Alla scoperta del brandy trentino: i grandi distillati di Pilzer e Pojer&Sandri

Alla scoperta del brandy trentino: i grandi distillati di Pilzer e Pojer&Sandri

di Thomas Pennazzi

L’anno scorso ho voluto dedicare un po’ di tempo ad approfondire la conoscenza dei produttori di brandy italiano, questo distillato pressoché ignoto al bevitore nostrano.

Il Trentino, già enologicamente ricco, ospita anche alcuni alambicchi di prim’ordine: il pensiero non può che correre subito alla grappa. Ma pochi sanno che tra gli artigiani-distillatori si nascondono anche due produttori di brandy italiano tra i migliori. I luoghi distano giusto una cresta di monte: Faver e Faedo. Un fianco della val di Cembra, a novembre gialla di viti, ospita la distilleria Pilzer. Un terrazzo a picco sulla val d’Adige, con vasto panorama sull’imbocco della val di Non, è invece la sede della distilleria nonché cantina di Pojer & Sandri.

Bruno Pilzer è un distillatore di professione, come direbbero i francesi: personaggio schivo, metodico, innamorato del suo lavoro, profondo conoscitore della distillazione, essendo figlio d’arte, assieme al fratello Ivano, e con una gamba nella Fondazione Mach di San Michele all’Adige.

Mario Pojer, insieme al socio Fiorentino Sandri, è il fondatore dell’omonima casa vinicola, e dell’attigua distilleria: credo sia l’unico italiano a potersi fregiare, secondo i transalpini, del titolo di bouilleur de cru, cioè distillatore del proprio vino. Pojer è un carattere del tutto differente, in cui la passione per il proprio lavoro si manifesta in una vulcanica affabulazione, condita da cultura e salde basi tecniche; in più l’uomo possiede un palato analitico sorprendente: quando degusta un alcolico, lo diresti infallibile.

I loro brandy si collocano tra quanto di più interessante può offrire oggi il panorama del distillato di vino italiano: che potrebbe essere grandioso, ma purtroppo non è. Inutile stare ad elencare le colpe della filiera, e del disastroso disciplinare, che non disciplina altro che la provenienza del vino da distillare, un vino qualunque purché italiano, ed un invecchiamento risibile.

Per quanto diversi risultino all’assaggio, i brandy dell’uno e dell’altro produttore hanno in comune la tecnologia dell’alambicco a bagnomaria, il versatile strumento che dà vita anche alla grappa ed alle acquaviti di frutta, così presenti nella cultura trentina. Il brandy potrebbe quindi sembrare un outsider in questo contesto, invece ha molto senso in una regione dove vigne e frutta sono elementi essenziali del paesaggio.

Le produzioni di ciascuno sono piccolissime, una o forse un paio di botti per anno, curate nella scelta dei vini, nella loro distillazione, e nel successivo invecchiamento; nate forse per scommessa, o per orgoglio di distillatore, guardando ai cugini francesi ed alla loro tradizione plurisecolare con una qualche invidia, e magari con celato spirito di competizione, hanno saputo esprimere appieno la maestria trentina nell’arte del lambicar.

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Bruno Pilzer, una volta rinnovata la propria distilleria, nel 2003 ha cominciato a cimentarsi col paziente lavoro di fare acquavite di vino. Che siano stati gli insegnamenti di Attilio Scienza, una fugace  esperienza di studio in Armagnac, o semplicemente l’aria proveniente dal contiguo paese di Segonzano, gemellato con Segonzac (minuscola ma orgogliosa capitale del premier cru de cognac, la Grande Champagne), non possiamo sapere. Il vino ideale non manca, in Val di Cembra: gli acidi bianchi da varietà Lagarino sono quel che ci vuole. La sfida per Pilzer non era facile: pur avendo le capacità tecniche e gli strumenti, gli mancava l’esperienza ancestrale che i francesi ci spiattellano in viso (“fare cognac è facilissimo, basta avere un nonno ed un padre che l’hanno fatto prima di te”, dicono loro). Per colmare questo vuoto hanno supplito gli aiuti ed i suggerimenti della Fondazione Mach e di Guido Fini, il patron di Villa Zarri, che da molti anni porta alta la bandiera del brandy italiano.

La distilleria dei fratelli Pilzer non è un’industria, piuttosto un laboratorio artigiano costruito in modo razionale, dove l’alambicco è protagonista in quello che potrebbe sembrare un moderno loft di vetro e cemento con vista sulla Val di Cembra; quando questo è in funzione non mancano rumori, vapori e odori, ma si trova anche la cortesia trentina verso l’ospite curioso ed il giusto orgoglio di esibire l’amorevole frutto del proprio lavoro.

Da Pojer&Sandri l’ambiente è ancora più semplice e piccolo, anch’esso scintillante di rame e irto di tubi; sul fondo la stanza custodisce un piccolo bunker in cui riposano le botti di brandy, difese da una portaccia di ferro e da un’arcigna serratura fiscale: nessuno può entrarvi senza la presenza di un ispettore delle Dogane, per cui mi son dovuto contentare di guardare quel ben di dio da uno spioncino. A Bologna da Villa Zarri ho potuto accarezzare le botti, e finanche assaggiarne qualcosina con la pipetta, ma solo perché ero capitato nel giorno di apertura del magazzino per le lavorazioni. Altrimenti si resta a secco: il fisco è più reale del drago delle fiabe, a custodia del tesoro davanti alla grotta. Se potesse, state sicuri che impedirebbe perfino agli angeli di abbeverarsi della loro quota legittima di distillato. Ma la cosa buona è che le Dogane ci garantiscono la durata dell’invecchiamento, così che il brandy italiano può dirsi sincero di anni, a differenza di alcuni fratelli latini un po’ sportivi.

Mario Pojer non è un novellino in quanto a brandy: la sua prima cotta risale al 1986, ben 30 anni fa. All’inizio distillando Lagarino e Schiava (vinificata in bianco), poi sperimentando con altri vitigni; oggi a Faedo si distilla con ottimi risultati perfino una varietà aromatica ibrida, il Solaris. L’idea iniziale era di entrare nel mercato domestico del brandy, ma in quegli anni stava iniziando il declino del consumo di questo distillato; trovandosi quindi una scorta imprevista di brandy, i nostri due vignaioli si sono inventati lì per lì il Merlino, il primo vin muté italiano, per utilizzarne una parte. Chapeau!

Ho potuto gustare la blanche (acquavite non invecchiata) da recenti campioni di distillazione della Pojer&Sandri, e vi assicuro della sua bontà. Fini aromi di lampone dalle uve tradizionali, e frutti gialli a profusione da quelli di Solaris: non fosse che per la feroce gradazione da alambicco (tra 75° e 80°), potresti godere di queste acquaviti allo stato naturale, senza passare per la botte, tanto appagano. Ben più di un pisco peruviano.

Ma cosa ci raccontano gli assaggi?

Pilzer fabbrica due qualità di brandy, chiamate Portegnac 9 e Portegnac 11, dal toponimo dove sorge la distilleria. Lo diresti uno spirito francese, se ti lasciassi sviare da questo nome di possibile ascendenza gallo-romana.

La prima acquavite (43°) invecchia 9 anni in botte non tostata di rovere francese da 300 litri: confezionata in un’elegante ampolla di vetro, si fa apprezzare dall’occhio prima che all’olfatto col suo brillante colore dorato intenso. Al naso offre dapprima marcati aromi di frutta gialla, che evolvono in consistenti note vanigliate e vinose, arricchite da una leggera ossidazione, che nel brandy è un pregio. La bocca è un po’ meno ampia, vivacemente alcolica, asciutta ed aromatica, con albicocca secca, legno e una delicata vaniglia a farla da padroni. Retrogusto leggermente legnoso con una discreta persistenza. Nel complesso è un brandy di corpo lieve, che convince per i suoi aromi fruttati ed un’amabile complessità.

Il secondo brandy di Pilzer è stato distillato nello stesso anno, ma riposto in botte a tostatura media per undici anni. Si presenta in una moderna bottiglia squadrata. Ne ho avuto un campione di botte, poco prima che venisse messo in commercio ufficialmente. Il colore è leggermente più scarico. Al naso questo brandy è più evoluto, fine, con aromi di frutta passita, legno di cedro, e cenni balsamici (segno di maggiore maturità) ma senza note di ossidato; in bocca è ricco, ancora un poco alcolico, ma armonico, compiuto, più dolce e vinoso del precedente, sempre con lo stesso palato delicato, e dal retrogusto fugace. Acquavite equilibrata, di minor potenza e tuttavia più suadente della sua sorella minore.

L’acquavite Divino di Pojer&Sandri (1997, 45°) si annuncia con un colore dorato simile all’undicenne di Pilzer. L’invecchiamento è di 10 anni in botte di rovere francese, con un’ulteriore sosta in acciaio per qualche anno ancora. Il naso racconta qualcosa di più complesso delle precedenti: è floreale di rosa damascena, fruttato di uva passa, ma anche balsamico di legno nobile: l’alcool aiuta a diffondere il robusto montant degli aromi. L’entrata in bocca è dolce, ancora fiori, carezzevole nonostante il grado fiero, e la sensazione al palato alquanto polputa: cenni di prugne, di un saporito rancio (le appaganti note di ossidazione tipiche di un vecchio brandy), con un finale dalle sottili pennellate di quercia. Dona grande soddisfazione, pur nella modesta persistenza del retrogusto.

Tutti questi brandy trentini sono di qualità impeccabile, e meritevoli di essere conosciuti dall’amatore o dal semplice curioso che vuole provare un distillato di vino dalle caratteristiche superiori. Nulla a che vedere con i marchi della grande distribuzione, e neppure con certi brandy più o meno blasonati di apparente pretesa ma di poca sostanza. I due produttori trentini sono gente seria e competente, che unisce l’amore per il ben fatto (eredità austro-ungarica?) al buon gusto italiano.

Una considerazione finale: il brandy italiano generalmente è distillato in alambicchi a bagnomaria e più spesso a colonna industriale, cosa che non gli permette di sviluppare quegli aromi sottili ed insieme profondi tipici del cognac o dell’armagnac, a parità di invecchiamento. Non è faccenda di merito, ma di metodo: teoricamente la quantità di calore per ottenere un dato volume di brandy è la stessa, e le curve di distillazione probabilmente non differiscono granché tra un alambicco tipo Zadra ed uno charentais od armagnacco, ma ciò che cambia è la sua qualità. Il brandy (etimologicamente brandewijn, vino bruciato) ha bisogno del fuoco diretto sotto il pentolone di rame per sviluppare appieno le sue esaltanti caratteristiche, così come una polenta cotta sulla stufa economica a legna è più saporita di quella fatta sul fornello a gas. Si tratta di fenomeni qualitativi che la scienza non potrà mai spiegare a fondo, e tuttavia il nostro palato li distingue benissimo.

 

 

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto non può ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito, e da qualche anno ne scrive in rete sotto pseudonimo.

3 Commenti

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biotipo

circa 7 anni fa - Link

come boilleur de cru c'è sicuramente da citare anche martin aurich di castel juval (a.a.)

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thomas pennazzi

circa 7 anni fa - Link

Conosco Aurich, ma non mi ha mai fatto assaggiare un suo brandy. Da quando lo farebbe, sa dirmi, per favore?

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biotipo

circa 7 anni fa - Link

in effetti, lui fa solo acquaviti e grappe

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