto concerne l'assaggio e le recensioni: giudicare un vino sapendo cosa è, è un falso, per quanto ci si forzi di giudicarlo oggettivamente. Non parliamo di quando un'etichetta è famosa, costosa, blasonata. Si può, al massimo, sapere la tipologia perché, in questo caso, giudico anche il grado di tipicità (un po' quello che si fa in sede di idoneità DOP (tra poco anche per l'IGP). Comunque organizzo/partecipo sessioni di assaggio come quelle descritte nell'altro post (citato dal cortese Marcow): ma questo non è nient'altro quello che si fa in analisi sensoriale, applicando le relative norme ISO (la degustazione è un'altra storia, non attendibile). Oppure nei concorsi ufficiali (cioè quelli approvati dal Mipaaf). Guide, degustazioni, recensioni, etc. eseguite senza le più elementari norme per garantire obiettività e affidabilità, non sono altro che bevute consapevoli.

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